25/12/17

Il Natale tra le SAE


Il mio amico Venanzio non aveva mai visto il mare, di conseguenza non si era mai tuffato tra le onde che saltano sulla spiaggia, schiumano e poi si ritirano. Quando giungemmo da sfollati a Porto D'Ascoli lo guardò per la prima volta in vita sua, lo toccò con la punta dello scarpone da montagna e si ritrasse immediatamente. "Il mare è monotono" mi disse: "Non ha nessuna novità e finisce dove comincia il cielo là in fondo". Pensai subito che aveva ragione, non è come le nostre montagne che dall'alba al tramonto offrono un paesaggio mutevole al cambiare delle stagioni, sprigionando un'armonica gradazione di colori. Il verde brillante dei boschi e dei prati a primavera che in autunno si colora di caldi toni, dal giallo all'arancio, dal rosso al magenta, con le fresche acque dei ruscelli che inventano cascate fiabesche sotto l'azzurro del cielo. Che dire poi della magica e frizzante atmosfera invernale, quando a Natale ci si può inerpicare per boschi innevati, su fino a dove il miracolo dell'acqua che sgorga disegna incantati cristalli di ghiaccio e gocce e arabeschi in un silenzio irreale. I suoi occhi brillavano, poi divento inquieto, di colpo s'incupì, trasecolò, la sua faccia faceva trasparire un malessere che fece salire e rovesciare anche il mio stomaco, come un sacchetto di nylon sulla risacca. Guardammo di nuovo il mare che cominciava a calmarsi, sbattendo sugli scogli indolente, disordinato, con meno vigore. In silenzio ci voltammo verso la città a testa bassa, lentamente tornammo in albergo. Rividi Venanzio giorni dopo, prendemmo un caffè al bar, mi disse che rimpiangeva il cibo di montagna: il formaggio pecorino, l'agnello, il cinghiale, le tagliatelle ai porcini, le zuppe di legumi, la polenta con la salciccia, il miele e le marmellate, le castagne ed il vino cotto. Mi disse anche che non sopportava più il vivere in un albergo: "Non voglio più mangiare e bere per vivere, ma vivere per mangiare e bere". Esclamò! Riuscivo a capire Venanzio, i suoi antenati erano stati boscaioli e carbonai, avevano dormito spesso all'aperto, sotto le stelle per sorvegliare la carbonaia; non avevano mai affittato un metro di spiaggia ma avevano avuto ettari di bosco da custodire, non avevano mai bevuto aperitivi negli chalet festosi ma acqua fresca di sorgente accarezzati dal vento, non avevano mai fatto il conto delle calorie ma avevano scaldato il cuore con i suoni della natura e con la fantasia. Gli diedi una pacca sulla spalla e lo salutai dicendogli: "Che ci vuoi fare Venà! Questo ci è capitato. Fatti coraggio!"  Per giorni non lo vidi più, qualcuno mi disse che si era lasciato il mare alle spalle, non aveva resistito al richiamo della montagna, non si fidava della città, quello che per altri sembrava una fortuna per lui era peggio di una trappola per topi. La mattina di Natale ho deciso di fare una corsetta tra le SAE, le nuove casette di legno del mio paese. Correvo leggero, senza fare rumore, tra l'odore del caffè e le grida dei bambini. Mi sono sentito chiamare: "Vittò cumma va?" Mi giro era Venanzio: "Corri anche a Natale, non ti stufi mai?" Gli rispondo che la corsa è come una bella donna, ti emoziona e ti prende, ti regala piacevoli sensazioni e ti stanca ma poi il giorno dopo la desideri ancora. Venanzio abbozza un sorriso e mi dice sconsolato: "Io di belle donne ne ho viste poche, quest'estate che potevo vederne tante non sono rimasto a Porto D'Ascoli. Qua avevamo una vita, avevamo una storia. Ora ci hanno dato stè casette piene di difetti e di problematiche, intorno ci sono solo cinghiali, lupi e macerie. Ti ricordi Vittò quella tua vecchia poesia del viandante aggredito dai cani selvatici che provava a difendersi con i sassi ma non poteva perché erano attaccati al suolo dal gelo, e diceva: "Questo è il paese dei disgraziati, dei cani sciolti, dei sassi attaccati! Chi ci può risarcire di quello che ci ha rubato il terremoto?" Su un prato erboso appena impiantato alcuni bambini chiassosi giocano a pallone. Un esiguo segnale di vita. Gli rispondo che quelli come noi non possono pensare al futuro, la nostra stella si sta spegnendo, noi siamo terremotati non siamo né qui  né lì, stiamo fermi come giù al mare. Ma quei bambini no, quelli hanno un futuro, dobbiamo lottare per loro. Il concerto di voci bianche e flauti, dei piccoli arquatani, al centro Polivalente di Pretare, è stata l'unica cosa bella di questo Natale. E' un freddo mattino assolato, il Monte Vettore sotto un cielo azzurro è un incanto. Osservo una vecchietta dietro i vetri che sistema un mazzetto di vischio. Ora corro in maniera un po' buffa, quasi non tocco la strada fresca d'asfalto, lascio una scia di orme smezzate, sono molto veloce , devo esserlo per sopravvivere. Ora sono fedele ai miei luoghi ma ogni tanto mi fermo a guardarmi indietro, come fanno i bambini. Purtroppo capisco anche che non posso permettermelo perché questo ora mi può essere fatale. 

Vittorio Camacci

16/12/17

Teatro dell'Arancio. Viaggio cosmico-letterario in Recital. La forza dell’inquietudine di Ugo Foscolo di e con Vincenzo Di Bonaventura


 Nell’appendice conversazionale che chiude ogni serata con Di Bonaventura, l’attore-solista ci parla ancora di poesia, e imprevedibile come un lampo è la breve narrazione che attinge al mistero profondo della natura. Tra i leoni della savana alla morte del capo branco il nuovo re celebra il più crudele dei riti di potere: mangia i piccoli. La leonessa si allontana allora, e immobile come sfinge antica, ulula al cielo e riempie la notte intera del lamento di morte, del pianto altissimo e senza fine che le darà pace. Il nuovo sole che sorge la vedrà tornare al branco, pronta a vivere ancora, nuovamente madre e fattrice, portatrice di vita.
        Questo è ciò che fa per sé e per noi il poeta, voce che decanta l’inquietudine e il tormento e la pena, perché si possa ancora vivere, e la poesia farsi nostra amica e compagna nel cammino.
        E’ il greco-veneziano Niccolò, che volle poi chiamarsi Ugo e fu per sempre “il Foscolo”, il poeta per il quale - dice in apertura Vincenzo - “abbiamo messo tutto in forma di brillantezza” questa sera: “il suono vi sommergerà”, e il djembé sospeso a mezz’aria, e le artigianali casse d’antan attendono di liberare i promessi 2000 watt. Non rumore ci sarà, ma potente corteo di suoni per il viaggio intorno al “poeta-pariota-giacobino-rivoluzionario-idealista”.
        Se ogni nascita è un destino, quella sua, nell’isola greca da cui vergine nacque / Venere, segna per sempre l’inquietudine che lo farà esule, della patria ma anche dello spirito. E la Venezia del suo secondo approdo, patria che altri tradiranno, nutrirà le stagioni del suo furore libertario e impotente.
       Venezia bizzarra – dice Vincenzo che vi ha trascorso tanta vita – come può esserlo oggi una città senz’auto, dove i teatri sono là, la gente è là, gli incontri sono là; ma città italiana, con tutte le contraddizioni e i chiaroscuri. “Una volta ci tuffavamo nei canali”, dice. Provare a farlo ora. [“Venezia è un imbroglio… Venezia è un albergo… Venezia che muore…” canterà Guccini]
        Venezia ancora splendida nella già inarrestabile decadenza, che il poeta conquista con l’impetuoso “Tieste” dal sapore alfieriano, furente tragedia dei suoi incredibili 19 anni (un trionfo, repliche tante, teatro inusualmente illuminato a giorno).  
        Venezia ceduta all’Austria dal Bonaparte poco prima salutato come liberatore (Il sacrificio della nostra patria è consumato, scrive Jacopo Ortis all’amico Lorenzo), ed è il disinganno del poeta per le spinte rivoluzionarie tradite dal cesarismo napoleonico; e poi il vagare fra Milano, Firenze, infine Londra: e sempre, tormentato e indomabile, “lo spirto guerrier ch’ entro mi rugge”.
        Non tutti lo amarono, certo, come è destino di ogni personalità d’eccezione. Gran ciarlatano e pessimo di cuore negli scritti del Tommaseo, che non sa spiegarsi perché sia tanto festeggiato. Ancor più duro il Rosmini, guidato dal pregiudizio morale e religioso (“Una religione turpe governa il Carme” scrive negli Opuscoli Filosofici a proposito dei Sepolcri).
        Monello forse lo era sempre stato, se dei pochi anni nel Collegio arcivescovile di Spalato (prima che il padre morisse e prima del trasferimento a Venezia) troviamo scritto fra l’altro “Tutti ricordano i suoi capelli rossi rossi, e i suoi occhi di fuoco, e la perpetua inquietudine…”; ma anche “Ugo era espansivo assai e pieno di affetto leggiero per tutti…” . Ed emergeva già la sua precocità intellettuale e poetica: “… Improvvisava poesie in tutti i metri, sonetti al più scrivendo e lo scritto regalava subito a’ compagni. Le lezioni sapeva sempre benissimo, del che suo padre stupiva, sendoché raccontava che in casa e’ non vedeva mai libro di scuola”. (in Mate Zorić, “Due note su Ugo Foscolo e la Dalmazia”)
Insomma, l’allievo che tutti vorremmo…
        Dallo spirito ribelle, dall’infanzia sradicata, dal suo destino di  essere “altrove”, si dipana un’esperienza di adulto in ricerca ostinata di armonia, di quella composizione che deve pur esserci, nelle contraddizioni del reale e della storia. Di qui l’impegno intellettuale rivolto costantemente all’esterno, a “intervenire sul mondo”, e lo stretto intrecciarsi di vita e letteratura in una complessità spesso contraddittoria.
        La prorompente vitalità, ad esempio, le passioni che lo agitano, l’amore stesso – sempre rovinoso come un fiume in piena (“Ho amato, è vero, ma non sapeva di poter amare tanto”, scrive ad Antonietta Fagnani Arese)  hanno per compagna assidua l’idea della morte: desiderato approdo alle tempeste dei giorni, meta che il fratello Giovan Dionigi - suicida - ha già trovato (… E prego anch’io nel tuo porto quïete), rifugio ultimo dalle secrete cure, dal dolore delle illusioni spezzate, dalla condizione di eterno Ulisse in cerca di quell’Itaca che non toccherà mai più, materna mia terra dove ricongiungersi nella tomba agli affetti più cari.
        Ambivalente è Jacopo Ortis, suo primo alter ego:  la scelta del suicidio come protesta eroica coesiste in lui col fatalismo meccanicistico che vede la violenza, quasi legge “naturale”, dominare la storia in un processo di sopraffazione privo di razionalità. “L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra” scrive Jacopo a Lorenzo.
       Più tardi ci sarà Didimo Chierico, secondo alter ego e creazione della maturità: sarà l’anti-Ortis che pur sentendo non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo […] teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana”.
        Ma c’è per Foscolo un mondo vagheggiato, al tempo stesso mitico e famigliare, rifugio e risarcimento dalla mediocrità del presente, dalle lacerazioni del vivere: è quello della grecità antica, stagione di bellezza e armonia in cui trasfigurare - trasferendola in una mitica lontananza - l’esperienza biografica e alla cui ombra placare la cupa passionalità. E sarà l’approdo finale nella maturità de Le Grazie.
     “Finchè sarò memore di me stesso non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano”.
        E’ tutto questo mondo a confluire nell’intramontata sinfonia dei Sepolcri, sintesi di religiosità laica e di istanza ineliminabile di assoluto. La scintilla che rubiamo al sole a illuminar la sotterranea notte ai nostri cari defunti (perché gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole), il dialogo che la tomba stabilisce tra i vivi e i morti è infine l’illusione che salva. La memoria custodita dal sepolcro vince la morte e l’oblio; e nella memoria dei grandi, che il sepolcro eterna ed è base nel cammino dell’incivilimento umano - l’uomo vince il suo destino di annientamento.
        E quando infine anche il tempo, trionfando sulla materia, con sue fredde ale vi spazza / fin le rovine, la Poesia - essa sola, l’ultima, la più alta delle Illusioni - vince di mille secoli il silenzio. Essa è il cieco mendìco, il vate Omero che abbraccia le urne e interroga gli spiriti degli sventurati eroi troiani; essa placa quelle anime afflitte col canto; essa, eternatrice dell’uomo, narrerà le sue grandezze e le sue sventure per quante / abbraccia terre il gran padre Oceàno […] finchè il Sole / risplenderà su le sciagure umane.

Sara Di Giuseppe

14/12/17

“Il Graffio”. Quando un giornale apre, si respira profumo di libertà



Spesso, anche da queste colonne, abbiamo pianto lacrime amare per la chiusura di un giornale vissuta come lutto, personale. Siamo convinti da sempre che la pluralità dell'informazione sia il sale della democrazia, la base per il rispetto di tutte le idee e di tutti i pensieri. Quando per ragioni economiche, o peggio politiche, un organo di informazione chiude, una delle voci che contraddistingue il nostro modo di essere cittadini, e non solo consumatori, si spegne inesorabilmente. E resta l'amarezza per ciò che avrebbe potuto essere o rappresentare in uno stato che vuole, indefessamente, considerarsi democratico.
Domani, invece, un organo di informazione nuovo di zecca si affaccia sulla scena giornalistica non solo locale, perché “Il Graffio”, diretto dalla redattrice di UT Rosita Spinozzi, va oltre.
Il Graffio punta, ascoltata la direttrice, su una informazione di qualità. Oggi, spesso, la fretta ci impedisce perfino di rileggere ciò che abbiamo scritto con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: la lingua italiana è diventata un optional e ci rifugiamo dietro al concetto di “refuso” anche quando si tratta di madornali errori grammaticali o sintattici. C'è poi un uso distorto delle parole perché, sempre a causa della fretta, non ne conosciamo il significato e branchia e branca diventano suppergiù la stessa cosa come se i pesci diventassero all'improvviso scienziati.
Ma l'informazione di qualità non è solo quella ben scritta. È decisamente quella pensata, soppesata, verificata e solo poi scritta, corretta e pubblicata.
Riprendendo il vecchio concetto anglosassone dell'informazione, quelli del Graffio si sono resi conto che secondo il comune sentire non c'è alcuna differenza fra un fatto e una notizia, che basta riempire le pagine di corbellerie e il lettore sarà felice come una Pasqua a Natale, che basta una foto accattivante per rendere appetibile un articolo.
L'altra scommessa del Graffio, che nasce con qualche uttiano dentro, è quella di puntare su una informazione che sia parte integrante della vita delle persone, una sorta di giornalismo inteso come “servizio” del quale si sente oggettivamente una gran mancanza.
Domani pomeriggio, dalle 17 alle 20, in via Legnago 60 a San Benedetto del Tronto, il Graffio sarà aperto a tutti regalando un brindisi, un sorriso e un impegno: quello di fare del buon giornalismo per non annegare fra i marosi del qualunquismo d'accatto.


Massimo Consorti

Cineteatro San Filippo Neri. Gegè Telesforo: "...ma non è dei tuoi che volevo parlare…”


Succede di rado che un bravo jazzista sappia gustosamente intrattenere con le parole oltre che con la musica, con eleganza e proprietà di linguaggio anche. Di solito, su un microfono sempre troppo basso e debole, è il più intraprendente del gruppo (o quello tirato a sorte) che snocciola, tra intermittenti applausi, solo nome-cognome e strumento dei colleghi; poi l’ultimo ritualmente ricambia indicandolo con goffo gesto e dicendo il suo. STOP. Sono sobri parlatori, i musicisti. Ma lo sanno loro stessi, e intelligenti restano nel loro campo di eccellenza. Non fanno come i calciatori o gli allenatori, che inseguiti implorati assediati e intervistati fin negli spogliatoi malmenano pensosi la lingua peggio del pallone. 
        Però stasera, col Gegè Telesforo quintet, pareva strano a chi li conosce che il concerto contemplasse “solo” la musica. E in ultimo, infatti, facendosi spazio con garbo e senza spingere, le parole sono arrivate: tra Gegè e i suoi - e noi ad ascoltare attenti - si è snodato gradualmente e come per caso un “racconto” piacevolissimo, confidenziale, elegante, divertente; libera conversazione tra amici, che di ognuno spolvera vicende personali, storie di vita, ricordi di famiglia, aneddoti, cose buffe. Gegè conduce da professionista, la voce giusta e chiara, così che noi respiriamo più aria di radio-radio che di teatro: ce li immagineremmo così anche senza vederli, i personaggi! E da loro, risposte brevi, fra il timido l’impacciato e l’incerto, con pudore, da ragazzi educati (di una volta) “interrogati” dal maestro buono e un po’ severo…  
        Così di Alfonso Deidda - che, artigliati charleston e sax, in bilico sullo sgabello non batte mai ciglio - Gegè passa in rassegna l’intera sua famiglia salernitana: padre pianista jazz, madre cantante e cuoca, fratello valente sassofonista – e quindi anche lui, “per ripicca” … …ma non è dei tuoi che volevo parlare… ma di te, così modesto e bravo, con me da 25 anni, che… con tuo padre tua madre tuo fratello e magari pure i nonni musicisti, no?… tu che dovevi fare… oltre a 3 figlie femmine…”
        “Fratello”Joseph Bassi, nascosto dal contrabbasso come dietro a una lavagna, sa che tocca pure a lui: “Eccolo questo pezzo unico, questa entità, questa scultura d’arte contemporanea, questo graaande uomo (e si vede!) dalla immensa spiritualità… frate cappuccino mancato, a 13 anni, in quel di San Giovanni Rotondo… dove ebbe in visione… una chitarra! Ma non aveva fatto i conti col Jazz e lo Swing… così ascoltava di nascosto Count Basie sul Walkman Sony, anzi Aiwa… finchè Padre Priore Pancrazio, ricevuta una denuncia anonima, lo cacciò dal convento… appena dopo una settimana!... “Ma è di te, non di queste cose, che volevo parlare”…
        Non dirò di Seby Burgio e Dario Panza, anche loro sono stati raccontati con sorridente leggerezza. Anche perché non è delle storielle dei quattro che volevo parlare, ma della loro ottima musica… però mi dilungherei troppo. Dirò solo che ogni volta ci sorprende come, in una “lingua” che non ha vocabolario e senza suonare alcuno strumento, Gegè Telesforo riesca a farti godere le mille sfumature di cento orchestre, pur se accompagnato “solo” da un quartetto. Qui non siamo nella sua Foggia [dove, ci dice, da certi pericolosi ambienti la musica lo ha “salvato”], ma è dappertutto che la musica di ogni genere può rivelarsi “terapia salvifica”. Come stasera: gocce sincopate alla Bob Marley, sapori di Paolo Conte, esotiche atmosfere di Brasile, aromi di swing e blues…Perfino simil-arborate pazzesche: come nel finale, quando al segnale convenuto (i cinque si infilano buffi cappelli colorati e cappucci di lana grossa) il pubblico salta su come a un gol dell’Inter, e berretti, guanti in aria, sciarpe roteanti, grida sgarrupate, giubilo… Tutto finto, si capisce, “recitato” per Paolo Soriani-fotografo che con le sue mini-riprese al volo è qui che prepara un imminente film-documentario per la RAI… 
 Eh, mi piacerebbe saperla riscrivere la scena…

PGC

30/11/17

Il Medoc è anche un cinema. “CINEMA ITALIA” – Rosario Giuliani (sax soprano e contralto) / Luciano Biondini (fisarmonica cromatica)


  Il Medoc - stasera - è anche un cinema, ma senza lo schermo. Solo la musica. Ognuno “rivede” il film che si ricorda e - soprattutto - il quando lo vide, il dove, e con chi. Ognuno riavvolge indietro la “sua” pellicola del tempo: e immagini d’altra epoca, per qualche motivo impresse nella mente, gli balzano incontro, riesumate ma freschissime dai due musicisti lì davanti, loro sì straordinariamente vivi.
Colonne sonore famose, baciate dal successo come e a volte più dei film stessi.

       E se purtroppo in quei film ormai fuori dai circuiti non inciampi più, figurati le musiche. Archeologia sonora. Eppure bastano poche note, e te le ricordi: erano incise dentro, è bastato togliere la polvere. Anzi, eccole pronte a trascinare figure, storie, emozioni, nate dal film e che tenevi sopite.

       Se la musica batte il cinema è in questo: puoi “arrangiarla”, trasformarla, accelerarla, rallentarla, arricchirla, reinventarla… se sei bravo perfino migliorarla. Il film no. Quello come è rimane. Se lo tocchi, come l’alta tensione, muore il film. Così è per la pittura, la poesia, i romanzi, la scultura e le altre arti: non le puoi saccheggiare. O ti piacciono o niente. Al museo che rivedi dieci volte, quadri e sculture sono gli stessi (o sei cambiato tu e li “leggi” diversamente); a un romanzo non togli o aggiungi pagine, né versi alla poesia, ai libri al massimo puoi togliere la polvere.

       Giuliani e Biondini invece hanno le mani libere e - pur nell’assenza degli altri due della “banda” (Pietropaoli /doublebass e Rabbia /drums) - ci confermano che il loro “CINEMA ITALIA” è una rivoluzione affascinante.

       Rosario e Luciano sono sempre nuovi e da scoprire, anche per chi già li conosce: sono “oltre”, sfidano la resistenza e limiti costruttivi dei loro strumenti. Il sax (innata potenza di suono morbida, inarrestabile, capace sempre di “riempire” ogni minimo spazio, specie se con molto riverbero) stasera è il vecchio Selmer che colma il piccolo Medoc come un boccale di birra e tutti noi con vibrazioni soffici, col suo respiro aspro e caldo. Senza rumore. Creando fraseggi e invenzioni su temi e melodie che credevamo intoccabili, giocando a nascondere, svelando d’improvviso…

       La fida Excelsior asseconda Luciano da par suo: sonorità vibrante che non “riempie” come il sax ma vola incostante e bizzarra, a volte credi di perderla, pensi di non sentirla ma sei certo di vederla. C’è piuttosto da temere che il mantice superi l’apertura alare di un condor, e ci mandi bassi che non esistono… che la bottoniera fonda per l’attrito con le dita (alla fine solo un tasto-bottone s’è staccato, esausto)… che le infaticabili valvole schizzino - meritatamente - in testa alle indisciplinate donzelle di fronte, incapaci di ascoltare in silenzio. Invece, a tratti, diventa anche un organo, con pedaliera invisibile…

       Al cinema, lo sappiamo, il motivo conduttore - che sia bello o letale - te lo ripetono fino a sfiancarti. Un trapano in tutte le salse, magari con estenuanti fantasie d’orchestra. Come se dovessero vendertelo. Stasera no. Neanche un algoritmo avrebbe potuto prevedere quel caleidoscopio di arrangiamenti ricchi o essenziali, quei salti di ritmo, di umore, di tempo, trasmigranti dallo swing che non c’era, al klezmer che non c’era, al tango che non c’era, al jazz…

       Solo Fellini se la sarebbe immaginata, una serata così. Al Medoc.

PGC


25/11/17

Teatro dell’Arancio. “IL MIO DISPERATO CORAGGIO”. Il sentimento del vivere di Gabriele D’Annunzio, con Vincenzo Di Bonaventura


  “Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la morte, allora soltanto avrò il viso che mi era destinato”: così il poeta immaginava se stesso nel trapasso, restituito all’autenticità nascosta in vita dietro le maschere innumerevoli del suo personaggio, dietro “gli affanni, le fatiche, i patimenti, gli innumerevoli eventi che forzò e forzerà pur in estremo il mio disperato coraggio”.
       
       Ovunque egli sia ora nel suo immaginato altrove, sarà  grato al nostro Di Bonaventura - regista e attore solista - per la verità restituita, libera da imbalsamate mitologie, alla sua figura umana e alla poderosa unicità della sua arte.

       Come sempre in queste necessarie preziose serate, vi è una “prefazione” – come l’attore chiama l’amicale colloquio col suo pubblico – cui segue, attesa, una postfazione: che ci delizia - pur nell’inospitale freddo del teatro (per il Comune non val la pena scaldare la piccola sala per un artista-solista e i suoi venti-spettatori-sempre-gli-stessi) – nel vertiginoso trasvolare da D’Annunzio/Duse fino a Pirandello/Abba, mentre ricrea il rapporto profondo fra l’attrice inimitabile e l’artista, due anime alla ricerca della perfezione, il cui incontro - rimossi gli stereotipi - deflagra nella realtà teatrale dell’epoca come una “vera rivoluzione drammaturgica e scenica”.
  
       Per il resto l’attore lascerà parlare il poeta: dalle pagine del suo “Libro segreto, cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di D’Annunzio tentato di morire”, dal realismo del “rupestre Abruzzo” (Di B.), dai Romanzi, dalle Tragedie, dalle Laudi, dal dolente Notturno, mentre il tema musicale – con le intense composizioni di Fabio Capponi – si fonde, perfettamente a tempo, col ritmo del verso, del racconto, del saggio, della confessione.



       Il “Libro segreto” (1935) che apre il viaggio di questa sera, chiude in realtà la parabola esistenziale e artistica del vate (“primo dandy della storia italiana” dirà Vincenzo) ormai eremita al Vittoriale: confessione e “agiografia in negativo, laica Via Crucis”.
Vi si svelano, nella trama dei ricordi e dei moti interiori più occulti, un io malinconico, “tentato di morire” fin dall’adolescenza (Tutta la vita è senza mutamento / Ha un solo volto la malinconia / Il pensiere ha per cima la follia / E l’amore è legato al tradimento, così il tetrastico che chiude quelle memorie), e un’anima inconsapevolmente pirandelliana, moderna suo malgrado nell’impossibilità di dare di sé un ritratto univoco (“V’è un acerbo piacere nell’esser disconosciuto, e nell’adoprarsi a esser disconosciuto”).

       E le maschere molteplici che collocano il suo personaggio in primo piano sul palcoscenico di un’epoca feconda e tragica ("Tutto è diventato dannunziano perché tutto era già dannunziano. Bastava solo dargli un nome”, scrive Mario Luzi) sono anche quelle che, tra aneddotica e mitologia, pettegolezzo e scandalismo, offuscano spesso la traccia profonda che di lui resta in ogni campo della cultura e nell’arte. (“D’Annunzio è presente in tutti perché ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità linguistiche e prosodiche del nostro tempo”: così Eugenio Montale).

       Ne percepiamo ogni sfumatura stasera, nella voce dell’attore che plasma come nuovi i chiaroscuri di quell’anima “poliedrica come un diamante”.  Quella voce è Andrea Sperelli “impregnato di arte” nella prosa estetizzante de Il piacere; è il superomismo di Stelio Effrena ne Il Fuoco; è Tullio Hermil de L’Innocente e Giovanni Episcopo del romanzo omonimo che hanno sapore di Dostoevskij e di Tolstoj; sono le tragiche possenti figure di Mila e Aligi, fatte dell’eterna sostanza umana in un’azione quasi fuori del tempo (“Nella terra d’Abruzzi, or è molt’anni”): qui la voce dell’attore si sdoppia - prodigio di mimesi attoriale, con un pizzico di tecnologia-fai-da-te  - ed è quella femminile di Mila (Fui una fonte calpestata […] Se tu mi tocchi, se tu m’offendi tutti i tuoi morti nella tua terra […] avranno orrore di te in eterno) ed è quella presaga di Aligi (O Mila, Mila, sento come un tuono… / e tutta la montagna si sprofonda).

       Musica e verso intimamente si fondono, ancora, nel ricreare la suggestione panica del paesaggio fiesolano, e nell’onda marina che si umanizza (creatura viva / che gode / del suo mistero / fugace), e nel sensuale compenetrarsi dell’io col fluire eterno della vita nel cosmo (Non ho più nome né sorte / tra gli uomini; ma il mio nome / è Meriggio. In tutto io vivo / tacito come la Morte); si smorzano infine nella meditazione “notturna”, nell’esperienza del dolore, nella coscienza della sconfitta, nella memoria dolente del passato (Il passato mi piomba addosso col rombo delle valanghe; mi curva, mi calca).

       Nella serata che si conclude ci sembra che il nostro attore solista - oggi come in ogni suo Recital - possa far sue le parole del dannunziano Libro Segreto: Se vieni con me per un sentiere che tu hai passato cento volte, il sentiere ti sembra novo.

Sara Di Giuseppe

23/11/17

Rinascenza / In Art. Il Postino suona al Medoc, con Günther Sanin e Fabio Rossato


        In omaggio al suo autore Luis Bacalov - con cui Günther collaborò - verso la fine hanno suonato anche “Il Postino”. Quel pezzo dolce, orecchiabile e malinconico, che dai tempi del film s’era perso. L’abbiamo ascoltato con ardiente paciencia, come immersi nella poesia silenziosa di un’isola dimenticata. Invece siamo al Medoc di San Benedetto e qui il postino, che sembra uno della Protezione Civile, passa carico e di fretta sullo scooter dalla banda gialla… e mai dopo cena.

        Anche il repertorio è “fuori orario”: certe musiche da Caffè Concerto le ascolti, e le guardi, – nelle piazze delle città che contano, negli Hotel di lusso, alle Terme, negli storici Caffè… –  alle 11 del mattino o all’ora del tè, nella luce calante del pomeriggio.

        Violino e piano, violino e fisarmonica. Fantasie d’opera, riduzioni di grandi classici, musica popolare (anche di sapore balcanico), musiche da film. Accenni di valzer, tango e danze ungheresi, ma con un fiato di jazz, per renderli - finalmente - meno banalmente ballabili. Arrangiamenti originali ma moderati, mai esasperati. Salvo quell’inflazionatissimo Liber Tango che Fabio Rossato mette nella centrifuga della sua fisa a bottoni. Dice che era “troppo banale”… Ne vien fuori un travolgente work in progress, senza fine: lui con Liber Tango ha un conto aperto, dice che ci lavorerà fino alla vecchiaia, come a una “scultura compositiva grottesca, deforme, in continua evoluzione” (!)… Però, che bello questo “suo” Liber Tango!

        Günther lo lascia fare. Uno che abitualmente suona su un violino G.Fiorini del 1876 non usa la centrifuga. Niente note corsare. Günther Sanin (von Bozen) - già il nome mette soggezione - pare proprio il re dei Caffè Concerto. Ne ha anche il fisico, il portamento. Suona con autorevole naturalezza, dissimulando una tecnica finissima, cattura e affascina anche chi non distingue un violino da una viola. Il prezioso strumento, pur da solista, è sempre arioso. Non miagola mai, né indugia in toni caramellosi o eccede in gradazione emotiva. Fraseggi sobri e profondi, swing incalzanti, romantici sanglots de l’automne. Eccelle con Gardel e con Rachmaninov, con Massenet e con Brahms, con Paganini e con Morricone… Ah, se quel piano stasera non fosse un modesto Rosenbloom!

        Sorprendente è l’atmosfera. Il Medoc lo conosciamo, cibo, pizza e birra eccellenti. Ma non ha l’arredo antico Liberty German-style e l’aria colta e pigra di un Caffè storico. Eppure è bastato socchiudere gli occhi ogni tanto per credere d’esser seduti a un tavolino quadrato di marmo dell’antico Caffè San Marco a Trieste sotto gli alti specchi molati, i lampadari di cristallo, i quadri dell’800… O di ascoltare un quartetto lettone in quel Caffè di Mosca che affaccia sulle cupole d’oro parzialmente innevate delle chiese ortodosse… O di bere champagne al Beaufort Bar – purissimo Art déco anni ’30 – del Savoy di Londra… O di aspettare pazienti di entrare al Literary Café sulla Prospettiva Nevskij di San Pietroburgo, dove - vodka a parte – fanno spesso buona musica (e dove forse si è esibito anche Battiato, con cui Günther Sanin ha collaborato)…

PGC

15/11/17

Vittorio Camacci. Finalmente a casa anzi, a casetta


E' arrivato il momento di tornare che è anche il significato più profondo del viaggio, è come una "molla" che ci spinge nella rotta della nostalgia. Ciò è anche ovvio perché il migrante, lo sfollato, l'esule partono per tornare. E' questa la posta della sfida che mi ha accompagnato in questo lungo esilio durato più di un anno, la dimostrazione del mio successo : tornare con un bagaglio culturale e morale più ricco e tante storie da raccontare. 
Ma il ritorno, nello stesso tempo, è un mito, una costruzione fantastica fatta crescere impercettibilmente, giorno dopo giorno, per resistere alle avversità, alla solitudine, alle delusioni. Un mito di resistenza. Il ritorno è un'elaborazione della nostalgia, quel lenimento sottile di malessere quotidiano che mi ha accompagnato come un'ombra inseparabile in questo anno da sfollato. Ritorno e nostalgia sono due parole che camminano insieme, dialogano instancabilmente, nella mente e nel cuore. 
Il mio è stato un progetto di vita a breve termine dettato dalla necessità di mettere in sicurezza quel che resta della mia famiglia, una paziente rivincita di chi e ciò che è stato lasciato su chi e ciò è stato incontrato. in questo lungo tempo, quasi irreale, il " Ritorno " è stato preceduto da piccoli ritorni temporanei che non hanno confortato le mie grandi attese, anzi hanno bisticciato con esse prendendo a pretesto inattesi conflitti suscitati dagli inevitabili mutamenti intercorsi, il diavolo con la sua " cacca" ( denaro e cos'altro ... ) ha preso possesso delle mie terre martoriate senza che io me ne sia avveduto, è così cambiata la percezione del tempo ( non quello meteorologico ), sono cambiate le abitudine alimentari ( in tanta abbondanza nessuno coltiva più la terra o alleva degli animali ), sono cambiati gli stili di vita ( non c'è più socialità ed ognuno pensa ai suoi comodi ) , di abbigliamento ( porca miseria ! Qui ora son tutti griffati ...), di svago ( tutti in giro con l' I-Pod pronti a chattare nei social nessuno ti guarda più in faccia ). E poi, talvolta, a complicare le cose, ci si mettono anche gli amori e le amicizie nati in terra straniera che mi porto nella testa e nel cuore mentre ritorno dal mare Adriatico fino ai miei amati cromatici autunnali monti, coperti da fitte cortine di boschi, attraversando la feconda vallata del Tronto circondata da colline che ospitano generose vigne e giocondi oliveti. Un paesaggio complesso e mutevole si apre ai miei occhi, giocato sul contrastato ricordo dei villaggi arroccati sulle balze scoscese e ciò che ormai resta di loro. 
E' tempo di riaprire l'album di famiglia per rivedere limpidamente ciò che era e che no sarà più, per noi che siamo passati da case in cemento e sassi a queste minuscole abitazioni prefabbricate, tutte uguali ed anonime che ci accolgono. Dentro sono dotate di tutti gli accessori e sono confortevoli ma non hanno il profumo della mia vecchia casa. E' buffo questo nuovo paese mi ricorda il villaggio dei " Puffi" , manca solo che ci dipingano di blu e potremmo diventare una curiosa attrattiva turistica. Ora qui c'è un eccesso di ordine, di sicurezza, stabilità, di posto fisso, di famiglia unica, ma mi mancano le antiche forme di libertà esasperata come l'inventiva che si trasformava in piacere quando si trattava di escogitare stratagemmi moderni per custodire le antiche tradizioni tramandateci dai nostri avi. 
Il terremoto ha lasciato vuoti incolmabili, ha strapazzato le nostre vite ed ha trasformato le nostre comunità rendendoci incapaci di mantenere una vera, salda e forte identità. Soprattutto facendoci dimenticare la nostra storia ed i valori tramandatici dai nostri avi : la saggezza, la pazienza, il rispetto per gli anziani e la natura, purtroppo la perdita dei nostri storici borghi di montagna ha creato tutto questo. In questi luoghi ormai vagano solo le anime dei nostri predecessori e non sento più le sensazioni primordiali , i vecchi odori, gli antichi sapori. Qui ora tutti si sentono abbandonati e dimenticati, tanti non sono tornati, nessuno ha più l'entusiasmo di un tempo, c'è chi non coltiva più la terra, pochissimi tornano qui in vacanza. Stiamo perdendo il senso della vita, la nostra antica civiltà . 
Penso a tutto questo mentre ricordo con dolcezza il mio anno da sfollato a Porto D'Ascoli, alla generosa famiglia Persico che ci ha ospitato nella sua struttura, all'amico Luigi che ha supportato le mie trasferte podistiche, alla rivista Podisti.net che ha sopportato e pubblicato le mie noiose cronache quasi "nenie",  alle lunghe uscite in ski-roll sulla bella ciclabile del lungomare, alla meravigliosa famiglia che è la redazione della rivista letteraria UT in cui ho avuto l' opportunità e l'onore di esprimere il mio acerbo e mediocre talento, all' associazione Omnibus Omnes - Tutti per Tutti che mi ha reso partecipe delle sue solidali ed encomiabili iniziative ed a tutti quelli che nella loro immensa solidarietà non mi hanno fatto mai sentire solo. Grazie a tutti ! 
Ora mi rimane solo una cosa da fare, l'ho sempre avuta nel mio DNA, riprendere a correre gli antichi sentieri dei miei avi, dove finalmente mi sentirò veramente a casa. Sono sovrappeso ed un po' inflaccidito, la sfida appare lunga e difficile ma il mio cuore è un maratoneta che batte anche il tempo. Mentre corro tra queste splendide valli, rivedo i vostri volti e risento le vostre voci. Adesso correrò meno solo, correrò per guardare di nuovo avanti, e non avrò più paura.  

Vittorio Camacci

13/11/17

Teramo. A cena in Convitto, con I Solisti Aquilani e Sergei Nakariakov



        Sarà per i chilometri fatti saltando la cena per arrivare in tempo, che il profumo di cucina su per le scale del Convitto ci ha messo fame… Odori tipici di cena-di-Convitto: quelli del pranzo sono diversi, sempre inconfondibili ma diversi. Date retta, m’intendo, ricordi indelebili. Dato il modesto salto d’età, i Solisti Aquilani e Sergei Nakariakov stanno cenando assieme ai ragazzi? Speriamo di no, il concerto ne soffrirebbe. [Ai tempi, nemmeno una svelta partita di ping pong ci resuscitava dal fulminante sonno piombigno].

       Della severa elegante architettura dell’Aula Magna, della sorprendente e involontaria buona acustica dissi all’altro concerto. Ma è l’imperdonabile allestimento volante del palcoscenico che grida ancora vendetta, con quella precaria quinta nera ormai a fine vita e il pavimento rialzato in legno di stonato verde-Benetton. Meno male i 4 fari da cinema (a mo’ di giraffe) anziché uno soltanto, ma neanche uno straccio di microfono direzionale, tutto come viene viene? Bah… Per fortuna non ce ne sarà bisogno: dei 14-15 Solisti Aquilani [l’ottimo violoncellista-dai-capelli-rossi all’estrema destra, dopo la suite di Grieg in cui ha fatto anche il solista, s'è confuso tra il pubblico - nonostante il frac -] abbiamo goduto ogni singola nota di ciascuno strumento, e del possente flicorno di Nakariakov ci è giunta anche l’anima.




       Senza un direttore dichiarato e “visibile”, dei Solisti Aquilani impressiona innanzi tutto la precisione.
Perché altro è avere davanti la figura che ti “bacchetta”, altro è interpretare al volo dal primo violino (penso) gli impercettibili cenni, gli sguardi diagonali, le rughe provvisorie, i respiri anticipati o sospesi, le vibrazioni, i pensieri nascosti.

       Poi i movimenti: capisci meglio la musica, quando è anche elegante linguaggio del corpo. Qui sono archi, ma mi viene in mente Paolo Conte: “i sax spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga / e la canzone andava avanti sempre più affondata nell’aria […] l’orchestra si dondolava come un palmizio davanti a un mare venerato […] i musicisti un tutt’uno col soffitto e il pavimento”

       Specie nella seconda parte dello schubertiano “La morte e la fanciulla” - quella parte lenta e silenziosa ma anche dolcemente sincopata - i violini all’unisono, quasi “ipnotizzati”, sono come cigni danzanti sul fiume che sanno dove andare ma non te lo dicono. Gesti parlanti, matematici, ripetitivi ma non nevrotici e noiosi come quelli dei tennisti. Facce espressive: gioiose, concentrate, preoccupate, felici. Neanche certi eccellenti turnisti ce l’hanno.

       Preceduto dalla sua fama, il giovane flicornista russo Sergei invece non muove un muscolo. “Sembra” di ghiaccio. E noi ci mettiamo un po’ a capire che tutti quei suoni scaturiscono “solo” dal suo flicorno taglia XL, che pure ha 4 tasti invece di 3. Se chiudi gli occhi pensi a un trombone (a Lito Fontana per esempio), a una tromba classica, a un bombardino, un paio di volte perfino a un sax!

     La velocità di un pianista, l’espressività di un violoncellista, il calore di un flauto, l’impeto di un percussionista… Ma non gli si scompongono neanche i lisci capelli. Sergei è tanto in sintonia coi Solisti Aquilani da sembrare nato con loro: non gli serve guardarli, lui davanti, loro alle spalle. Come se niente fosse, neanche una sbavatura. O se succede, per dirla ancora con Paolo Conte ”sbagliano da professionisti”: non ce ne accorgiamo.

PGC

10/11/17

Grottammare. Teatro dell'Arancio. Manzoni: l’uomo, l’artista di e con Vincenzo Di Bonaventura e con Loredana Maxia


“Un vestito dimesso, un piglio semplice, un tono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui s’avvicina…”: il Manzoni che vive nella lettera di Niccolò Tommaseo a G.Pietro Viesseux, 24 novembre 1826, è anche “l’uomo che in ogni via che calcò impresse un’orma indelebile”*

       Quest’orma noi calchiamo stasera nel Recital intorno al Manzoni del nostro Di Bonaventura, regista e attore, talvolta non-solista: oggi è con lui la brava Loredana Maxia, antica allieva dei tempi del TeatrLaboratorium Aikot27, che condivise le glorie di quello spazio magico in via Fileni, quando “il teatro lo facevamo anche per strada” e - scherza Vincenzo o forse no - “eravamo magnifici!”.

       Anche oggi l’attore “sparisce” per farsi - attraverso la parola alta (“La parola è un condottiero della forza umana” per Majakovskij) - testimone e “fulcro conoscitivo di un’era”** e il suo recitar cantando disegna  l’uomo e l’artista così come emerge dal lavoro anni fa realizzato con il regista e autore teatrale Giuseppe Emiliani.

       Vi si intersecano il rendiconto della complessa biografia manzoniana e la dimensione artistica, poetica, ideale, finanche psicanalitica di quel grande. 
A cominciare dalla nascita non banale, da quella Giulia Beccaria figlia di Cesare e - pur se le malelingue attribuivano, pare fondatamente, la vera paternità a Pietro Verri - da quel “malinconico gentiluomo di nobiltà minore”, Pietro Manzoni, di ventisei anni più vecchio di lei, genitore distratto e anaffettivo. 
Allevato dalla nutrice (“la quale vogliono che fosse svelta, vivace e piacevolona”), poi allontanato dalla famiglia e dall’amore materno in una lunga via crucis di “piccolo coscritto” rinchiuso in austeri repressivi collegi religiosi (i frati Somaschi di Merate, i Somaschi di Lugano, i Barnabiti…).

       Precedenti che ti rendono psicopatico o killer seriale; o forse invece ti allungano la vita, stando a quella, ragionevolmente lunga, del Manzoni. Certo ne divenne “un grave nevrotico con spunti ossessivi nonché patofobici”: agorafobia e altro... “Un enigma” dice di lui Pietro Citati “per la singolare forma della sua mente, che combina le qualità più discordanti tra loro”.

      Ma fu soprattutto “uomo che trasse il suo genio dal cuore (è ancora il Tommaseo), impresso di quella bontà che l’ingegno, non che guastarla, rende più sicura e profonda […], colui che ha insegnato agl’Italiani la vera via della storia”.

       Capace di autoironia (“un Lepore finissimo ne il carattere” - Tommaseo), respinse l’offerta di un seggio di deputato nel primo Parlamento del Regno “giacchè sono balbuziente… Mi ci vede - rispose a Emilio Broglio - davanti a una così solenne assemblea che dico giu…giu…giuro! Farei ridere tutti”
       Dovette pregarlo Cavour in persona, e Senatore lo fu poi davvero, nel ’60, e l’anno dopo votò l’Unità d’Italia. [Perché pensiamo subito all’oggi e agli inverecondi gnomi che popolano quegli scranni?...].
La folla lo atterrisce, da quarant’anni non esce da solo, eppure gli universitari lo acclamano sotto casa, vanno a trovarlo perfino Garibaldi, perfino Verdi che alla morte scriverà per lui la sublime Messa da Requiem.

       C’erano stati prima gli anni giovanili, di pienezza e d’impegno, del riannodato rapporto con la madre a Parigi, del tardivo edipo che a 20 anni lo lega saldamente a Giulia dopo la morte del compagno di lei Carlo Imbonati (“Ella è continuamente occupata… ad amarmi e a fare la mia felicità” - Lettera al Pagani,1806).
E lei sarà presto suocera amatissima di Enrichetta Blondel - una specie di Trinità, chiosa Vincenzo - sposata sedicenne ad Alessandro e madre dei 10 figli che quasi tutti gli diedero il tormento - ma non volle collegi per loro, gli erano bastati i suoi - e quasi tutti (tranne due) gli premorirono.

       E poi il ritorno a Milano, la dolorosa vendita del Caleotto a Lecco, secolare proprietà dei Manzoni, e il distacco da quelle terre lecchesi, contenitori di irrisolte memorie (solo tre anni prima di iniziare il Romanzo che di quegli affetti e ricordi porterà i segni). E poi l’amatissima villa di Brusuglio, ereditata da Carlo Imbonati, che diviene approdo e rifugio dove giocare all’agricoltore, estenuare paure e nevrosi in camminate di ore, appassionarsi di botanica sentendosi “un novello Linneo”; lui e il suo amore per gli uccelli, la sua pietà per quelli in gabbia, la sua avversione per la caccia (un grande anche in questo)

       E’ tutto quel mondo, a occhieggiare e trasfigurarsi nella scrittura del gigante che donava a noi Italiani la nostra lingua (e che lingua!) - sola cosa che dia a un popolo dignità di nazione - e una letteratura che spezzava barriere regionali e sociali.

       “Quel ramo del lago di Como” egli lo vedeva dal Caleotto, così pure Pescarenico (parecchio del giovane Manzoni scorre nelle vene di Lodovico/Fra’Cristoforo); e la località di Acquate, parte dei possedimenti di famiglia, è il villaggio dei Promessi Sposi. Luoghi carichi delle reminiscenze più care, cosicchè il distacco di Lucia nel romanzo è anche il suo: cacciata dall’Eden e perdita d’innocenza, tutt’uno con la conoscenza della negatività del reale (“… e seduta com’era, sul fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente”).

       “Ciò che nel Romanzo del Manzoni piace è il Manzoni stesso” scrive A.De Gubernatis, e tutto nel Romanzo è specchio reale del suo tempo e del nostro: il sopruso eretto a sistema e gestito mafiosamente; le “colonne infami” e le cacce agli untori; la peste, la fame, la guerra. Sull’affresco potente e corale s’innalza il sentimento individuale dell’artista e quella pietà per l’offesa all’uomo che pure non rinuncia alla speranza. La madre che nello strazio composto consegna la figlioletta, appoggiata nella morte al suo petto, al carretto del turpe monatto - ”Addio Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme…” - è acme lirico e contrappunto al degrado morale e fisico di un’umanità atterrata e travolta ma non senza redenzione.
      
        Il “turbine vasto” dei grandi movimenti collettivi, delle passioni e dei moti interiori, delle masse e degli individui, “l’ombra irriducibile della Storia”, tutto questo urge in ogni singolo componimento di quel grande: poiché compito della poesia, lievito e fondamento assoluto dell’arte, è tendere alla verità.
“… Il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo" (A.Manzoni, Lettre à Monsieur Chauvet).

       Quel bisogno di vero è anche il senso profondo di questo teatro testimoniale: esso sottrae il respiro titanico di quel genio tormentato alle banalizzazioni scolastiche, alle esegesi pretigne, alle facili consolazioni di presunte Provvidenze, per riproporci integri quel messaggio etico e la grandezza di quell’arte. 
E a questo teatro ancora una volta siamo grati per i bagliori di verità che rischiarano il nostro deserto presente e il “teatro confuso del mondo”.

                   “… Se il Manzoni fosse stato perfetto in ogni cosa, non ci rimarrebbe altro che adorarlo.
                   Ma poich’egli era mortale come noi e soggetto ad errare e alcuna volta può avere anch’esso umanamente
                   errato, sarà utile a noi l’apprendere in qual modo egli vincesse le sue battaglie ideali, e quale ostinazione
                   virtuosa egli abbia messo per vincere”
                            (Angelo De Gubernatis, Letture alla Taylorian Institution, Oxford, 1878)

               *    Niccolò Tommaseo - G.P.Viesseux, Carteggio inedito - Primo volume (1825-1834)
               **  “Dialogo con Vincenzo di Bonaventura, inarrivabile attore solista”
                         di Alceo Lucidi, in The Life Magazine

Sara Di Giuseppe

09/11/17

Porto San Giorgio, Teatro Comunale. Purple Whales “Inspired by Jimi Hendrix”


“Inspired by Jimi Hendrix”. “Ispirati”? Mmm… Poco e per fortuna, secondo me.

        Non solo e non tanto perché le cover hanno ormai stufato (e col jazz non c’entrano niente) ma perché, se questo gruppo s’è davvero ispirato a J.H., lo ha fatto arrangiandolo con studio e intelligenza, estraendone il meglio, non la teatralità e gli eccessi. Studiando reinventando e riscrivendo solo quello che c’è di unico speciale inimitabile e intramontabile. E, con questo bagaglio ma con originalità propria, continuando con la loro musica, la loro  personalità.

        Un concerto “moderato”, quello di stasera: un ossimoro, data l’ispirazione. Nulla fuori dalle righe, non  rumori, grida, tumulti, droga, turbolenze, sul palco o tra il pubblico. Niente chitarre spaccate o bruciate, niente di violento o appena tellurico. Non è dovuta intervenire la polizia. 
Lo spirito rivoluzionario di Jimi Hendrix in un piccolo antico teatro marchigiano, pure col suo bel CASTIGAT RIDENDO MORES sulla facciata (sai le risate di Jimi…) e con appena 100 anime: non in uno stadio o in un’arena d’America.
Poi si sa che Porto San Giorgio non è Woodstock. A fine concerto, se l’Alessandro Lanzoni non l’avesse confessato “che ci crediate o no, siamo partiti da Jimi Hendrix”, sta’ sicuro che non ci avremmo creduto.

        Così come, tapino, conosco poco Hendrix (appena Hey JoeAngel e qualcos’altro) e perciò forse poco lo amo, altrettanto imperdonabilmente non conoscevo questi sei musicisti. Sono venuto al buio, tanto se confidi in “tam” non bagli. E non ho sbagliato: un’ora e mezza saldamente incollato alla sedia (come tutti), che se lo sa Hendrix che lo abbiamo ascoltato così…

        Un concerto-quasi suite, “moderato e ordinato” ma coraggioso. Un ascolto talvolta impegnativo, certo. Magicamente narrativo nei suoi scenari jazz-rock, comprensibile sempre, e godibile se seguito più con la testa che con le orecchie, respirando a tempo, senza distrazioni. 
Se arrangiare J.H. – mi dicono e ci credo – è quasi impossibile, questi sei ci sono riusciti unendo il rigore alle loro calcolatissime fantasie, con poliritmie improbabili ma avvolgenti, senza scivolare in chewingum sonori ubriacanti ma poveri di emozioni. Niente accordi bellici né aggressività. Nessuna agitazione, tutti quieti ai loro posti, ogni gesto al ralenti. La buona musica non può essere solo spettacolo. E torrenti di note ordinate, arrangiamenti intensi in punta di penna, quasi una seducente flanérie musicale.
     
        Assente apposta (ma presente nell’aria) la mitica Fender Stratocaster, la “scena” – si fa per dire – se l’è presa il violoncello d’Irlanda, anche per la sua giovane e bella e femminile voce di bosco. Note lunghe, coloriture pensose, spruzzi d’oceano, attese, silenzi di tundra.
Dal canto loro, i due piani (un coda d’ordinanza e per l’occasione un raro Fender Rhodes – sarebbe lo zio della Stratocaster…, che ha dovuto pure inventarsi contrabbasso) e i due ottimi sax hanno dialogato quasi incessantemente tessendo e disfacendo melodie che mai ci resteranno in mente, tanto sono jazz.

        Antitesi di J.H. soprattutto Alessandro Lanzoni sullo Yamaha: tocchi riflessivi, levigatezza dei dettagli, niente sfoggio di tecnicismi; suona solo le note necessarie, le altre le lascia (come raccomandava sempre Joao Gilberto); corde mai arroventate, “calde” sì, ma non nel senso della fisica. Orchestrazione epica, quasi da camera, e il suo batterista (Tamborrino, nomen omen) anche lui tanto statuario quanto completo e solido: i suoi vuoti-pieni, gli eleganti tratteggi ritmici, i chiaroscuri architettonici, i suoi momenti sospesi, i suoi tocchi cristallini, i suoi  (contro)tempi dispari…

        Un “ensemble” da riascoltare subito, ma non hanno portato il CD… Magari, in qualche parte, ci sarebbe anche stato spiegato questo titolo strambo: “Purple Whales”, balena purpurea. Scusate l’ignoranza – ve l’ho detto che Jimi Hendrix l’ho poco frequentato e me ne pento – ma che vor di’?

PGC

03/11/17

La casa che mi hanno dato... terremoto, ricostruzione e dintorni



"Che niuno se ne vada da la terra de Arquata e da lo suo contado con l'intenzione di non tornarvi mai più" sentenziò lo " Magnifico Messere " davanti alla sua " Corte dei Miracoli ". 
Decise allora che per far tornare il suo popolo, villico e sottomesso, doveva far costruire tanti villaggi di piccole casine, tutte uguali in apparenza ... ma di dimensioni diverse a seconda delle esigenze di ciascuna famiglia. E qui cominciò la solita corsa ai favoritismi ed ognuno si recò a corte per avere la casa più grande di tutti ...!
Una favola potrebbe cominciare così... ma non è una favola.
Scrivo queste righe con un po' di rabbia e un po' di amarezza. La rabbia per una ricostruzione che non è mai cominciata, l'amarezza perché dopo una lotta continua ed estenuante, durata varie settimane, non sono riuscito a ottenere una sistemazione abitativa adeguata per me e per la mia anziana madre.
Questo perché chi decide le sorti del nostro essere terremotati e sfollati ha deliberato che nelle Marche due persone hanno diritto a una casa di 40 mq con un'unica stanza da letto a prescindere che esse siano madre 84enne malata e figlio adulto. Anche se poi, come ormai accade troppo spesso in Italia, ci sono state delle situazioni "particolari" per cui qualcuno ha avuto casette di 60mq mentre altri no...
Inoltre le abitazioni che ci assegnano sono anche difettose, piccole, inadeguate. Ci mandano a vivere in casette ballonzolanti, con pavimenti che si gonfiano, pareti delle docce che cadono su chi le fa scorrere, maniglie che restano nelle mani di chi le impugna, finestre che si staccano, rubinetti che si rompono, posate che si piegano, pentole che si bucano, coperte e lenzuola che graffiano la pelle.
E pensare che costano più di un attico a San Marco a Venezia, tra spese di urbanizzazione e costo vivo quasi 7.000 euro a mq e in alcuni casi la manodopera che le ha realizzate è stata sfruttata con lavoro nero, con orari di lavoro irregolari da aziende che tramite studi compiacenti ottengono attestazioni professionali ideologicamente false, altro che lavori rapidi e sicuri...
Eppure a un anno dal terremoto, non sono ancora state consegnate e, ironia della sorte, quella che mi sarà assegnata è inadatta e inadeguata alla mia attuale situazione familiare. A chi ho chiesto spiegazioni di questo, mi ha risposto: " abbiamo fatto degli errori" ... e già, "loro" i crimini contro chi vuole una vita dignitosa li chiamano: "errori".

" Eppure il vento soffia ancora, spruzza l'acqua alle navi sulla prora
... e sussurra canzoni tra le foglie e bacia i fiori, li bacia e non li coglie.
Eppure sfiora le campagne, accarezza i fianchi alle montagne
... e scompiglia le donne tra i capelli e corre in volo in gara con gli uccelli
"

Vittorio Camacci