28/11/24

“Questo viaggio chiamavamo amore”

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos
 
Laboratorio teatrale Aoidos
con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini  percussioni

 

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  23 Novembre 2024  h21.30

 

CANTI ORFICI
di 
DINO CAMPANA  

 

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    Con Di Bonaventura non è mai solo “Recital”: è avventura e scoperta, è circumnavigazione di mondi poetici, è certezza - soprattutto - che sentiremo a lungo, dentro, quella sensazione di fiamma.
 E oggi, accanto a Dino Campana e ai suoi Canti Orfici, plana in mezzo a noi ancora una volta evocata da Vincenzo, la presenza maestosa di Carmelo Bene che la poesia di Campana volle portare in scena (Roma, 1982) affinchè il suo pubblico – migliaia e migliaia, sempre – percepisse la scintilla divina nell’umano.
 
È la tripartitura tematica dei Canti voluta da Bene per quel Recital – dalla dimensione onirica del reale, attraverso l’amore e il corpo, fino al tema del viaggio – che Di Bonaventura  qui accoglie: occasione per evocare, del maestro, l’impareggiata voce-orchestra e quell’inesausta ricerca intorno alla phoné da cui nasceva infine l’“alleanza tra l’elemento musicale e cantato con l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario”*.

       

E - quasi un miracolo, tra le raggelanti pareti dell’Ospitale - il nostro attore solista col fido djembe, le intense percussioni di Alberto Archini, creano stasera un tessuto sonoro che sfida il limite, incastona la poesia dei Canti e colorando il verso ne estrae fino all'impossibile tutta la potenza  [microfoni Sennheiser, possenti fedelissime casse RCS in alto e di sponda, mixer che Vincenzo adopera come un pianoforte…].

 

Nello spazio sciabolato dalla voce attoriale, nelle traiettorie disegnate dall’incalzare delle percussioni, la poesia di Campana irrompe con forza tellurica e trasfigura il reale, lo sospinge in una dimensione onirica e orfica sospesa tra passato e presente, lo popola di presenze misteriose e miti ancestrali. E il verso procede per immagini e suoni, per illuminazioni vitali e aeree o per incubi notturni e questi  recano con sé il panorama scheletrico del mondo.

Ladro di fuoco sente di essere Dino Campana: sacerdote di poesia, religione che esige il suo sacrificio quanto più essa si avvicina all’essenza dell’uomo; e lui, il poeta strabordante e irregolare, col suo difetto esistenziale che benpensantismo del tempo e smania di riempire i manicomi chiamarono follia, è anche suo malgrado veggente, di una visionarietà che lo scaglia al di là di sé stesso e sovverte il reale.  Il volto oscuro delle cose e del mondo si affaccia alla coscienza e questa ne avverte le segrete corrispondenze: e sono bianche rocce le mute fonti dei venti e l’immobilità dei firmamenti, ma è la notte - la buia notte dell’inconscio, o “la notte dell’uomo d’ogni tempo”, madre di tutte le forme d’esistenza - che apre porte e mondi segreti: vi tremano attese e inquietudini,  vi si materializza la Chimera, sembianza femminile, viso di leonardesca Gioconda - Dolce sul mio dolore  -  che dal mito si fa emblema di poesia: E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

“… Io che vivo al piede di innumerevoli calvari” scrive di sé il poeta. E dunque la fuga, il viaggiare inquieto: sola salvezza (è “poesia in fuga”, quella di Campana, nella definizione che ne diede  Montale) purchè sempre ci sia un altrove, non importa quanto prossimo o remoto, nel quale lo spirito possa, riconciliato con la natura, ricongiungersi ad essa; saranno allora le città, vicine o lontane, conosciute e amiche o luogo "dell'oscuro e dell'insidia"; ma sarà anche il mistero della Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo; e saranno i mari sconfinati senza orizzonti. Saranno le vele. Ah! Ch’io parta! Ch’io parta!

 

Ed è ancora viaggio, l’amore: unico e disperato - e folle, quello sì - per Sibilla Aleramo, ape regina di amori numerosi e illustri. Quell’amore offre ali al povero troviero di Parigi, orizzonti al suo sogno di libertà; e, pur guerra feroce consumata fra gelosie e liti furibonde, Questo viaggio chiamavamo amore / col nostro sangue e colle nostre lagrime.

 

Un tempo breve, e dopo saranno soltanto Castel Pulci, “ricovero dei dementi”, e gli ultimi 14 anni di vita scanditi dagli elettroshock.
Quella libertà cercata scavalcando il cancello della sua prigione, e ferendosi, e morendone di setticemia, il poeta l’aveva già sognata - vista - e detta in poesia, nel presago “Sogno di prigione”:  Io ero in piedi: sulla pampa, nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro (…) Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! O era la morte? O era la vita?...
 
Nessuna prigione più, soltanto ora il cielo infinito, non deturpato dall’ombra di nessun Dio ad accogliere il poeta, di nuovo e finalmente atomo, frammento dell’universo.
libero - lui "così diverso" - come mai il mondo aveva voluto che fosse.

 

*[G.Dotto, Vita di Carmelo Bene]
 
 
Sara Di Giuseppe - 26 novembre 2024

 

19/11/24

GLI ANELLI DI SATURNO

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos


"I poeti della Rivoluzione"
A.Blok, S.Esenin, V.Maijakovkij, B.Pasternak
Dedica al maestro Carmelo Bene
“Quattro modi diversi di morire in versi”
 
Laboratorio teatrale Aoidos
con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini alle percussioni
 
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Presentazione del libro di Vincenzo Di Bonaventura
“Il guardatore del Carmelo”
con Simone Cameli 


OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI

GROTTAMMARE ALTA  -  16 e 17 Novembre 2024  h21,30

GLI ANELLI DI SATURNO
 
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“Vi ho già risposto, Innokentij. (…) Majakovskij mi è sempre piaciuto. È come una continuazione di Dostoevskij (…). Come riesce a dire tutto, una volta per sempre, in modo implacabile e assolutamente coerente! E soprattutto, con che audacia e che slancio scaraventa le cose in faccia alla società e anche più lontano, nello spazio!”
(B. Pasternak, Dottor Živago, parte VI)

 

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A proposito di “spazio” – ma quello siderale – ecco che per cosmica analogia ti vengono in mente gli anelli di Saturno e la distanza fra loro e dal pianeta, quando osservi lo sparuto numero di spettatori – mediamente da 8 a 11  – che (dalle nostre parti, s’intende!) “affollano” i Recitals di Vincenzo Di Bonaventura dedicati, sempre, ai giganti della letteratura, della poesia, del pensiero, dall’antico ai nostri giorni.

  

Come gli anelli di Saturno, la totalità del potenziale pubblico assente sembra infatti ruotare indifferente in orbite separate e distanti (almeno i 4.800 km della “divisione Cassini”) da quelle altissime voci di letteratura e poesia: voci che non hanno uguali fra cielo e terra, la cui potenza sismica ti rigira l’anima al contrario, e che Di Bonaventura porta in scena da una vita con "patologica" tenacia.
Può darsi temano d'uscir d’orbita  e piombare in un girone d’Inferno anziché su un anello di Paradiso. 
Peccato per loro.

 

Questa sera, 17 novembre, la sala-magazzino dell’Ospitale coi suoi neon-macelleria (“teatro” si fa per dire), s’è appena desertificata del folto pubblico accorso nel pomeriggio ad ascoltare il bravo intellettuale (col libro appena uscito, va da sé). 
Restano per Di Bonaventura gli 8 (otto) spettatori regolamentari: tutti gli altri – giornalisti, politici (parlando con decenza), intellettuali, giovani (dove sono i giovani?...), benpensanti e bellagente restano nell’orbita di Saturno.
Forse è solo paura di volare

 

Il nostro volo, invece, inizia dal recente libro di Di Bonaventura “Il guardatore del Carmelo” (il suo secondo, dopo Cent’anni di Rosetitudine; il terzo con la raccolta poetica Il piacere indarno). 
In forma di romanzo, un atto d’amore per il teatro, e per la vita. E per il ricordo di Carmelo Bene.

In cabina di pilotaggio lungo l’ammaliante rotta aerea, il valentissimo Simone Cameli guida sicuro i ricordi veneziani del maestro, ne sollecita con devoto affetto le corde più sensibili; 
ne fioriscono aneddoti, riflessioni, nostalgie, come ruscelli lungo il corso maestoso del fiume. 

Su tutto campeggia, con l’ombra titanica "del Carmelo", quel totalizzante amore per il teatro che per il nostro attore è da sempre passione divorante, pienezza di vita e religione a un tempo. 

Vi si affacciano – amichevoli, amate, palpitanti come allora – figure troppo presto scomparse alle quali il libro è dedicato: di ognuna l’orma luminosa è impressa così nella vita di Vincenzo come nella lunghissima esperienza teatrale e artistica; persone “capaci di ritorcere un mondo che non voleva saperne di loro, ma loro sì, e tanto”; ombre evocate una ad una questa sera con gratitudine e nostalgia, “La cosa di loro che più mi trita dentro è il destino interrotto” scrive nella dedica.

Ed eccole, le vediamo sederci accanto, prepararsi attente all’ascolto.
Disposte come noi a farsi travolgere dal sommovimento tellurico che è ogni recital di Vincenzo: che tale è soprattutto oggi, con voce e percussioni chiamate a ricreare l’incantamento che fu lo spettacolo beniano “Quattro modi diversi di morire in versi” dedicato ai “Poeti della Rivoluzione”: Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak, 10.000 spettatori a Milano, anni ’80 del secolo scorso.

[Di quello spettacolo, Bene fece dono a Pertini incidendo in esclusiva per lui un 78 giri e sulla copertina le foto dei 4 poeti. Oggi reperto prezioso e raro.
 Altri anni, e ben altro Presidente…]

 

L’attore solista si fa oggi macchina scenica nel pieno dell’accezione beniana: la memoria metabolica procede sulle tracce di quel maestoso Recital, sui passi di Carmelo Bene che possedeva "un’orchestra al posto della voce”. E come scolpiti su un ideale Monte Rushmore nella potente sintesi che è anche omaggio all’indimenticato maestro, si stagliano i quattro poeti della Rivoluzione.

 

Tempi di leggenda furono i giorni incandescenti di quell’Ottobre rivoluzionario, ed esplosiva la fiducia in un avvenire che avrebbe disegnato, tutto intero, l’uomo nuovo.
Ci furono tempi di leggenda / ma sono passati.

E il suicidio come via d’uscita: cercata e trovata, per primo, dal giovanissimo Esenin (Volate, / fendendo le stelle. / Senza un acconto, senza libagioni /  scrive per lui Majkovskij ).
 
Esenin e la sua disperazione (Pochi di noi son salvi […] Ma chi chiamare? Con chi dividere / la triste gioia d’essere ancora vivo?)

E il grido di Majakovskij contro la guerra (Sopra i falò s’è fatto buio. Come sommergibile / s’è inabissata / l’esplosa Pietroburgo). 

E l’incredulo rabbioso dolore di Pasternak per il suicida Majakovskij (Il tuo sparo fu simile a un Etna / in un pianoro di codardi e di codarde!)

La voce attoriale si fa urlo e a tratti bisbiglio in tutt’uno con le percussioni, la memoria prodigiosa di Vincenzo disegna potente la passione civile, lo scontro frontale, il lirismo e la follia, la morte e la vita. Non ci sono resurrezioni (Resuscitami, / voglio la vita non vissuta!) e tuttavia Bisogna / strappare/ la gioia/ai giorni futuri. / In questa vita / non è difficile morire. / Vivere / è di gran lunga più difficile.
 
Una distanza cosmica separa il nostro oggi da quel breve inizio di secolo, e il nostro orecchio è coperto di grasso; anche quest’epoca / è difficiletta per la penna, ma il sortilegio è oggi questo meraviglioso volo attraverso l’utopia che scompigliando le nostre comode sicure geometrie le ricompone intorno al messaggio che Majakovskij consegnava al futuro: La parola è un condottiero della forza umana.
 
Voi che restate siate felici, scriverà quel gigante prima di calare anche lui il sipario sull’amato me stesso.

Di quei poeti Carmelo Bene aveva penetrato l’anima e l’ardente poesia, l’ansia di vita che era senso incombente di morte, “l’infinita angoscia e l’infinita volontà di bene”.
Ed oggi, ancora una volta dopo altre volte e altri anni,  Di Bonaventura li riporta a noi: ne abbiamo bisogno, in questo presente che mostra i denti “solo per stridere e addentare”.
Forse è già tardi, e questi poeti sono ormai troppo avanti per noi. 

Forse - come di Majakovskij scrisse Marina Cvetaeva - “Col suo passo veloce è arrivato lontano, molto lontano dal nostro tempo, e da qualche parte, dietro l’angolo, gli toccherà aspettarci ancora a lungo”.

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Il vostro pensiero,
sognante sul cervello rammollito, 
come un lacchè rimpinguato su un unto sofà
stuzzicherò contro l’insanguinato brandello del cuore:
mordace e impudente, schernirò a sazietà.

(V.Majakovskij, “La nuvola in calzoni” - 1914/15)
 
Sara Di Giuseppe - 19 novembre 2024

 

 

12/11/24

MINERALE O NATURALE, FORSE LEGITTIMO

30° Incontro Nazionale dei TEATRI INVISIBILI
Direzione artistica 
Laboratorio Teatrale Re Nudo
 
GLI ASPARAGI E L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
di Achille Campanile

Voci recitanti
Chiara Bellabarba, Piergiorgio Cinì, Rosanna Listrani,
 Riccardo Massacci, Andrea Mondozzi, Roberta Sperantini

Fisarmonica: Sergio Capoferri

 

Teatro dell’Olmo - San Benedetto del Tronto - 10 Novembre 2024  h18

 

Ci salutano così, “quelli di Re Nudo”, realizzatori del 30° Incontro dei Teatri Invisibili appena concluso: nel piccolo affettuoso Teatro dell’Olmo che è tutto loro, da loro creato e custodito negli anni, minuscolo atollo dove coltivare una specie protetta e a rischio come il teatro. 
Si congedano regalandoci allegria - l’umorismo un po’ folle di Achille Campanile - nel teatro oggi stracolmo, che sui muri sciorina le locandine degli “Invisibili” di questi lunghi 30 anni, quell’ ininterrotto festone tutto da riguardare, per ricordare, per sorridere…ti ricordi? ti ricordi?...

 

E oggi con Campanile (del quale perfino la data di nascita potrebbe essere uno “scherzo”, se è vero che non sarebbe nato nel 1900 - come volle far credere - ma un po’ prima, forse perché non gli piaceva – fu detto – essere considerato uomo dell’800) ri-scopriamo che si può ridere del nulla e di noi stessi, delle nostre manie, degli stereotipi, del conformismo, delle convenzioni, del nostro stesso linguaggio; che si può scherzare “sul serio”, giacchè il reale è così assurdo da non richiedere sforzo per estrarne il lato comico.

 

L’umorismo d’altronde, già difeso da Pirandello nel saggio omonimo, vinceva proprio nei primi del ‘900 il pregiudizio accademico che negava dignità artistica al comico e lo relegava a rango minore nel panorama letterario. 
Qui oggi, nei densissimi 60 minuti che ci incollano ai gradoni del teatro, sperimentiamo dialogo per dialogo, scena dopo scena, il meglio del Campanile “depistatore” del linguaggio, suo bersaglio prediletto. Gioca coi paradossi e i non-sense, l’umorismo di Campanile che funambolico maneggia le strategie dell’assurdo e risente dei procedimenti sintetici e dinamici tipici del teatro futurista (L.Lanna); che, soprattutto, prende il linguaggio per i fondelli (U.Eco).

 

Giacchè sono giochi di prestigio i folgoranti atti unici, le tragedie in due battute, i dialoghi stranianti; le parole volteggiano e ricadono giù trasformate, dopo aver disegnato labirinti di non-senso, rifiutato ogni ordine prestabilito, sovvertito i rapporti fra le cose e delle cose con il reale. Obiettivo raggiunto, complice l’abilità degli interpreti, se sbalorditi percepiamo il surreale nella banalità e nel conformismo, negli stereotipi della conversazione quotidiana, se le nostre vicende di “animali parlanti” ci appaiono all’improvviso mutate di senso e di contesto al solo cambiare di accento o di sillaba.

 

Un reale visto in controluce che può con nonchalance trasformare in schermaglia - tra il Cameriere e L’uomo e La donna seduti al tavolo - la banalissima ordinazione di un’Acqua minerale: in cui, per parossistica acrobatica deviazione di significati, minerale e naturale mutano di ambito fino a spostarsi sul piano esistenziale, divenire surreale disputa sulla collocazione giuridica di un figlio a seconda che sia “naturale” o “legittimo”, fino al conclusivo deflagrante acme nel quale “Mio figlio è minerale e beve acqua legittima!”.

Di straniamento in straniamento, a riportarci nel reale tra una scena e l’altra è l’ammaliante fisarmonica del maestro Capoferri; intermezzi di preziose suggestioni classiche ma anche scanzonate sottolineature, ironiche e discrete, del linguaggio scenico là dove quest’ultimo si fa naturale virtuosismo senza affanno ne’ spettacolo. Come ne La quercia del Tasso, vertiginosa sarabanda linguistica in cui financo la burocrazia capitolina è rappresentata in affanno nello stabilire la quota da pagare per la sosta del tasso sotto la quercia del Tasso, “Cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso, e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso”.

 

Dal trascinante assolo del tasso, all’esilarante coralità della Visita di condoglianze e oltre, il vorticoso deragliare di significati disegna una realtà parallela, dove sono soprattutto l’attendibilità della parola e la presunzione del linguaggio come decrittazione del mondo ad essere messe in discussione. 

Ed è, la realtà disegnata da Campanile, vicina in modo sorprendente al nostro tempo, alle dinamiche manipolatorie della contesa politica, all’inversione strumentale dei significati. 

Proprio come ne La Rivoluzione, farsa che vede un funzionario imbecille (ma va’?) incapace di gestire il  tumulto di piazza e alle prese con un braccio artificiale che, ingovernabile, scatta da solo passando meccanicamente dal pugno chiuso al saluto littorio (uguale al La Russa senatore nei disegni di Stefano Disegni) finchè, bloccato il braccio in posizione innaturale, verranno acclamati quel gesto e quella posizione come simboli di un nuovo partito e di una nuova idealità, quella che si attendeva, e con essi si acclamerà l’uomo del destino, il nostro condottiero, evviva evviva
Surreale ma anche no, se guardiamo al nostro tempo e alle  dinamiche manipolatorie del dibattito, politico e non solo.

Cala idealmente il sipario che non c’è su questo spettacolo: i valentissimi interpreti hanno affettuosamente giocato col ricordo di un umorista saggio e profondo, “gioioso anarchico della scrittura”, prezioso nel nostro presente di imbarbarimento della parola scritta e parlata. 
Genio visionario, lo ha definito qualcuno, capace di “rendere significante ciò che in apparenza è privo di significato”; noi potremmo definirlo, a ragione, un genio naturale, forse anche minerale, sicuramente legittimo.

Sara Di Giuseppe - 12 novembre 2024

04/11/24

DUE FINLANDESI ALL’INFERNO

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos
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INFERNA DANCTIS ORKESTRA
[CANTI XIII – XVIII]
con Vincenzo Di Bonaventura e Alberto Archini

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  2 Novembre 2024  h21,30

 

 

DUE FINLANDESI ALL’INFERNO
 

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi
(Inferno, XIII, v.37)

 


Eccola tornare in orbita, stasera, la nostra spaziale navicella poetico-musicale con dentro noi e Di Bonaventura attore solista e l’Inferno dantesco; ma stavolta alle percussioni di Archini Di Bonaventura - che da sole fanno già un’orchestra - si aggiungono le modulazioni folli e stranianti che i finlandesi Pohjonen e Kosminen estraggono dalla fisarmonica – in “Kluster” – sovvertendone schemi e confini e facendoti “dimenticare tutto ciò che pensavi di sapere sulla fisarmonica”… 

 

[Vetusta invece, stasera, l’attrezzatura sonora del nostro attore-regista-percussionista-tecnico del suono, quella sua nuova gliel’hanno rubata: arrebbate, dicesi in rosetano - ma in “quello di via Mincio” intendiamoci, mica abruzzese e basta - perché quando Vincenzo sfodera la sua “rosetitudine” significa che quella lingua lì ci vuole, e non altra]

 

E non c’è inferno più Inferno di questo, non c’è atmosfera più cupa di quella dei canti dal XIII (il più lugubre) al XVIII (con la rappresentazione della più bassa degradazione dell’uomo).  

 

Le sonorità percussive dilagano e incalzano in tutt’uno col respiro del metro dantesco, lo incastonano in un crescendo ribollente nel quale la voce dei dannati si deforma e si distorce in gorgoglio aspro; e alle tonanti percussioni d'atmosfera si sommano gli effetti stranianti della “fisarmonica preparata” di Pohjonen che “sembra in grado di scatenare gli elementi della natura”, magma vulcanico e venti e gemiti e scricchiolii…

 

Sembra scagli anche noi, questa ruvida cornice sonora, dentro la selva dei suicidi del Canto XIII: parole e sangue e strida aspre e orride delle Arpìe. 

Uomini fummo e or siam fatti sterpi: i dannati non sono imprigionati nei rami e negli sterpi, essi “sono” rami e sterpi, condizioni innaturali come innaturale è la dissociazione tra corpo e spirito prodotta dal suicidio.
Sanguinano quegli sterpi, se spezzati: uno di essi è Pier Della Vigna – giurista, rimatore della Scuola siciliana, protonotaro e logotetafedele segretario alla corte di Federico II stupor mundi - suicida per l’ingiusta accusa di tradimento. Dante ne è colpito con insopportabile intensità, la sorte di quel dannato lo riconduce penosamente alle ragioni della propria vicenda politica, a quella connaturata dirittura morale che rifiuta il compromesso, al doloroso distacco dell’esilio.

 

E canti appassionatamente “politici“ sono infatti questi: dietro il destino personale dei dannati si staglia la tragedia di Firenze - città confusa e violenta, vittima degli odi di parte - e vi si legge la decadenza di una società che, come nel nostro infelice presente, eleva denaro e potere “a principio di valutazione dell’uomo”. 

È una Firenze ormai perduta per sempre: quella che era già affiorata al ricordo di Dante nel dolente incontro con Brunetto Latini, del quale indelebile è in la mente (…) la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora /  m’insegnavate come l’uom s’etterna.

Quella Firenze non c’è più: materialismo affaristico, “invidia, avarizia, superbia” vi dominano, su di essi poggia la corrotta società mercantile dell’epoca (e sembra di parlare del nostro oggi).  

Gerione, mostro infernale, ne è rappresentazione: simbolo della frode, la testa di uomo e la guizzante coda velenosa, in esso culminano la polemica antifiorentina e la condanna del presente: sul suo dorso Dante e Virgilio, in un crescendo di  emozioni e timori, in un volo plasticamente disegnato tra il realistico e il meraviglioso, supereranno  il baratro che li separa dalle Malebolge e dalla più cupa rappresentazione del degrado umano.

 

Qui il ritmo delle percussioni,  il “sabba contemporaneo” e gli echi ancestrali della fisarmonica di Pohjonen si fanno ossessivi e ti afferrano, ti scagliano lontano come Dante e Virgilio sulla groppa di Gerione. Come loro atterreremo dopo aver sperimentato la vertigine.

 

È forse frutto del “volo”, questa sorta di fuggevolissima ipnosi che d’un tratto mi fa “vedere” la sala del grottammarese Ospitale piena all’inverosimile di gente, anche in piedi? 
Di intellettuali, giornalisti, assessori alla cultura (parlandone da svegli), studenti, insegnanti, circoli e associazioni culturali (si fa per dire), rappresentanti delle istituzioni...
Giacchè è di Dante che si parla stasera, e del poema più alto che mai sia stato concepito fra cielo e terra…
 
Ebbene no, è solo un attimo di felice trance: torno alla nuda realtà, la sala conta ancora 9 (nove!) spettatori, forse meno.

 

Ma tocca terra
 ancora una volta, la nostra navicella: e noi pochi sì, noi abbiamo visto cose che voi umani…
 
Sara Di Giuseppe - 4 novembre 2024