02/09/14

Popsophia. Maurizio Ferraris intervistato da Armando Massarenti: “… Non prendetemi per un altro”. Comicità e orrore in Friedrich Nietzsche

Forse nessuno meglio di un filosofo torinese come Maurizio Ferraris avrebbe potuto guidarci, con eleganza umorismo e ironia, dentro quell’ilaro-tragedia che fu l’esistenza di Nietzsche il quale, nei suoi viaggi di apolide attraverso Germania, Italia, Svizzera, proprio a Torino soggiornò amando quella città con entusiasmo (a partire dalla cucina: la migliore, per lui, quella piemontese). E’ questa una delle “prossimità” con Nietzsche su cui Ferraris scherza prima di inoltrarsi nei temi della comicità e dell’orrore; l’altra, più curiosa, è il suo “incontrare” Nietzsche almeno due volte l’anno, quando visita lo studio del proprio commercialista, nello stesso appartamento in cui nel 1888 il filosofo scrisse Ecce homo.
Muove dunque da Torino questo viaggio nella biografia nietzscheana, segnata negli anni della follia da scritti di involontaria comicità e dall’ “orrore di chi cade vittima dei miti da lui stesso creati”. Qui il soggiorno del filosofo, iniziato in un edificio di Piazza S.Carlo, è celebrato da una targa del 1944 di grondante retorica fascista: curiosa ironia, per un pensatore che gli anni ‘60 e ‘70 vollero considerare di sinistra, manipolazione ideologica al pari della nazificazione degli anni Trenta che ne fece un corifeo del nazismo e che propaga nel tempo i suoi effetti. Il soggiorno torinese è anche quello segnato dall’inizio della malattia mentale, manifestatasi clamorosamente nel 1889 con l’episodio - forse manipolato in parte - del cavallo maltrattato e da lui difeso e abbracciato [ma anche oggi, e senza essere Nietzsche, si è presi ahimè per matti se ci si scalmana in difesa di animali maltrattati n.d.a].
Nietzsche morirà undici anni dopo, celebre come aveva preavvertito nei propri deliri: “Tra i miei ammiratori ho solo nature elette” scriveva da Torino alla madre, e chissà se presagiva il postumo omaggio dello straussiano poema sinfonico Also sprach Zarathustra Op.30, e il potente dannunziano secondo libro delle Laudi con quel “Per la morte di un distruttore” a lui espressamente dedicata; o addirittura l’improvvisata ode di Jim Morrison nel ’68 prima di un concerto a Saratoga… Pazzo e celebre, dunque, a conclusione di un’esistenza che fu “tragedia vera e commovente”.
Da qui dunque il percorso nietzscheano tracciato da Ferraris si muove tra l’epistolario, segnato dalla comicità visionaria della follia (“Quel che nuoce alla mia modestia è che in fondo io sono tutti nomi della storia” e “Alessandro e Cesare sono le mie incarnazioni”) e dalla riflessione sulla propria esistenza: ne emergono, soprattutto attraverso Ecce homo, i tratti di un pensiero profetico e apocalittico che chiama il filosofo a definire il suo ruolo in un mondo che “fra un paio d’anni” - dice - sarà in convulsioni (la tragedia del 1914 è prevista con largo anticipo: “…molte cose che facevano parte di noi devono morire in questa transizione”). La riflessione su di sé, che diviene indagine sull’esistenza umana in generale, delinea la necessità di precisare il suo essere ("Io non innalzo nuovi idoli, gli antichi forse potrebbero imparare da me che cosa significhi avere i piedi d’argilla. Rovesciare gli idoli - così io chiamo gli ideali - ecco il mio compito"), il diritto a non esser preso per ciò che non è ("… soprattutto non prendetemi per un altro"), la certezza che un giorno il suo nome si riconnetterà a qualcosa di terribile, a una “profonda collisione della coscienza” che scardinerà come una sentenza inappellabile tutto ciò in cui si è creduto: “Io non sono un uomo, sono dinamite”, finirà per dire, consapevole al tempo stesso del rischio d’esser preso per un fondatore di religioni (“Non voglio credenti, non parlo alle masse, ho paura che un giorno mi facciano santo").
Dal rifiuto di essere “preso per un altro” al cercare sempre di “prendersi per un altro” ("Io sono tutti i nomi della storia"): ambiguità che Ferraris rintraccia in immagini-culto della modernità come il fumettistico Superman e il suo doppio Clark Kent, o come Zelig il trasformista identitario di Woody Allen: non a caso il regista è anche autore di un “Così mangiò Zarathustra” parodia dell’opera nietzscheana e di alcuni punti cardine di questa come il mito dell’eterno ritorno (“Il potente si nutrirà di alimenti ricchi, mentre i deboli spilluzzicheranno germogli e tofu, convinti che la loro sofferenza gli rimeriterà un al di là piene di cotolette d’agnello alla griglia, ma se è vero l’eterno ritorno mangeranno tofu fino alla fine dei tempi”). La follia che sprofonda l’individuo nel naufragio dei propri stessi miti è l’orrore che accomuna Nietzsche a figure ugualmente tragiche segnate dalla follia, come a Salgari, che proprio a Torino morì suicida scegliendo orribilmente di fare Harakiri; alcuni passaggi dell’epistolario farneticanti di passione per Cosima Wagner - che Nietzsche chiama Arianna - ricordano molto da vicino il delirante amore di Sandokan per Marianna (colpisce l’assonanza dei nomi). E’ una comicità “intrisa di spavento”, è l’orrore preveggente del “pensiero abissale”, del mito dell’eterno ritorno in un mondo dominato dalla volontà di potenza (l’ameba, sostiene Nietzsche, si divide in due per realizzare la propria potenza): dev’esser vero, se - come illustra fotograficamente Ferraris - la sorrentina Villa Rubinacci dove Nietzsche soggiornò dopo la definiva rinuncia al suo amore per Cosima, dove scrisse il suo “Umano troppo umano”, e dove litigò definitivamente con Richard Wagner per aver questi offeso l’amico filosofo Paul Rée chiamandolo pidocchio… ebbene questa stessa Villa è oggi rinomato matrimonificio per mafiosi…
Se dunque la vita e la fortuna di Nietzsche esercitano, oggi come ieri, una ”immediata seduzione romanzesca”, proviamo a chiederci - osserva Ferraris - che cosa sarebbe stata la sua fortuna se avesse continuato a insegnare filologia a Basilea, se avesse sposato Lou Salomé, se fosse morto a ottantanni ecc… No, non sarebbe stato lo stesso: egli è stato al contempo grande “stilista” e grande “pulcinella” della filosofia: carattere che è in parte in ogni filosofo ma che in lui si è realizzato in quantità esorbitante. “L’iperbole è il suo stile” conclude - applauditissimo - Maurizio Ferraris. Molti e alti gli aspetti e i temi del pensiero nietzscheano toccati dal filosofo in questa Lectio e trattati con profondità e leggerezza, certo più numerosi di quelli sommariamente qui condensati e scelti tra i più “spettacolari”. E chissà se nel sentir parlare di volontà di potenza e di eterno ritorno e di ameba che divide se stessa in due ecc… un sottile disagio - ammesso che abbian capito - avrà attraversato il gruppone di notabili e “Colonnelli” che, non paghi di arrivare in abbondante ritardo, hanno accettato (come fosse normale) che si creasse rapidamente per loro una “nuova” prima fila di sedie sotto il palco: in tranquillo non cale di chi è arrivato con largo anticipo per sedere “davanti” e non perdere neanche una sillaba della Lectio. Mah!... mi diverte immaginare quel che ne avrebbe detto Nietzsche…

Sara Di Giuseppe



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