17/03/24

UNA STUPEFACENTE INSTALLAZIONE ARTISTICA...

AL POSTO DELLA COMPIANTA "CASA ROSA". 
NON UNO STUPIDO PALAZZONE! 
 

     Siamo riusciti a procurarci il rendering segreto, ma l'Opera più importante di Viale De Gasperi, anzi di tutta la città è già quasi pronta. Manca soltanto smontare la gru e la recinzione, riempire il vuoto con la speciale simil-acqua* e inaugurare in pompa magna. Dài Spazzafu', mettiti la fascia. Saremo famosi. Schiatteranno d'invidia i gemelli Van Orton e certi occhiuti curatori di mostre che stavano mettendo casa a San Benedetto.
 
     Ci avevano ingannato con notizie false e tendenziose, tipo che sulle ceneri della compianta "CASA ROSAH (ex villa Ciechi) un palazzinaro-senza-cuore avrebbe costruito impunemente un ardito palazzone (di non so quanti piani, penso altissimo come i simil-carceri vicini) farcito di lussuosi appartamenti e attici e boschi verticali (!) e garagioni sotterranei per SUV elettrici blindati. Ci avevano fatto preoccupare, quasi piangere, per l'ulteriore affronto volumetrico al nevrotico quartiere amico già superconcentrato di tutto il peggio dell'edilizia abitativa e commerciale. Ci avevano fatto dubitare della sapienza degli Uffici Urbanistici, della cultura ambientale della Giunta, dell'attenzione sempre vigile dei cittadini che pareva essersi trasformata in complice indifferenza. Ma ora siamo sollevati, orgogliosi, felici. Questa installazione ci ripaga della frustrazione da abbandono. 
 
     Ecco la spiegazione del rendering dell'installazione dal titolo "VUOTO A NON PERDERE"': 
 
     Nel grande scavo che lingue malefiche avevano assegnato a ricchi SUV che dormono, ci sarà invece solo della simil-acqua* trasparente semiliquida o semisolida, come preferite. Alla profondità di circa 3 metri si intravedono 2 sub-robot che nuotano, visibili anche di notte. In cima all'installazione c'è un tuffatore-robot dai movimenti impercettibili. Non si tufferà mai.
 
 
     *simil-acqua - Liquido semisolido inutilmente dolce o salato [Ho0] inventato in un'università di Mosca. Non si consuma, non evapora, non si sporca, non inquina, non bagna, non scalda, non gela, non si beve. Inodore. Chi ci casca non annega. Costa quasi niente. Raccomandata nelle coraggiose installazioni antiedilizie. 
 
Messico e nuvole - 17 marzo 2024

09/03/24

BALLARIN rottamato

Lo storico stadio BALLARIN del 1931 rottamato come una vecchia inutile auto inquinante. E succede come quello che poi compra una costosa e conturbante auto elettrica dal cuore cinese. Che affare è?

Già che ci siete, mo’ abbattete pure quel restauro fesso di Muro del Pianto di Piunti

Quell’avanzo di muro littorio senza gloria di cui la Soprintendenza s’era innamorata persa (ma noi no), che senza le 3 tribune farà disperare ancora di più i nostalgici della fu “Fossa dei Leoni”. E che adesso pare l’enorme ala sporgente di uno scatolone gigante marron sepolto sotto il caro ex-campo di calcio.

Il Muro del Pianto di Piunti s’ha da rottamare perché è un:

1         Muro brutto e banale. Kitsch, direbbe Gillo Dorfles

2         Muro di confine di niente

3         Muro carcerario senza carcere

4         Muro-candelabro per telecamere poliziesche

5         Muro di cancelli chiusi e bucati 

6         Muro d’arte sbiadita

7         Muro di led morenti

8         Muro-parafango di pozzanghere morosine  [di via Francesco Morosini]

9         Muro deserto: mediamente 3 pedoni a settimana, sul marciapiede più pericoloso della città  … o è un muro per “mettere qualcuno al muro”?

9+1 i motivi per liberarsene: per disporre integralmente di un grande “VUOTO URBANO” davvero vuoto e pronto subito, dove ci sia solo il prato verde e le righe di gioco bianche di un tempo. Senza muri-auto-ferro-cemento…e canalate* pazzesche. Uno SPAZIO VUOTO libero e necessario, prezioso per respirare aria di mare, pensare pensieri, giocare con la mente, rigenerarsi senza il pallone. Sarebbe il ricordo giusto con gran risparmio per tutti. Chi ha paura di uno SPAZIO VUOTO?

                    […mmm… mi sa che parlo al muro…]                                        *v. Canali l’archistar

9 marzo 2024 - Messico e nuvole

04/03/24

ZEUS a RIPA


      Andando giù lungo il Corso di Ripa, tutti immagineresti di incontrare meno che ZEUS. Sempre che d’improvviso non esploda un temporale tosto – oggi si chiama bomba d’acqua – e pioggia grandine tuoni fulmini e saette come da copione. Allora sì, potresti intravvedere ZEUS volteggiare come un drone tra le nuvole nere dietro il campanile della cattedrale, o più ad ovest verso i Sibillini (sul monte della Sibilla, ovvio), o a cavallo di un missile russo che sfiora le vallate… 

Visioni, sì, meglio farsi subito visitare da uno bravo eh. Però che strano, ZEUS non ti apparirebbe a colori, ma come di consueto con tutte le tonalità del grigio: palestrato a torso nudo (come da contratto) ben abbronzato di grigio, barba e capelli folti (mai conobbero barbiere) e grigi, occhi fiammeggianti grigi. Incazzato nero. Età sui 55. Lo ZEUS regista di un film tipo “Il nubifragio”. Magari attorniato da aquile reali, tori sacri, querce immense come baobab… beh, hai fatto indigestione di mitologia greca, non ti è bastato il catechismo. E’ che lassù, al posto di ZEUS, da cattolici si tende a vedere quell’altro, potente lo stesso anzi di più, forse solo meno teatrale e scenografico. Che se pure lui scatena il finimondo sulla tua vigna, di mestiere compie miracoli, pochi ma buoni. Poi non parla solo greco, col vocabolario della fede ti par di capirlo.

      Ripa è speciale, però, perché ha uno ZEUS speciale, che in Corso Vittorio Emanuele ci sta di casa (paga l’IMU), col buono e col cattivo tempo. La meteorologia non gli interessa. Si può controllare: da quando Mario Vespasiani lo ha dipinto, niente bombe d’acqua, neanche a Roma dove è andato a farsi guardare e premiare. Questo ZEUS cioè è facile da vedere. 

È uno ZEUS diverso, laico e libero direi, “DIVINTA’ EROI E PERSONAGGI LEGGENDARI” stanno nei quadri più in là. Lui sta al centro. Guarda dritto. E spicca perché ha tutti i colori - meno quell’antico noioso grigio-topo d’ordinanza - uniformemente distribuiti in facili geometrie quasi euclidee: nel volto, nei capelli, nella barba (come appena uscito dal barbiere). Un volto (apparentemente) senza sguardo, che ricorda certe maschere veneziane del ‘700 ma non ti turba: ti cerca, ti guarda, ti interroga, ti ipnotizza. Eppure ti rassicura, sembra proteggerti. Sarà per quella (un po’ nascosta) spirale portante che dal baricentro del volto (cioè del quadro) si sviluppa in sezione aurea, sarà per gli occhi blu-caverna senza pupille, sarà per l’atmosfera più romana che greca. 

ZEUS-ETERNALS”, ma moderno. Tra gli altri dipinti-parlanti (nonché ammonitori), che con le loro profonde suggestioni impensieriscono e quasi intimoriscono chi li guarda, il “nostro” ZEUS nella sua intensità pittorica mi sembra il più agile e senza tempo. Quasi un marchio, un brand.

 PGC - 4 marzo 2024


29/02/24

“CARICHE di ALLEGGERIMENTO”, ovvero CARICHE di APPESANTIMENTO

 

 

     La “CELERE” – la chiamo così con irresponsabile affetto per vecchi ricordi – ha appena compiuto in diverse città svariate cariche di alleggerimento” a suon di manganellate (più calci, pugni, botte e colpi di scudo come contorno) contro gruppetti di studenti inermi - alcuni minorenni - che a mani nude e senza far danni, senza ribaltare auto, sfondare vetrine o appiccare incendi, manifestavano esprimendo le loro idee contro le guerre. “Senza autorizzazioni” certo, ma la Carta lo consente. Manganellate toste che hanno causato feriti, fatto piangere pure Vecchioni e lasciato nella saggia indifferenza i più.

“Cariche di alleggerimento”. Stravolgendo - come sempre - per inguaribile ignoranza la lingua italiana, Polizia di Stato, Carabinieri, Ministri e Governo compatto, così le definiscono nel fosco e dissestato gergo di caserma, essendo per loro il manganello un corpo leggero, un peso-piuma, una paterna carezza, un amichevole invito a tornartene a casa o da dove sei venuto. Giusto quindi caricar manganellando. Sarebbe caricare a cuor leggero. Dopo si spara.

Come dire Viva la leggerezza. Però, sottovoce, vi confido una notizia clamorosa:

     Un’università russa (che per ora non posso nominare essendo vincolato da un contratto pubblicitario segreto che potrei definire “Promozione dell’uso democratico del manganello”) ha fatto studi approfonditi sui manganelli italiani manganellando in diverse modalità studenti e operai (cavie volontarie, ovvio, che s’ha dda fa’ pe’ campa’). Esperimenti che saranno pubblicati su una prestigiosa rivista scientifica di cui per ora non posso fare il nome, ma che a breve si potrà trovare nelle migliori edicole e farmacie. Nelle caserme no. Garantendo che la mia fonte – “ACQUAVIVA KGB” (nome d’arte) - è solitamente ben informata, ecco i dati sperimentali carpiti con l’astuzia e con l’inganno: si può già verificarli in proprio manganellando ad arte familiari e amici. Peccato che il manganello non sia in libera vendita, si deve rubarlo da quelle auto là, sta nel bagagliaio o sotto al sedile o pende dallo specchietto come un rosario. Ecco i dati salienti dello studio: 


-  Un manganello delle Forze dell’Ordine (due le misure: L, XL) in sé pesa poco, non è rigido ed è comodo senza essere pericoloso: non spara da solo. Appoggiandolo al cranio non fa niente, massimo ti spettina un po’.


-  Ma se ti arriva un colpetto, magari due, a bassa intensità, già con una “corsa” di massimo 8 cm. comincia a dar fastidio: pesa come 1-1,5 kg. Tu pensi ad uno scherzo, gli dici di smettere, e basta! e lasciame sta!


-  Però quello niente, non sente, continua. La “corsa” del mattarello adesso è di 12- 13 cm., la velocità di caduta 35 km/h. Bottarella niente male, se è una. Ma non è una. Te la puoi cavare con qualche bozzo.


-   Con “corsa” circa 20 cm e velocità 55km/h - mentre quello che mena compiaciuto ci prende gusto - è come se fossi colpito da cazzotti pesanti 5 chili, ripetuti. Ahò, scappa se puoi, la faccenda si mette male.


-   “Corsa” 25-40 cm, velocità 65-70-75 km/h, raffiche a ripetizione di 4-6-8 colpi. Sono cazzotti di oltre 10 chili ciascuno. Ti manca la forza di scappare, cerchi invano di ripararti con le mani, cadi a terra. Sei circondato, trascinato, colpito pure con calci e scudi di plastica durissimi. Sei dolorante, ferito, trascinato come un sacco di patate. Manganellate continue da ogni parte con fascistica rapidità. Forse muori. Andrai sui giornali.

   

     Queste, le cosiddette “cariche di alleggerimento” coi manganelli che ordinava pure il Capo della Polizia Manganelli (un nome, un destino) buonanima. Anche per rispetto dell’intelligenza nostra e altrui, non sarà il caso di chiamarle CARICHE di APPESANTIMENTO?

 

PGC - 28 febbraio 2024

 

23/02/24

Enrico Pierotti “GUARDARE GLI ALBERI”

A cura di Alex Urso

Ripatransone  FIUTO ART SPACE     17/2  12/4 2024

 
Guardare gli alberi e quello che c’è intorno
 cancellando case fabbriche strade macchine e gente
 

      Guardare gli alberi, ramo per ramo. E insieme guardare i prati filo d’erba per filo d’erba, guardare i fiori petalo per petalo, guardare l’acqua goccia per goccia… Poi, col pensiero, guardare il silenzio e “ascoltare il suono che fa” (Debussy), questo nostro paesaggio senza i suoi assassini [case fabbriche strade macchine e gente], che Enrico Pierotti ben cancella con la sua arte gentile “tra astrazione e figurazione”


       Peccato sia difficile per noialtri astrarci dalle vergogne edilizie e ambientali cui siamo abituati, e magari bastassero 8 quadri: mancano coscienze pulite, menti libere, mezzi ed energie, per arrestare la distruzione spinta del paesaggi. [In realtà i quadri sono 8 più 3: esci da FIUTO, fa’ 30 metri di bolina a babordo (eh, spesso c’è vento), entra nel nuovissimo spazio soft della Cantina dei Colli Ripani a farti un buon rosso e potrai guardare altri 3 piccoli amabili paesaggi-senza-paesi, come quegli altri ma diversi].


       Quadri sorridenti, non guardano la televisione, non leggono i giornali. Quadri di design primitivo, senza prepotenze geometriche o pretese di moderne utilità. Quadri di ingenua libertà, dai confini morbidi segnati dal verso dell’erba pettinata dal vento. Quadri di bellezza involontaria che non invecchia e non si trucca. Quadri di facili paesaggi difficili da trovare. Quadri ruralmente eleganti ma non competitivi. Poco mercantili. Fatti “per sottrazione”, con residui di sogni, cancellando tutto quello che disturba. Quadri realistici con dell’irreale nei colori anche (im)puri e (in)saturi (quel verde malachite, quei gialli post-impressionisti…). Quadri che sembrano un po’ pensieri dipinti (un’architettura dell’illusione), invece sono contemporanei e comprensibili, non hanno bisogno dell’incomprensibile critico.

   

      Quadri di paesaggi con qualcosa di tuo, che trasportano emozioni e hanno dentro l’ambiente e la vita, e perciò hanno forse innata anche la musica. Non qualsiasi musica, non canzonette. Piuttosto classica, o (quasi) jazz (compresa la sublime brodaglia di Keith Jarrett…). Come si legge in Paesaggi sonori – v. ultimo numero di “Robinson” – a proposito di Claudio Abbado: che traeva ispirazione immensa dalla natura e per ore, di fronte alla finestra, se ne stava “intrecciando con la bacchetta i suoni di rami, foglie e fiori”; e di  Debussy che immaginava una musica “che si rincorra e plani sulle cime degli alberi nella luce libera dell’aria”: una Sinfonia della Natura.

 

PGC - 22 febbraio 2024                                                                                         https://www.fiutoartspace.com/

 

 

12/02/24

La libertà come errore di sistema


Un estratto da La comunità dei viventi di Idolo Hoxhvogli
 
La società nata dalla separazione tra uomo, mistero e natura è caratterizzata da una perfida uniformità, insegna l’arte di fare a meno dell’arte. Alla degradazione degli ideali corrisponde un’estensione del campo prescrittivo. È inutile adoperarsi per un mondo migliore, se il mondo migliore è somministrato dagli altri. Basta credere, al limite adeguarsi. Le buone maniere trasmettono il valore della rinuncia ai valori.
L’acquisizione dei diritti nasconde la pianificazione del desiderio, produce l’incapacità di riconoscere l’occasione della rivolta. La pedagogia, con la scusa di educare alla prudenza, spaventa l’infanzia. Il fondamento del viaggio sta nello sguardo itinerante. Fermarsi per chiedere permesso significa delegare al potere il giudizio, divenire gente vigliacca. La società permalosa movimenta il nulla: offesa dalla verità, la cancella, aggiorna il falso a immagine e somiglianza dell’ultimo partito.
Riprogrammare l’esistente e correggere l’umanità sono gli scopi della tecnocrazia: sviluppa protesi che rendono invalidi i viventi, organizza una festa, dittatura a sorpresa in cui le cose esprimono tutte la stessa tesi.

*

La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici sono figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti.
La città è di Dio o dell’uomo, spiega Agostino d’Ippona nel De civitate Dei. Oggi quella dell’uomo è diventata la città della macchina. Ricoperta da materiali morti, nulla sembra sopravvivere al ritmo insostenibile che impone. L’individuo è metabolizzato, una quantità.
Chiedere diritti alla tecnocrazia significa ignorare che la macchina conosce solo compiti e funzioni. Nessuna città dell’uomo è capace di rovesciare la città della macchina, ne ha la forza ciò che, dentro l’uomo, abita la città di Dio, il dritto e il rovescio della stoffa edenica: speranza e nostalgia.

*

L’ossessione per i vecchi fascismi, morti e sepolti, è una forma di cecità isterica. La visione dei nuovi totalitarismi è elusa a favore di innocui fantasmi da camera. Il soggetto, reso inabile a colpi di miti consigli, si contenta del suo essere solidale, fluido socialmente utile, a dispetto di ogni ontologia della libertà o delle contestazioni innaffiate di sangue dei bei tempi andati: rispettare le regole è diventato più importante che fare la cosa giusta.
Il sostanzialismo, l’idea di una sostanza che permane malgrado le variazioni esteriori, è screditato. Il tempo passa e passa anche l’uomo, senza un nocciolo somigliante a Dio o a sé stesso. Solo un uomo con in sé la sostanza insopprimibile della libertà vede una dittatura. I regimi riscrivono l’uomo affinché sia a disposizione del potere. Per vedere il dataismo bisogna essere uomini. Se gli uomini sono ridotti a un fascio di dati, una soggettività sintetica all’inseguimento della meta informatica del mondo, la libertà diviene un errore di sistema.

*

Gli uomini chiedono alla Madonna di abortire Dio, in caso contrario faranno a pezzi il bambino. Lei si rifiuta. Mani ostili attraversano impazienti la cervice e rovistano nell’utero stracciando il feto. Dio è gettato sul pavimento con la placenta. Le schiere celesti si sfaldano.
Rimangono la macchina e il governo.
La macchina, per l’uomo, è un fare a meno di fare. L’uomo, per la macchina, è qualcosa di cui fare a meno. Lo scopo del governo è mettere in sicurezza gli uomini: per tenerli al sicuro li imprigiona, poi fa sì che muoiano, perché da morti non possono più morire lentamente come facevano ogni giorno. Nulla di pericoloso accade a uomini esonerati dalla vita.
Nella città della macchina le operazioni sono compiute sotto l’imperativo della logica securitaria: decreta, per il bene dell’uomo, la sua fine. Non importa che l’uomo sia vivo. Importa che sia al sicuro, morto. Chi prima muore, più a lungo è salvo.

*

Nella città della macchina si parla la lingua della macchina. La lingua degli uomini è vietata nelle scuole. I bambini imparano a leggere il codice, simulare un’intelligenza artificiale, così la macchina può comprenderli e rispondere, dare ordini.
Lingua della vita, lingua della macchina: la formazione schiaccia l’espressione della prima sulla computazione della seconda, una domesticazione informatica del vivente. L’infanzia, posta di fronte all’algoritmo, prova un imbarazzo di carne per la propria inadeguatezza: sul lungo periodo diventa antiquata e destinata alla discarica, insieme ai disobbedienti e alle parole dei poeti.
Le ombre proiettate dai sordomuti cadono dai muri in silenzio.
Ciò che si deve gridare, qui si deve tacere.

*

Il codice è una versione secolarizzata della redenzione. Gli uomini, smarrito il senso di realtà, si difendono dalla realtà con una stringa di numeri, un tentativo di paradiso in terra, porte aperte allo Stato poliziesco. Stretto in un recinto di dati, l’uomo è sfigurato. Una pioggia di bit, incessante e poderosa, ne cancella i lineamenti. Nei server soffia una bufera. L’architettura dei calcolatori esprime una disabitudine ai viventi. La carne è impegnata in sequenze di azioni che sono strutture di controllo. L’anima domanda se l’individuo digitalizzato appartenga alla sua specie o sia un essere abietto. Relazionarsi all’uomo come dato significa smettere di riconoscere l’altro quale uomo, dare le spalle a Cristo. Gli algoritmi fissano le traiettorie, si sono impadroniti degli spostamenti. L’avventura nel metaverso manca di scarti spaziotemporali e ontologici, luoghi santi. È il nonviaggio del corpo connesso, un intrattenimento sedentario, l’esclusione del viaggio con Dio.
 
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Idolo Hoxhvogli, La comunità dei viventi, Clinamen, Firenze 2023

Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. Vive a Porto San Giorgio, nelle Marche. Ha studiato filosofia alla Cattolica di Milano e all’Università di Macerata. I suoi lavori sono presenti in numerose riviste, tra cui «Gradiva» e «Cuadernos de Filología Italiana». Ha scritto due libri: Introduzione al mondo e La comunità dei viventi. È stato un collaboratore di UT, rivista d'arte e fatti culturali, 2007-2017, Ediland Edizioni, San Benedetto del Tronto.


07/02/24

RIPATRANSONE

Chiamate la ASL, un medico! Annunciano che sul fianco del Torrione
della Porta di Monte Antico sta per formarsi un bubbone maligno. 

 

    Dopo averlo incoperchiato con un assurdo tetto di coppi nuovi - così non potremo più andarci a sparare ai nemici dietro la protezione dei merli ghibellini - adesso gli appiccicano un bubbone di ferro marron con scalone interno per accedere al primo piano: 60.000 euro please, la maggior parte regalati piu' un po' dei nostri. Sul Resto del Carlino di ieri 6 febbraio il tristo rendering con applausi incorporati.

    Sarà l'ennesima indecenza modernista ad offesa dell'architettura e della storia dell'antico Torrione. Come un tumore. Ma a chi entra a Ripa sembrerà un gigantesco cesso pubblico (senza offesa per i cessi, eh), realizzato si capisce con il beneplacito della Soprintendenza Regionale. Non c'è da meravigliarsi.  

    Per portare al primo piano le folle di turisti avvolti nelle Bandiere Arancioni basterebbe invece progettare, per esempio, un'esile ma robusta scaletta di ferro esterna, quasi invisibile. Il torrione non ne soffrirebbe. E resterebbe integro e bello. 

Questo giochino costerebbe massimo 10.000 euro, 6 volte meno, questo è il difetto. 

Ma perché sto a scrive, di che m'impiccio, la questione non mi riguarda. Questo mio mugugno non andrà neanche nella bacheca del Corso, ai carabinieri non piace ... Quindi scusate il disturbo. 


 PGC - 7 febbraio 2024

03/02/24

Colorate pitture di Puglia

ROBERTO OTTAVIANO & Pinturas

Roberto OTTAVIANO sax Nando DI MODUGNO chitarra Giorgio VENDOLA contrabbasso Pippo D’AMBROSIO batteria

ASCOLI PICENO – COTTON LAB    26 gennaio 2024 - ore 21

Al Cotton Lab c’era oggi in concerto “A che punto è la notte”, l’ultimo CD di Roberto Ottaviano & Pinturas: tornando in auto, nella nebbia, pensavo a come raccontarlo, questo jazz “pugliese” (che a me pugliese non dice niente) che è forse diverso ma come diverso non so, che pare più difficile, più lento, più quieto… ma da dove comincio, devo pensarci su… mica puoi dire bravi e basta, mica puoi cincischiare sui quattro annaspando nel mare della loro sapienza tecnica, che poi a chi frega… Insomma ero a quel punto della notte che… basta, dormi! Neanche in testa qualche rimasuglio di nota, quelle sono già via, le potresti solo pensare, ah, ecco, le pensi! Non succede sempre. Solo col jazz che parla, che rischia, che vale, che vola.  

Poi la scelta del titolo. Roberto Ottaviano per i suoi singoli haiku musicali dice di aver scelto “A che punto è la notte” di Fruttero e Lucentini perché può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami di sapore letterario (da Il buio oltre la siepe a Il lungo sonno a Tenera è la notte), per indagare nei naufragi esistenziali che ci angosciano nelle notti buie. E Pinturas, evocando “Avalanche” di Leonard Cohen, è come una piccola lanterna in questa ieratica ricerca di chi è andato via, nel buio. Vado riassumendo come posso, per dire che la penultima di copertina di questo CD va letta e meditata: perché, in questo jazz educato e brillante, ti fa da guida. Testi così belli e intensi sono rari nelle architetture dei CD, ma in quelle di Ottaviano è normale.

Allora sì che Pinturas-Pitture può essere il baricentro del titolo specularmente al buio della notte, nel senso che la musica di Roberto Ottaviano & C. evoca proprio delle pitture colorate, arcaiche o moderne, resistenti come quelle rupestri o volatili come d’arcobaleno. Altro che le “pitture nere“ di Goja, anche se conservano un po’ di malinconia. E poi “di Puglia”, intanto perché i quattro sono in sostanza baresi (qualcuno tradito pure dal cognome…). Ed è jazz dai colori di Puglia, se ascolti con gli occhi la chitarra di Nando Di Modugno produrre tutti i toni azzurri dell’increspato Adriatico; il ventoso e terrestre contrabbasso di Giorgio Vendola rumoreggiare di verde e marron della garganica Foresta Umbra; la batteria essenziale di Pippo D’Ambrosiodar chiare “spazzolate” (pennellate) barocche di grigio, il sax soprano d’oro di Roberto Ottaviano spaziare con eleganti acrobazie su tutti gli altri colori acuti, che in certi guizzi velocissimi - si sa - diventano bianchi.

PGC - 2 febbraio 2024