16/01/25

UN UOMO E ALTRI ANIMALI

“BESTIARIO PROSSIMO”

mostra personale di CESARE D’ANTONIO

San Benedetto del Tronto — Palazzina Azzurra    dal 7 dicembre '24 al 19 gennaio '25

      Pensiamo subito a quel lontano illuminante libro di Brunella Gasperini, “UNA DONNA E ALTRI ANIMALI” (1978), nello scorrere il pieghevole in cui Cesare D’Antonio presenta la sua mostra “BESTIARIO PROSSIMO” soffermandosi a lungo sull’affascinante esplorazione del legame tra l’umanità e il regno animale

Attraverso le svariate tecniche artistiche che gli sono congeniali, ma con rinnovati ironia critica, sguardo prismatico, passione ambientale e leggerezza, l’autore rappresenta un mondo visionario - tra il reale e il fantastico - di animali allegoricamente modificati o troppo umanizzati. [meno cani e gatti, ormai fuori concorso…].


     Contrariamente ai bestiari medioevali che raccontavano gli avventurosi incanti di quando uomini e animali convivevano democraticamente, D’Antonio agli animali già stravolti dai troppi nostri agenti inquinanti trasforma pure il nome (conservandoceli però bizzarri e simpatici). 

Quelli rimasti all’apparenza uguali, come per es. i “pinguini del Capo”, li mette in fila come soldatini dietro al loro vanitoso comandante dal rosso e caldo piumino di marca; poi tra quelli atavicamente gregari, le pecore in gregge, voilà l’unica pecora-nera, la bastian contraria: a somiglianza del solitario e raro umano che coraggioso e “mai sotto dettatura” si ribella al tran tran del branco. Certo, difficile che l’uomo ce la faccia… ma anche la pecora.


     Mostra affascinante, urgente e profondamente didattica, come le indimenticabili di Gianluigi Capriotti, anche quelle con gli animali protagonisti. 

E’ con mostre come questa, che la Palazzina Azzurra si fa quasi perdonare certi imbarazzanti eventi tipo la recente “Prospettiva Van Orton”, che ce la sequestrò - per 7 mesi, quasi 3 stagioni! e a pagamento! - imponendoci il NIENT pompato dal marketing. 

Ma quanta fatica andarci, nella Palazzina sprofondata nell’ingiustificato buio cosmico, isolata dalle invalicabili labirintiche barriere dei lavori sul lungomare. 

Solo le 50 abusive anatre dell’Albula son venute al volo quando gli pareva, pure fuori orario! Abituate libere - eppur quasi in cattività - ad essere guardate più da sfaccendati umani che dalle loro simili, in Palazzina si son divertite un sacco con animali strani o mai visti, con un uomo che li ha portati, e ancora con altri uomini e altri animali.  

 

PGC - 15 gennaio 2025

07/01/25

Per Alfonso Vacchi era sempre il 25 Aprile

 
Caro Giorgio, non ho conosciuto la persona ma sottoscrivo quanto hai scritto (letto con grave malinconia). Firmo il tuo appello! 

Se mai un giorno la piazzetta sarà onorata dal suo nome, quel giorno ci sarò. 
Un saluto affettuoso, Eugenio

06/01/25

R I S E R V A T O V E S C O V O

Quando arrivano (sonnacchiosi, come tutte le domeniche) i contrattuali Vigili armati della Polizia Locale dell’Unione Montana Monti Azzurri (sic) di San Ginesio -MC e trovano davanti al Duomo quella santa (ma loro non lo sanno) Peugeot azzurra parcheggiata di traverso nel posto riservato ai portatori di handicap (!) e ai motocicli - cartello segnaletico messo a cazzo (alla ripana), strisce gialle e bianche a terra scolorite (alla ripana), ma è chiarissimo che quel divieto c’è lì da sempre! - non gli par vero di mollarle come minimo una multona da 330 a 990 euro, oltre a far le obbligatorie misurazioni di tasso alcolico e droghe e a sequestrargli la patente, a uno che parcheggia tutto di traverso dove non deve. 

Ma sembra che qualcuno della piazza gridi “aho’… la Peugeot è del Vescovo… sta là, là dentro al Duomo! Coosa? Azz! I due vigili si fanno pallidi, si guardano, guardano l’auto blu, pensano! Ma uno di loro non si perde d’animo, con sprezzo del pericolo entra in Duomo, ne esce, scribacchia con grafia incerta da scuola elementare:             

RISERVATO

VESCOVO

su un foglietto che mette sotto il tergicristallo della sacra Peugeot, si guarda intorno, poi salta nell’auto che lo aspetta col motore acceso e tela! (A Roma dicono se so’ ddati). Non so se dopo sia arrivato un portatore di handicap che non ha potuto parcheggiare nel posto a lui riservato ma cristianamente rubato dal Vescovo.

Cose che succedono a Ripa e nel mondo al contrari.
 
PGC - 5 gennaio 2025


 

03/01/25

TEATRO È: UN TAPPETO IRANIANO

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL

Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra

A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos

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DON CHISCIOTTE

di

Miguel de Cervantes 

 

Riscrittura scenica 

di e con 

Vincenzo Di Bonaventura 

 

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI

GROTTAMMARE ALTA  -  28 - 29 dicembre 2024



TEATRO È : UN TAPPETO IRANIANO

  “…E il teatro non è soltanto i suoi spettacoli; non è soltanto una forma artistica, ma una forma di essere e di reagire. È tradizione e invenzione di tradizione”.

       (Eugenio Barba)


      “Sono uno stradarolo” dice di sé Di Bonaventura, perché “appartengo alla vecchia categoria dei teatranti che migrano”, nella più pura tradizione della Commedia dell’Arte, “il più bel teatro del mondo”. 

 

      Con lui anche il romanzo può farsi teatro di strada, e ogni luogo può per lui essere teatro e palcoscenico. Oggi, al centro del palco-che-non-c’è, è un tappeto iraniano (da “una delle civiltà più antiche della storia umana, e nella quale sicuramente sono nati i primi teatri e i primi culti ad essi connessi”*) l’oggetto scenico che perimetra l’azione teatrale e simbolicamente scandisce i ruoli cangianti dell’unico soggetto-attore. 

L’essere alternatamente sopra il parallelepipedo che il tappeto ricopre e lo scendere da questo codifica rispettivamente l’entrata dell’attore nel personaggio e l’uscita da questo e l’interazione con i presenti.


      Ed ecco allora il teatro divenire atto totale, vivere nello Spazio Vuoto - alla Peter Brook - nel quale ciò che conta è l’umano e il rapporto alchemico di questo col pubblico; ecco l’attore superare il teatro accademico e “mortale”, eccolo farsi giullare alla maniera di Dario Fo, reinventare il testo e sovvertirne il linguaggio; eccolo sdoppiarsi ed essere ora il Cavaliere dalla Triste Figura con la sua lingua paludata e aulica, ora il fido scudiero Sancio dal travolgente eloquio abruzzese-forse-rosetano. Ecco la scena diventare laboratorio linguistico e ricreare codici espressivi popolari e antichi, di rara efficacia; pari, per pathos e forza drammatica -  Vincenzo dixit - alla lingua dei tragici greci.

 

       Si è dotato di katana, il nostro Di Bonaventura, per meglio seminare terrore e distruzione intorno: perché è questo che dovrà fare il nobile Don Chisciotte, così appassionato di libri di cavalleria da consumare in quella lettura giorni interi cosicchè sia per il non dormire sia per il troppo leggere gli si seccò il cervello e finì per perdere la ragione.

 

“Partì un bel mattino di luglio 

Per conquistare il bello, il vero, il giusto”

(Nazim Hikmet)

 

È struggente, la follia di questo "cavaliere invincibile degli assetati" autoproclamatosi cavaliere errante, venturiero e prigioniero della vezzosa senza pari Dulcinea del Toboso; comico e insieme commovente il suo scambiare la modesta locanda per un avito maniero, le avventuriere di strada per nobili pulzelle, i mulini a vento per trenta o quaranta giganti e io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie. Comico il suo trasfigurare la figlia de lu purcare – così nel dialetto di Sancio – cioè la nerboruta contadina Aldonza di petto e lombi possenti, per la soave Dulcinea del Toboso, che merita d’essere signora dell’universo intero …

 

      Gli fanno da contraltare Sancio e la sua ruvida concretezza, e quel suo dialetto che è ogni volta eruzione  incontenibile: di lamenti per il padrone ridotto a mal partito; di frizzi e lazzi per l’abbaglio che gli fa vedere Dulcinea nella muscolosa Aldonza; di umana pietà per quell’amore allucinato, per quella lettera a Dulcinea che il cavaliere gli affiderà: che la consegni, e solo se la risposta sarà diversa da quella sperata, allora impazzirò davvero, e come tale non sarò più capace di sentire affanni

 

Ma è oltre la comicità giullaresca, el ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, antieroe così lontano dall’eroismo dei poemi medievali (Ha un’anima trasparente dice di lui il buon Sancio, e Dostoevskij vi si ispirerà per “L’Idiota”) scagliato in una modernità in cui la fede nell’agire umano ha lasciato il posto all’incertezza e al disinganno.

 

Ariémecene a la casa!, “Torniamocene a casa!”, è il lamento costante di Sancio: capace, benché villano e credulone di misurare la distanza tra la realtà e la promessa folle del suo padrone “che in un girar di mano lo rendesse signore di un'isola, ed egli ve lo lascerebbe governatore”; vorrebbe ricondurre entro i confini del reale il sogno smarrito del cavaliere, gli ricorda che i cavalieri antichi impazzivano per un motivo, ma Don Chisciotte sa che non v’è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perché al mondo. 

 

E lo sgangherato hidalgo - “poeta, folle, mendicante” - nel microcosmo isolato e visionario che lo ingabbia diviene metafora universale di ogni ricerca di libertà percepita come “follia”; di ogni guerra, combattuta lancia in resta e già in partenza perduta, contro i muri alti delle convenzioni, delle ipocrisie, dei poteri consolidati. E il suo impazzare è forse l’illusione che addita “la maglia rotta nella rete”, il volo verso la libertà sempre pagato a caro prezzo.

 

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“….ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati

tu continuerai a vivere come una fiamma

nel tuo pesante guscio di ferro

   e Dulcinea

sarà ogni giorno più bella”

 

(Nazim Hikmet, Don Chisciotte, 1947)

 

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*Valeria Ianniello – “Viaggio nel teatro iraniano moderno

                                    fra tradizione e invenzione di tradizione”, 2015

 

Sara Di Giuseppe - 31 dicembre 2024


 

27/12/24

POLONIA – AMERICA A/R


     Per noi è un viaggio da niente, oggi, POLONIA – AMERICA, Andata… e magari Ritorno. Ma se per un profugo impetuoso (senza Samsonite, in compenso con famiglia…) perfino oggi è ancora quasi come avventurarsi in mare su un gommone bucato, o come scavalcare con sprezzo del pericolo - restandone vivi - il muro di confine tra Messico e California, figurarsi cosa comportava 30 anni fa trasmigrare - come speranzosi emigranti, mica come turisti-viaggiatori - dalla depressa Alta Slesia di Polonia post-sovietica dal sapore di carbone alla rutilante super industrializzata “Detroit dell’auto” (per di più già decadente e problematica): peggio di un trauma esistenziale per Radek (Radosław) Szlaga figlio, giovane artista dell’Accademia di Belle Arti di Poznan, non fine battilastra o saldatore meccanico Polski-FIAT.  

      Conscio della sua formazione di artista multidisciplinare, ma anche per indole, Radek farà proprio l’artista. Di professione, con una sua specificità, non superficialmente. 

Fin dall’inizio lui attraverso l’arte osserva il presente, studia come vivono e come cambiano al momento le sue due società di riferimento: l’aspetto quotidiano della gente e dell’ambiente, le tradizioni invisibili ma invadenti, le culture innate o imposte (contrastanti e retrive), i sogni estinti, i sacri simboli confusi con la pubblicità, l’asfissiante volatile politica, i tanti fallimenti obbligati. L’America consumistica e ritmica che gli è stata assegnata lui la scannerizza con sensibilità e nostalgia, “con gli occhi impastati di swing e di lacrime”, canterebbe forse Paolo Conte. Ma anche con l’istintiva romantica introspettiva ironia di improvvisato giornalista. 

  

Non indugia nella rappresentazione di ameni paesaggi di boschi laghi e città, di nature morte vive, di invasioni armate di fiori e colori, di sante madonne con bambino zitto (in Polonia vanno sempre), non perde tempo in ritratti di foto preparate, nè adopera la furba tecnica - più lucrosa che pensosa - di certa rampante arte contemporanea buona per le mode e il successo facile. Si costruisce la sua strada. 


Gli otto quadri medio-piccoli realizzati apposta per FIUTO sono fedeli testimonianze di una vita complicata e intimamente sdoppiata, vissuta nel profondo come può fare un artista reporter, “cronista” di due epoche in una, quindi pure di due sé stesso. Filosofia popolare e democratica rappresentata di slancio, con stile minimalista/espressionista essenziale, senza ripensamenti.

 

      In “Pan RDK Malarstwo”, locandina della mostra, la riga orizzontale che divide in due l’inquadratura ben rappresenta - dissolte e distanti, non parallele né consecutive ma sovrapposte nel loro tempo - le due vite, nei due mondi, di due ragazzi in una stanza - in realtà è uno solo - con alle spalle la finestra. Guardano. Ma è quella frattura che…  o chissà, toh, forse è il riflesso del vetro… che “inventa” l’altro ragazzo (quello ancora in Polonia). Vicini (come fratelli) guardano, sorridono, un po’ scherzano: uno più moderno, più inserito dell’altro, più cresciuto, più scafato, più sicuro (quella mano sulla spalla…). Tratteggi forti di matita quasi violenti, segni rapidi, decisi. Non c’è altro, ma quanti pensieri dipinti! Potrebbe essere il frammento dello storyboard di un film o di un fumetto.

      [Alex mi dice si ispiri proprio alle popolari (e spesso assurde) storie di BEAVIS AND BUTT-HEAD]

 

 

     Negli altri 7 quadri dove compaiono, quasi per caso, anche innocui animali (come due mucche credo polacche), si rimane sempre nell’astratto, ogni figura trasmette pensieri. Tanta natura e niente automobili (strano, in America), solo oggetti comuni senza design, la brutta moderna sedia colorata (qui grigia) di plastica che usiamo tutti - comoda, costa poco, prodotta a milioni, più si rompono più inquinano - messa accanto a dei salsicciotti tipici e alla più conosciuta bottiglia nazionale di Vodka con l’etichetta contraffatta (non riesco a tradurla). 

Uno si chiede che c’entrano, cosa vuol dire, però le guardi, ti fermi, le riguardi, pensi. Cose così. Semplici. Comprensibili. E’ arte contemporanea! Poi il quadro “Confession”: terribile, carcerario, tratteggi d’angoscia in croce ortogonali, il prete importante (con la stola ben in vista) dalle spaventose narici che confessa dei timorosi preti piccoli senza peccati. Atmosfera di medioevo, da Chiesa di tutti i Santi di Gliwice. Quando si dice l’autobiografia dell’infanzia.

      Non è una mostra leggera, ricreativa, natalizia. Forse Alex stavolta ce l’ha portata, a ragione, più per sollecitarci emozioni intime, dati i tempi. Inaugurata di sera sotto i portici bui di Ripa - con freddo e vento, neve non ancora… (atmosfera Vecchia Polonia) ha fatto contento Radek (sempre serio come un polacco serio), anche per l’orgogliosa presenza dell’Istituto di Cultura Polacco di Roma. Comunque, POLONIA – AMERICA  A/R son viaggi che ormai lui si fa in scioltezza, come fare un quadro… 

 

Buona mostra!  Queste sono solo le mie “Impressioni di Dicembre”  [se era Settembre venivano meglio]

 
PGC - 21 dicembre 2024

 

17/12/24

La complessità del male

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
a cura di 
Vincenzo Di Bonaventura e Laboratorio teatrale Aoidos
 
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DELITTO E CASTIGO
di 
F. Dostoevskij
 
 
Ri-scrittura scenica di e con 
Simone Cameli
 
OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA    14 -15 Dicembre 2024  h21,30
 
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LA COMPLESSITÀ DEL MALE
 

“Ecco dunque il peccato di Raskol’nikov; l’orgoglio e la superbia; l’infrazione della legge e l’affermazione di sé; la trasgressione della norma e la pretesa d’una libertà illimitata: la ribellione e il titanismo.”

(L.Pareyson, Il male in Dostoevskij)

 

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Essere unico attore e interpretare più parti; uscire da un personaggio ed entrare in un altro e di nuovo uscire da questo e nel mentre spiegare al pubblico ciò che si sta facendo: è ciò che l’eccellente Simone realizza stasera - nel "suo" DELITTO E CASTIGO - ponendosi nel solco dell’intuizione teatrale di Dario Fo - l’attore unico che interpreta più ruoli - e calcando l’orma dei maestri, da Carmelo Bene fino a Di Bonaventura. 
 
È quest’ultimo, nel suo momento conversazionale col pubblico – quasi numeroso, stasera, in libera uscita dalla catalessi culturale dei luoghi, chissà se dura – a ricordare la figura dell’amico e artista, il giovane Giuseppe Plebani troppo presto scomparso e a cui l’intera rassegna Verfremdungseffekt Testimonial è dedicata; a sottolineare ancora come in questo teatro del testimone l’attore sia anche e soprattutto artefice: poiché è colui che “supera” il testo (in quello che egli chiama attentato al testo: per di più, oggi, non opera teatrale ma romanzo) e nella ri-scrittura scenica lo ri-crea e nel rappresentarlo opera il brechtiano “straniamento” - Verfremdungseffekt - tanto sulla scia delle avanguardie teatrali (da Lecoq a Brook, a Bene, a Fo) quanto attingendo all’antico, al dramma classico e alla Commedia dell'Arte. 
 
Nella spoglia scenografia dell’inospitale Ospitale - che è quasi lo “spazio vuoto” di Peter Brook, “necessario” perché al centro vi sia l'elemento umano - agiscono il Simone/Raskol’nikov e il  Simone/Petrovič Giudice Istruttore, e ancora il Simone/Raskol’nikov deportato in Siberia: nei monologhi di Raskol’nikov, nelle trappole logiche del sulfureo Petrovič si delineano gli imponenti temi etici del romanzo e l'essere, questo, manifesto esistenziale sulla condizione umana, sulla ricerca di giustizia e sul concetto di colpa.
 
Vi è un misfatto, organizzato con accurata progettazione, ma il misfatto risponde ad un’esigenza impellente di giustizia del protagonista, all’impossibilità di sopportare l'idea che la propria vita e quella di altri sia rovinata da un essere spregevole, l'usuraia in questo caso (Io non ho ucciso una persona, io…io… ho ucciso un principio).

Giustizialismo che lo rende giudice e carnefice al tempo stesso: l’intrinseca "giustizia" che Raskol’nikov vede nel delitto - l’idea universale di giustizia è infatti per la sua natura ideale, inattuabile e imperfetta, e dunque “si può rinunciare alla perfezione” - si legittima storicamente poiché - come argomenta in uno slancio superomistico - …tutti i legislatori, i fondatori della società, dai più antichi e continuando con Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via erano criminali per il solo fatto che facendo una nuova legge infrangevano quella precedente che la società considerava sacra. […] Ciò che è notevole è che la maggior parte di questi benefattori e fondatori dell’umanità ha versato fiumi di sangue. 

Paradosso che confliggerà ben presto con la stessa volontà di giustizia del giovane e lo precipiterà nell’inferno del dissidio interiore che lo perderà. 

La legge morale - come tutto ciò che è universale ed esiste indipendentemente dalla nostra volontà, a cominciare dalle leggi di natura - non può essere razionalizzata o dimostrata: nella pretesa di farlo, Raskol’nikov pecca di superbia e viola, nel delitto, la legge morale per eccellenza, la sacralità della vita che è indipendente dalla sua utilità o nocività nel consorzio umano. E si rende, infine, artefice della propria rovina. 
 
Un fascio di luce abbagliante sull’eterno umano dramma è quello che il nostro Simone, attore/artefice, estrae dal romanzo.
 
Nei monologhi della sofferta introspezione del giovane, nel groviglio di circostanze scandagliate dal giudice istruttore, nella volontà di espiazione e riscatto di un Raskol’nikov ormai deportato, l’arte scenica ci trasmette in ogni vibrazione il conflitto interiore, la dicotomia tra delitto e desiderio di giustizia, tra questo e la giustizia stessa come entità superiore e impersonale.
Ma nel buio che scende sulla sala e sul pubblico e sull’ultima battuta - Solo sette anni, ancora sette anni!... - il nostro Simone/Raskol’nikov sembra dirci che gli interrogativi restano irrisolti, che "la realtà del male [....] è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile che conferisce alla condizione dell'uomo un carattere eminentemente tragico" (L.Pareyson). 

Così come la complessità del male si sottrae ieri come oggi alle facili o consolatorie schematizzazioni, e lo sguardo che scandaglia gli abissi dell’umano può solo ritrarsene, senza portare con sé risposta alcuna.


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...Ma qui inizia un’altra storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua progressiva rigenerazione, del suo passaggio da un mondo ad un altro, quella del suo ingresso in una realtà che fino a quel momento non aveva nemmeno immaginato. Questo potrebbe essere il tema di un nuovo racconto, ma quello presente è giunto alla fine.

 

(F.Dostoevskij, Delitto e Castigo – Epilogo, II)

 

Sara Di Giuseppe - 17 dicembre 2024