11/12/24

“Suonerò per te, stanotte”

 TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos


Il CONTRABBASSO 
di
Patrick Süskind

Ri-scrittura scenica di e con Vincenzo Di Bonaventura
e con 
Alberto Archini alle percussioni

A cura di
 Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos 


OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  7 e 8 Dicembre 2024  h21,30


“Suonerò per te, stanotte”

 

Franz, bassista - seconda fila terzo leggìo - dell’Orchestra di Stato di Berlino, uomo qualunque, entra in scena vociando: cappotto cammello, piglio risoluto, gestualità ampia, monologando disserta di sé, di musica, di orchestre, di canto e d’altro ancora. Apostrofa di tanto in tanto un amico inventato, là, in platea, poi riprende l'alluvionale flusso di coscienza...

 

Ma noi sappiamo di aver davanti il nostro Di Bonaventura attore, regista, sceneggiatore, musicista, tecnico del suono e fabulatore d’incanto; "macchina attoriale", insomma, che allo stesso modo del contrabbasso ha in sé la  potenza di un’intera orchestra.

Sappiamo poi che lo spettacolo che vedremo stasera “già domani sarà diverso”: perché oggi la ri-scrittura scenica di questo Contrabbasso di Süskind ci offre un testo metabolizzato nell’inconscio attoriale e ”pulsato dal cuore” verso noi  spettatori; e domani quel “testo a monte” – come nel dettato beniano – ancora ri-creato dopo essere stato “dimenticato”, sarà nuovo e altro. 
E ancora noi spettatori ne saremo raggiunti fin nell’io profondo: tanto da poter essere vero, per dirla con Carmelo Bene, che potremmo "non saper raccontare ciò da cui siamo stati posseduti nel nostro abbandono al teatro”.

 

Stasera è monologo  - tragicomico - per attore solista, con batteria al completo per jazzistiche sottolineature, con qua e là travolgenti assaggi di grande musica nel flusso dissertatorio del bassista Franz, nello spazio claustrofobico della stanza insonorizzata dove si esercita col suo strumento, a poche ore dalla rappresentazione serale de L’oro del Reno.
 
Dunque detesta Wagner, il nostro Franz - Se ci fosse stata la psicanalisi ci saremmo risparmiati quel mostro di Wagner – quasi con lo stesso ardore con cui ama Brahams e Schubert - ah la Seconda di Brahms! ah l’Incompiuta di Schubert! – e d’altronde i musicisti sono tutti in analisi, sono la categoria più depressa, sono così dipendenti dal loro strumento... 

 

Lo strumento, già.

  

Lui,  il contrabbasso: anno di costruzione 1910 circa, altezza del corpo 1,12, fino al riccio 1,92; lunghezza della corda vibrante un metro e dodici […] oggi potrei chiederne fino a ottomilacinquecento marchi.

 

Fin dall’inizio il flusso di coscienza non lascia dubbi sulla centralità dello strumento (il mostro) tanto nell’orchestra quanto nel pur limitatissimo universo relazionale del bassista: Se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso (…) Se si toglie il basso insorge una totale confusione linguistica di tipo babilonese, una Sodoma, all’interno della quale più nessuno sa perché fa della musica.

 

E tuttavia dei contrabbassi non si accorge nessuno. Soprattutto non se ne accorge Sarah, splendida soprano destinataria della desolata incorrisposta passione di Franz, amorosa ossessione con quella voce, quell’organo divino.
Lo sguardo di lei non è mai rivolto al contrabbasso di fila, e lui si spingerebbe all’autolesionismo professionale, pur di attirarne l’attenzione (Quasi quasi stono apposta…quasi quasi lo lascio cadere…); mentre in parallelo si fa sempre più marcato, nel flusso di coscienza, l’avversione per lo strumento, la percezione di quello come di un ostacolo: Non è uno strumento, è un mostro. A volte vorrei fracassarlo. Segarlo a pezzi. Spaccarlo. Triturarlo, schiacciarlo e polverizzarlo e… farlo fuori in un camion col carburatore a legna! No, proprio non No, proprio non posso dire di amarlo. 

 

Con il feroce totalizzante amore/odio che unisce Franz al contrabbasso - che ha un’orchestra nelle sue 4 corde, che soffre il caldo e il freddo, cannibalizzante nella sua monumentalità – sale in superficie quel coagulo di frustrazione e impotenza che è la condizione esistenziale e professionale del personaggio. 
Lo stesso contrabbasso, rabbiosamente percepito come zavorra che impedisce di emergere, si fa a sua volta depositario di significati metaforici, scandaglio psicanalitico di pulsioni rimosse e di complessi (quello edipico, innanzi tutto, alla base della scelta di quello strumento al quale non si arriva se non per vie traverse, per caso o per delusioni): ed è - nel suo ingombrante gigantismo che tuttavia l’orchestra “nasconde” - in tutto simile a un iceberg: ne vedi il 10% e sai che la parte maggiore è sommersa, ed è la più inquietante.
 
Ma a dispetto dell’odio - Uno strumento orribile! […] Sembra una vecchia grassa. Il fianco è troppo basso, la vita un disastro totale […] e poi la parte delle spalle, esile, cascante e rachitica – c’è da impazzire – e per una sorta di transfert sessuale, lo strumento finisce per assumere le sembianze di Sarah:  a volte immagino di vedermela davanti, molto vicina, come il contrabbasso in questo momento. E di non potermi controllare, di doverla abbracciare… così… e con l’altra mano così… quasi come faccio con l’archetto… di circondarla col braccio… o dall’altra parte, di cingerla da dietro come faccio con il contrabbasso e di appoggiare la mano sinistra sui suoi seni, come avviene nella terza posizione sulla corda sol… quando suono da solista 

 

Suonerò per te, stanotte 

 

Non può che tracimare, l’intreccio di frustrazione, orgoglio, rabbia. E lo farà, nello struggente delirio in cui Franz vede sé stesso - mentre l’orchestra quasi sospende il respiro in attesa dell’inizio e le tre figlie del Reno stanno là come inchiodate dietro il sipario chiuso - esplodere, dal fondo del golfo mistico, nello spettacolare grido: SARAH!

 

 

L’effetto sarà colossale, lo leggerete domani sui giornali.

 

Solo qualche anno prima il felliniano Prova d’orchestra* (1979) riproduceva dinamiche simili, mettendo in scena la ribellione dei musicisti contro l’orchestra e la società gerarchizzata di cui quella è proiezione e miniatura, che si  realizza ma per fallire poi e lasciare il posto ad un' angosciosa oscura normalizzazione. 
In Süskind la ribellione resta virtuale: e resta quella stanza chiusa, insonorizzata, spazio mentale più che fisico, metafora di una condizione atemporale dell’esistenza e insieme veicolo di riflessione critica sulla funzione dell’artista, sul consorzio umano, sulla contemporaneità in genere.

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 *  Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo Paese? Perché eravamo ridotti a questo punto? Tra questo e il film non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto. Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era già finito, anzi quando era già in programmazione. Non è che fin dall’inizio io non annettessi al film i significati che ha, ma non avevo coscienza del perché a un certo punto mi fosse diventato urgente il farlo. Ebbene, poi l’ho saputo: è stato l’assassinio di Moro”. 

(F.Fellini)

(in Franca Faldini - Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984)
 
Sara Di Giuseppe . 10 dicembre, 2024

 

 

06/12/24

ALBERGO DIFFUSO (forse) anche nel Piceno a 494 m s.l.m. (per esempio)

Non sarà "ancora alberghi", questo “ALBERGO DIFFUSO”

 

          Il progetto sociale dell’ALBERGO DIFFUSO (A.D.) può finalmente essere anche per noi l’innovativa saggia opportunità di investimento pubblico/privato nel “Turismo Sostenibile”, e non soltanto e banalmente attività alberghiera (di rapina), nè (furbi) B&B a go-go nè forme dilaganti e spopolanti di “affitti brevi” (Airbnb).

Ri-utilizzando, con sapiente e corale gestione centralizzata, solo strutture e immobili già esistenti “diffusi nell’autenticità locale” - semplici abitazioni appena da ricondizionare, palazzetti storici dimenticati [dismessi o in (s)vendita], case sussurranti di paese, casolari tipici sorridenti, ex luoghi di lavoro o d’impresa ecc. - l’A.D., in sinergia tra residenti e turisti, valorizzerebbe diversamente e con successo i nostri borghi storici espulsi dalle zuccherose rotte turistiche. Senza costruire il solito albergo (l’albergo in più o l’albergo che non c’era), senza cacciare gli abitanti, senza insistere nella violenza del territorio.

Borghi e colline restano integri, gentili. Per il turista emergente che cerca nuovi stimoli, addio stress nelle ospitali dimore-soft a misura d’uomo di albergo diffuso mimetizzato nel jazz dell’ambiente, conservate ad arte per lui.

          Conservare qui non significa congelare, bensì rivitalizzare rigenerando con cautela e rispetto: solo che ormai è compito delle anime volenterose del borgo snaturato e svilito da certa modernità, bonificarsi dal kitsch delle brutture sovrapposte, frutto dell’abitudine all’incuria dei propri amministratori e dell’ignavia dei troppi sudditi votanti. Presane tristemente coscienza, tocca a loro subito reagire, macinar idee, pianificarle con luminosa intelligenza, progettare, organizzarsi, restaurare come si deve. Perché, come in acustica la qualità d’ascolto è compromessa dal più scadente dei componenti, così un borgo si mostra brutto-e-cattivo e respingente al visitatore se anche uno solo dei suoi elementi importanti resta sciatto e scadente: solo ricondizionandone tutte le parti critiche con cura, impegno, sentimento, armonia e spirito sociale, il borgo diventerà attrattivo e funzionerà. Servizi, viabilità, segnaletica, traffico, sicurezza, trasporti, illuminazione… cose così, a tutto campo.

Il turista/viaggiatore che sceglie l’A.D., statisticamente meno corsaro, più leale e sensibile della cieca massa vacanziera, guarda con occhi come fionde, pensa, confronta, giudica, pretende. Torna a casa sua e racconta. Ma pure dà. E quel che dà - specie in esperienza, socialità, cultura - è patrimonio regalato che resta al territorio, è curriculum che non si disperde.

-          Se (per es.) il comprensorio del borgo a 494 m s.l.m. vuol degnamente competere con le forme tradizionali di ricezione alberghiera del circondario con un A.D., ri-conosciuti in coscienza i propri punti di debolezza, vi rimedi! Ricordandosi che il suo cliente potenziale prediligerà sempre - migliorandole - la calma, il silenzio giusto, la quiete dell’antico, la pulizia urbana, l’informazione, i prezzi morigerati e sorvegliati, l’aria buona, la genuina cortesia di paese.

Ma non basta.       

          Non basta perché occorre aggiungere un connotato speciale a questo A.D.. Certo per distinguerlo, ma anche per cogliere l’opportunità di dare al settore vacanziero corrente (che normalmente ne è lontano) qualcosa di autenticamente culturale. Sta diffondendosi l’arte di viaggiare: spinta dalla curiosità, dalla voglia di esplorare, di imparare o da chissà cosa, c’è sempre più gente che vuol scegliere “dove” andare e “perché”. Un borgo meno nevrotico e più umano certamente  attira, poi se offre una certa panoramica culturale originale attuale è meglio.

            Per cui, agganciandomi non per caso alla cronaca di questi giorni, il polverone mediatico sulla banana con scotch di Maurizio Cattelan venduta all’asta alla cifra folle di 6,2 milioni di dollari, bassa cronaca giornalistica che sbeffeggia l’Arte Contemporanea centrifugandola coi soldi dei mercanti, degli speculatori e di galleristi più spregiudicati che competenti, propongo l’idea di dare alle varie dimore-soft del borgo a 494m s.l.m. (sempre per esempio) adibite ad A.D. i nomi di noti artisti/performer internazionali di Arte Contemporanea*.  Se i siti fossero 10, sceglierei

BANSKY  CHRISTO  KOONS  PAOLINI  KOUNELLIS  HOCKNEY  KIEFER  CASTELLANI  GILARDI  CATTELAN

E di ognuno “arrederei” gli interni (possibilmente pure gli esterni) con manifesti, stampe, cataloghi, adesivi, modellini e multipli di opere dell’artista di cui quell’A.D. ha preso il nome. Come se lì ci abitasse davvero lui, l’artista famoso, ah ah…  

Ovviamente, a prezioso supporto dell’operazione, si progetti una comunicazione adeguata che informi, racconti, spieghi, insegni, appassioni. Ma, per favore, in un italiano preciso e brillante, non medicinal-burocratico-pomposo come fan tutti. Anche in oxfordiano inglese (non maccheronico o all’amatriciana, che poi ci ridono dietro…), e in spagnolo, cinese e russo. Sììì! Non è strano, serve!

       Ma ancora non basta.

-          Al “nostro” ALBERGO DIFFUSO necessita pure un marchio/logo esclusivo. Eccolo:

 

*P.S.    Ah… ci vuole un certo fiuto per orientarsi nell’Arte Contemporanea. Ripa ce l’ha.

PGC  Messico e nuvole - 1 dicembre 2024



03/12/24

“IL CANTO ANTICO DEL DOLORE” *

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL

Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos 
 
_'NDO' e LA STANZA BREVE
di
GIARMANDO A. DIMARTI
 con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini  percussioni

 

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  30 Novembre 2024  h21,30

 

 

“IL CANTO ANTICO DEL DOLORE” *
 
Vincenzo Di Bonaventura                       Giarmando A. Dimarti

dove questo tempo induce il tuo confuso esistere?
su quali illusioni vesperali naviga la mente fatìca
il cuore calpestato la ragione abbattuta?

(G.Dimarti, in La pula e il vento, 2013)

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Se la poesia di Giarmando Dimarti incontra la voce dell’attore solista e questi è Vincenzo Di Bonaventura e ne nasce poderosa ri-scrittura scenica della produzione dimartiana, l’evento  potrebbe richiamare millemila spettatori (come per Carmelo Bene al teatro Alle Cave di Sirolo) e ci vorrebbero i tornelli. 

 

Se non si fosse a Grottammare. 

Un gigante della poesia e un gigante del teatro: per noi pochi fortunati, è concerto per voce sola e djembe e percussioni ardite, ed è poesia che ti inchioda come urto poderoso di vento che ti obbliga a fermarti, a piegarti su te stesso. E la macchina attoriale che è Di Bonaventura si lascia possedere dalla grande poesia di Dimarti: l'attore-solista si fa aoidos di versi titanici e quelli ti arrivano dentro in forma di vibrazioni ed ogni cellula, in modo profondo, quasi primitivo, ne è raggiunta.

 

Tambureggiare di djembe, vortice di percussioni, e la voce si fa lamento dissotterrato da affogate memorie: il verso dimartiano, sperimentale e frantumato, destrutturato e al tempo stesso di lingua antichissima e dotta, irrompe apocalittico nel conformismo anche linguistico, perché il velo delle cose ne sia squarciato, perché il poeta possa ripiegarsi sul dolore eterno di una terra erranea sdraiata fraudolenta, evocare presago il cieco precipitare della nostra vita in disarmo verso il tempo destinato, verso il “primate futuro” che noi torneremo ad essere nel ”giorno dopo / il dies illa quel giorno proprio quello”.
Scavano implacabili l’indicibilità del reale, quei versi, gridano il chiassato silenzio di un mondo arreso, di un obeso presente contro il quale la parola poetica - taci il tuo ciancio cantare / poeta - s’infrange e muore. Perché alla poesia con le sue balorde sfioccate bandiere sonore non possiamo chiedere, montalianamente, la parola salvifica nella spaesata realtà di un oggi in avaria dell’umano.

Balena tuttavia il seme di una speranza nuova, nel poeta: l’ "animula vagula blandula" batte in cerca di una nostra sopravvissuta umanità, ed è allora che la pena del vivere si sublima, nel verso di Dimarti, nell'idea possente di un recupero dell’uomo; batte là dove si china pietosa sulla sorte di uomini bui senza nome senza storia, fratelli nella acerba vita e nella morte apertasi piega sul ricordo dell' amico suicida, su quel cuore in ritardo per un giorno senza rive che tragicamente ha cercato un’alba di là da tutto // senza più paura; s'interroga sull'uomo fatto solo, perchè è caduto il respiro che univa l'uomo alla pena  / dell'uomo.

 

Ed è ancora lo scorrere esiliato di questo povero tempo sgomento che muove l'afflato dell'altissima poesia civile di Dimarti, il suo disperato j’accuse: per un'umanità emarginata ed errante, con le labbra incollate dai digiuni (a chi offrirete a sdebitarvi / il vostro pane cencioso / se le mie ossa scricchiolano / come un rotto ramo triste senza stagioni? ); per una quotidianità che lascia sgomenti e sovrasta ed umilia; per l’umana follia che come acqua cupa / ha innalzato la sua forza in bave lattiginose contro la costa; per l’incapacità di decifrare l’insensato presente, per la devastazione obbligata, per l’indicibilità di una barbarie che attecchì sotterranea / funesta, per l’annientamento possibile. 
Ecco allora l’urgenza poetica e la denuncia, il rifiuto di un oggi devastato e svenduto - ho paura dell'uomo - e la tensione verso un recupero di umanità che ricomponga l’unità perduta con il tutto, che additi un orizzonte nuovo. 

  

Perché non si debba soltanto cadere sotto il dolente carico di vita calato sul mio tempo, perchè ci si possa sottrarre allo schiamazzo ebete del giorno, abbiamo bisogno di quel canto poetico: visionario, presago, umanissimo. Venuto fino a noi stasera con la voce aedica, per lungamente restare. 

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- Le citazioni provengono dalle raccolte poetiche di G.A.Dimarti: 
  La pula e il vento; Le stagioni dismesse; E' tutto sotto controllo; Il tempo che ci siamo dati; La stanza breve.

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*( G.A.Dimarti,  La stanza breve)

Alberto Archini
Sara Di Giuseppe - 3 dicembre 2024

28/11/24

“Questo viaggio chiamavamo amore”

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos
 
Laboratorio teatrale Aoidos
con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini  percussioni

 

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  23 Novembre 2024  h21.30

 

CANTI ORFICI
di 
DINO CAMPANA  

 

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    Con Di Bonaventura non è mai solo “Recital”: è avventura e scoperta, è circumnavigazione di mondi poetici, è certezza - soprattutto - che sentiremo a lungo, dentro, quella sensazione di fiamma.
 E oggi, accanto a Dino Campana e ai suoi Canti Orfici, plana in mezzo a noi ancora una volta evocata da Vincenzo, la presenza maestosa di Carmelo Bene che la poesia di Campana volle portare in scena (Roma, 1982) affinchè il suo pubblico – migliaia e migliaia, sempre – percepisse la scintilla divina nell’umano.
 
È la tripartitura tematica dei Canti voluta da Bene per quel Recital – dalla dimensione onirica del reale, attraverso l’amore e il corpo, fino al tema del viaggio – che Di Bonaventura  qui accoglie: occasione per evocare, del maestro, l’impareggiata voce-orchestra e quell’inesausta ricerca intorno alla phoné da cui nasceva infine l’“alleanza tra l’elemento musicale e cantato con l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario”*.

       

E - quasi un miracolo, tra le raggelanti pareti dell’Ospitale - il nostro attore solista col fido djembe, le intense percussioni di Alberto Archini, creano stasera un tessuto sonoro che sfida il limite, incastona la poesia dei Canti e colorando il verso ne estrae fino all'impossibile tutta la potenza  [microfoni Sennheiser, possenti fedelissime casse RCS in alto e di sponda, mixer che Vincenzo adopera come un pianoforte…].

 

Nello spazio sciabolato dalla voce attoriale, nelle traiettorie disegnate dall’incalzare delle percussioni, la poesia di Campana irrompe con forza tellurica e trasfigura il reale, lo sospinge in una dimensione onirica e orfica sospesa tra passato e presente, lo popola di presenze misteriose e miti ancestrali. E il verso procede per immagini e suoni, per illuminazioni vitali e aeree o per incubi notturni e questi  recano con sé il panorama scheletrico del mondo.

Ladro di fuoco sente di essere Dino Campana: sacerdote di poesia, religione che esige il suo sacrificio quanto più essa si avvicina all’essenza dell’uomo; e lui, il poeta strabordante e irregolare, col suo difetto esistenziale che benpensantismo del tempo e smania di riempire i manicomi chiamarono follia, è anche suo malgrado veggente, di una visionarietà che lo scaglia al di là di sé stesso e sovverte il reale.  Il volto oscuro delle cose e del mondo si affaccia alla coscienza e questa ne avverte le segrete corrispondenze: e sono bianche rocce le mute fonti dei venti e l’immobilità dei firmamenti, ma è la notte - la buia notte dell’inconscio, o “la notte dell’uomo d’ogni tempo”, madre di tutte le forme d’esistenza - che apre porte e mondi segreti: vi tremano attese e inquietudini,  vi si materializza la Chimera, sembianza femminile, viso di leonardesca Gioconda - Dolce sul mio dolore  -  che dal mito si fa emblema di poesia: E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

“… Io che vivo al piede di innumerevoli calvari” scrive di sé il poeta. E dunque la fuga, il viaggiare inquieto: sola salvezza (è “poesia in fuga”, quella di Campana, nella definizione che ne diede  Montale) purchè sempre ci sia un altrove, non importa quanto prossimo o remoto, nel quale lo spirito possa, riconciliato con la natura, ricongiungersi ad essa; saranno allora le città, vicine o lontane, conosciute e amiche o luogo "dell'oscuro e dell'insidia"; ma sarà anche il mistero della Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo; e saranno i mari sconfinati senza orizzonti. Saranno le vele. Ah! Ch’io parta! Ch’io parta!

 

Ed è ancora viaggio, l’amore: unico e disperato - e folle, quello sì - per Sibilla Aleramo, ape regina di amori numerosi e illustri. Quell’amore offre ali al povero troviero di Parigi, orizzonti al suo sogno di libertà; e, pur guerra feroce consumata fra gelosie e liti furibonde, Questo viaggio chiamavamo amore / col nostro sangue e colle nostre lagrime.

 

Un tempo breve, e dopo saranno soltanto Castel Pulci, “ricovero dei dementi”, e gli ultimi 14 anni di vita scanditi dagli elettroshock.
Quella libertà cercata scavalcando il cancello della sua prigione, e ferendosi, e morendone di setticemia, il poeta l’aveva già sognata - vista - e detta in poesia, nel presago “Sogno di prigione”:  Io ero in piedi: sulla pampa, nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro (…) Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! O era la morte? O era la vita?...
 
Nessuna prigione più, soltanto ora il cielo infinito, non deturpato dall’ombra di nessun Dio ad accogliere il poeta, di nuovo e finalmente atomo, frammento dell’universo.
libero - lui "così diverso" - come mai il mondo aveva voluto che fosse.

 

*[G.Dotto, Vita di Carmelo Bene]
 
 
Sara Di Giuseppe - 26 novembre 2024

 

19/11/24

GLI ANELLI DI SATURNO

TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos


"I poeti della Rivoluzione"
A.Blok, S.Esenin, V.Maijakovkij, B.Pasternak
Dedica al maestro Carmelo Bene
“Quattro modi diversi di morire in versi”
 
Laboratorio teatrale Aoidos
con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini alle percussioni
 
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Presentazione del libro di Vincenzo Di Bonaventura
“Il guardatore del Carmelo”
con Simone Cameli 


OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI

GROTTAMMARE ALTA  -  16 e 17 Novembre 2024  h21,30

GLI ANELLI DI SATURNO
 
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“Vi ho già risposto, Innokentij. (…) Majakovskij mi è sempre piaciuto. È come una continuazione di Dostoevskij (…). Come riesce a dire tutto, una volta per sempre, in modo implacabile e assolutamente coerente! E soprattutto, con che audacia e che slancio scaraventa le cose in faccia alla società e anche più lontano, nello spazio!”
(B. Pasternak, Dottor Živago, parte VI)

 

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A proposito di “spazio” – ma quello siderale – ecco che per cosmica analogia ti vengono in mente gli anelli di Saturno e la distanza fra loro e dal pianeta, quando osservi lo sparuto numero di spettatori – mediamente da 8 a 11  – che (dalle nostre parti, s’intende!) “affollano” i Recitals di Vincenzo Di Bonaventura dedicati, sempre, ai giganti della letteratura, della poesia, del pensiero, dall’antico ai nostri giorni.

  

Come gli anelli di Saturno, la totalità del potenziale pubblico assente sembra infatti ruotare indifferente in orbite separate e distanti (almeno i 4.800 km della “divisione Cassini”) da quelle altissime voci di letteratura e poesia: voci che non hanno uguali fra cielo e terra, la cui potenza sismica ti rigira l’anima al contrario, e che Di Bonaventura porta in scena da una vita con "patologica" tenacia.
Può darsi temano d'uscir d’orbita  e piombare in un girone d’Inferno anziché su un anello di Paradiso. 
Peccato per loro.

 

Questa sera, 17 novembre, la sala-magazzino dell’Ospitale coi suoi neon-macelleria (“teatro” si fa per dire), s’è appena desertificata del folto pubblico accorso nel pomeriggio ad ascoltare il bravo intellettuale (col libro appena uscito, va da sé). 
Restano per Di Bonaventura gli 8 (otto) spettatori regolamentari: tutti gli altri – giornalisti, politici (parlando con decenza), intellettuali, giovani (dove sono i giovani?...), benpensanti e bellagente restano nell’orbita di Saturno.
Forse è solo paura di volare

 

Il nostro volo, invece, inizia dal recente libro di Di Bonaventura “Il guardatore del Carmelo” (il suo secondo, dopo Cent’anni di Rosetitudine; il terzo con la raccolta poetica Il piacere indarno). 
In forma di romanzo, un atto d’amore per il teatro, e per la vita. E per il ricordo di Carmelo Bene.

In cabina di pilotaggio lungo l’ammaliante rotta aerea, il valentissimo Simone Cameli guida sicuro i ricordi veneziani del maestro, ne sollecita con devoto affetto le corde più sensibili; 
ne fioriscono aneddoti, riflessioni, nostalgie, come ruscelli lungo il corso maestoso del fiume. 

Su tutto campeggia, con l’ombra titanica "del Carmelo", quel totalizzante amore per il teatro che per il nostro attore è da sempre passione divorante, pienezza di vita e religione a un tempo. 

Vi si affacciano – amichevoli, amate, palpitanti come allora – figure troppo presto scomparse alle quali il libro è dedicato: di ognuna l’orma luminosa è impressa così nella vita di Vincenzo come nella lunghissima esperienza teatrale e artistica; persone “capaci di ritorcere un mondo che non voleva saperne di loro, ma loro sì, e tanto”; ombre evocate una ad una questa sera con gratitudine e nostalgia, “La cosa di loro che più mi trita dentro è il destino interrotto” scrive nella dedica.

Ed eccole, le vediamo sederci accanto, prepararsi attente all’ascolto.
Disposte come noi a farsi travolgere dal sommovimento tellurico che è ogni recital di Vincenzo: che tale è soprattutto oggi, con voce e percussioni chiamate a ricreare l’incantamento che fu lo spettacolo beniano “Quattro modi diversi di morire in versi” dedicato ai “Poeti della Rivoluzione”: Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak, 10.000 spettatori a Milano, anni ’80 del secolo scorso.

[Di quello spettacolo, Bene fece dono a Pertini incidendo in esclusiva per lui un 78 giri e sulla copertina le foto dei 4 poeti. Oggi reperto prezioso e raro.
 Altri anni, e ben altro Presidente…]

 

L’attore solista si fa oggi macchina scenica nel pieno dell’accezione beniana: la memoria metabolica procede sulle tracce di quel maestoso Recital, sui passi di Carmelo Bene che possedeva "un’orchestra al posto della voce”. E come scolpiti su un ideale Monte Rushmore nella potente sintesi che è anche omaggio all’indimenticato maestro, si stagliano i quattro poeti della Rivoluzione.

 

Tempi di leggenda furono i giorni incandescenti di quell’Ottobre rivoluzionario, ed esplosiva la fiducia in un avvenire che avrebbe disegnato, tutto intero, l’uomo nuovo.
Ci furono tempi di leggenda / ma sono passati.

E il suicidio come via d’uscita: cercata e trovata, per primo, dal giovanissimo Esenin (Volate, / fendendo le stelle. / Senza un acconto, senza libagioni /  scrive per lui Majkovskij ).
 
Esenin e la sua disperazione (Pochi di noi son salvi […] Ma chi chiamare? Con chi dividere / la triste gioia d’essere ancora vivo?)

E il grido di Majakovskij contro la guerra (Sopra i falò s’è fatto buio. Come sommergibile / s’è inabissata / l’esplosa Pietroburgo). 

E l’incredulo rabbioso dolore di Pasternak per il suicida Majakovskij (Il tuo sparo fu simile a un Etna / in un pianoro di codardi e di codarde!)

La voce attoriale si fa urlo e a tratti bisbiglio in tutt’uno con le percussioni, la memoria prodigiosa di Vincenzo disegna potente la passione civile, lo scontro frontale, il lirismo e la follia, la morte e la vita. Non ci sono resurrezioni (Resuscitami, / voglio la vita non vissuta!) e tuttavia Bisogna / strappare/ la gioia/ai giorni futuri. / In questa vita / non è difficile morire. / Vivere / è di gran lunga più difficile.
 
Una distanza cosmica separa il nostro oggi da quel breve inizio di secolo, e il nostro orecchio è coperto di grasso; anche quest’epoca / è difficiletta per la penna, ma il sortilegio è oggi questo meraviglioso volo attraverso l’utopia che scompigliando le nostre comode sicure geometrie le ricompone intorno al messaggio che Majakovskij consegnava al futuro: La parola è un condottiero della forza umana.
 
Voi che restate siate felici, scriverà quel gigante prima di calare anche lui il sipario sull’amato me stesso.

Di quei poeti Carmelo Bene aveva penetrato l’anima e l’ardente poesia, l’ansia di vita che era senso incombente di morte, “l’infinita angoscia e l’infinita volontà di bene”.
Ed oggi, ancora una volta dopo altre volte e altri anni,  Di Bonaventura li riporta a noi: ne abbiamo bisogno, in questo presente che mostra i denti “solo per stridere e addentare”.
Forse è già tardi, e questi poeti sono ormai troppo avanti per noi. 

Forse - come di Majakovskij scrisse Marina Cvetaeva - “Col suo passo veloce è arrivato lontano, molto lontano dal nostro tempo, e da qualche parte, dietro l’angolo, gli toccherà aspettarci ancora a lungo”.

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Il vostro pensiero,
sognante sul cervello rammollito, 
come un lacchè rimpinguato su un unto sofà
stuzzicherò contro l’insanguinato brandello del cuore:
mordace e impudente, schernirò a sazietà.

(V.Majakovskij, “La nuvola in calzoni” - 1914/15)
 
Sara Di Giuseppe - 19 novembre 2024