27/12/24

POLONIA – AMERICA A/R


     Per noi è un viaggio da niente, oggi, POLONIA – AMERICA, Andata… e magari Ritorno. Ma se per un profugo impetuoso (senza Samsonite, in compenso con famiglia…) perfino oggi è ancora quasi come avventurarsi in mare su un gommone bucato, o come scavalcare con sprezzo del pericolo - restandone vivi - il muro di confine tra Messico e California, figurarsi cosa comportava 30 anni fa trasmigrare - come speranzosi emigranti, mica come turisti-viaggiatori - dalla depressa Alta Slesia di Polonia post-sovietica dal sapore di carbone alla rutilante super industrializzata “Detroit dell’auto” (per di più già decadente e problematica): peggio di un trauma esistenziale per Radek (Radosław) Szlaga figlio, giovane artista dell’Accademia di Belle Arti di Poznan, non fine battilastra o saldatore meccanico Polski-FIAT.  

      Conscio della sua formazione di artista multidisciplinare, ma anche per indole, Radek farà proprio l’artista. Di professione, con una sua specificità, non superficialmente. 

Fin dall’inizio lui attraverso l’arte osserva il presente, studia come vivono e come cambiano al momento le sue due società di riferimento: l’aspetto quotidiano della gente e dell’ambiente, le tradizioni invisibili ma invadenti, le culture innate o imposte (contrastanti e retrive), i sogni estinti, i sacri simboli confusi con la pubblicità, l’asfissiante volatile politica, i tanti fallimenti obbligati. L’America consumistica e ritmica che gli è stata assegnata lui la scannerizza con sensibilità e nostalgia, “con gli occhi impastati di swing e di lacrime”, canterebbe forse Paolo Conte. Ma anche con l’istintiva romantica introspettiva ironia di improvvisato giornalista. 

  

Non indugia nella rappresentazione di ameni paesaggi di boschi laghi e città, di nature morte vive, di invasioni armate di fiori e colori, di sante madonne con bambino zitto (in Polonia vanno sempre), non perde tempo in ritratti di foto preparate, nè adopera la furba tecnica - più lucrosa che pensosa - di certa rampante arte contemporanea buona per le mode e il successo facile. Si costruisce la sua strada. 


Gli otto quadri medio-piccoli realizzati apposta per FIUTO sono fedeli testimonianze di una vita complicata e intimamente sdoppiata, vissuta nel profondo come può fare un artista reporter, “cronista” di due epoche in una, quindi pure di due sé stesso. Filosofia popolare e democratica rappresentata di slancio, con stile minimalista/espressionista essenziale, senza ripensamenti.

 

      In “Pan RDK Malarstwo”, locandina della mostra, la riga orizzontale che divide in due l’inquadratura ben rappresenta - dissolte e distanti, non parallele né consecutive ma sovrapposte nel loro tempo - le due vite, nei due mondi, di due ragazzi in una stanza - in realtà è uno solo - con alle spalle la finestra. Guardano. Ma è quella frattura che…  o chissà, toh, forse è il riflesso del vetro… che “inventa” l’altro ragazzo (quello ancora in Polonia). Vicini (come fratelli) guardano, sorridono, un po’ scherzano: uno più moderno, più inserito dell’altro, più cresciuto, più scafato, più sicuro (quella mano sulla spalla…). Tratteggi forti di matita quasi violenti, segni rapidi, decisi. Non c’è altro, ma quanti pensieri dipinti! Potrebbe essere il frammento dello storyboard di un film o di un fumetto.

      [Alex mi dice si ispiri proprio alle popolari (e spesso assurde) storie di BEAVIS AND BUTT-HEAD]

 

 

     Negli altri 7 quadri dove compaiono, quasi per caso, anche innocui animali (come due mucche credo polacche), si rimane sempre nell’astratto, ogni figura trasmette pensieri. Tanta natura e niente automobili (strano, in America), solo oggetti comuni senza design, la brutta moderna sedia colorata (qui grigia) di plastica che usiamo tutti - comoda, costa poco, prodotta a milioni, più si rompono più inquinano - messa accanto a dei salsicciotti tipici e alla più conosciuta bottiglia nazionale di Vodka con l’etichetta contraffatta (non riesco a tradurla). 

Uno si chiede che c’entrano, cosa vuol dire, però le guardi, ti fermi, le riguardi, pensi. Cose così. Semplici. Comprensibili. E’ arte contemporanea! Poi il quadro “Confession”: terribile, carcerario, tratteggi d’angoscia in croce ortogonali, il prete importante (con la stola ben in vista) dalle spaventose narici che confessa dei timorosi preti piccoli senza peccati. Atmosfera di medioevo, da Chiesa di tutti i Santi di Gliwice. Quando si dice l’autobiografia dell’infanzia.

      Non è una mostra leggera, ricreativa, natalizia. Forse Alex stavolta ce l’ha portata, a ragione, più per sollecitarci emozioni intime, dati i tempi. Inaugurata di sera sotto i portici bui di Ripa - con freddo e vento, neve non ancora… (atmosfera Vecchia Polonia) ha fatto contento Radek (sempre serio come un polacco serio), anche per l’orgogliosa presenza dell’Istituto di Cultura Polacco di Roma. Comunque, POLONIA – AMERICA  A/R son viaggi che ormai lui si fa in scioltezza, come fare un quadro… 

 

Buona mostra!  Queste sono solo le mie “Impressioni di Dicembre”  [se era Settembre venivano meglio]

 
PGC - 21 dicembre 2024

 

17/12/24

La complessità del male

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
a cura di 
Vincenzo Di Bonaventura e Laboratorio teatrale Aoidos
 
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DELITTO E CASTIGO
di 
F. Dostoevskij
 
 
Ri-scrittura scenica di e con 
Simone Cameli
 
OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA    14 -15 Dicembre 2024  h21,30
 
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LA COMPLESSITÀ DEL MALE
 

“Ecco dunque il peccato di Raskol’nikov; l’orgoglio e la superbia; l’infrazione della legge e l’affermazione di sé; la trasgressione della norma e la pretesa d’una libertà illimitata: la ribellione e il titanismo.”

(L.Pareyson, Il male in Dostoevskij)

 

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Essere unico attore e interpretare più parti; uscire da un personaggio ed entrare in un altro e di nuovo uscire da questo e nel mentre spiegare al pubblico ciò che si sta facendo: è ciò che l’eccellente Simone realizza stasera - nel "suo" DELITTO E CASTIGO - ponendosi nel solco dell’intuizione teatrale di Dario Fo - l’attore unico che interpreta più ruoli - e calcando l’orma dei maestri, da Carmelo Bene fino a Di Bonaventura. 
 
È quest’ultimo, nel suo momento conversazionale col pubblico – quasi numeroso, stasera, in libera uscita dalla catalessi culturale dei luoghi, chissà se dura – a ricordare la figura dell’amico e artista, il giovane Giuseppe Plebani troppo presto scomparso e a cui l’intera rassegna Verfremdungseffekt Testimonial è dedicata; a sottolineare ancora come in questo teatro del testimone l’attore sia anche e soprattutto artefice: poiché è colui che “supera” il testo (in quello che egli chiama attentato al testo: per di più, oggi, non opera teatrale ma romanzo) e nella ri-scrittura scenica lo ri-crea e nel rappresentarlo opera il brechtiano “straniamento” - Verfremdungseffekt - tanto sulla scia delle avanguardie teatrali (da Lecoq a Brook, a Bene, a Fo) quanto attingendo all’antico, al dramma classico e alla Commedia dell'Arte. 
 
Nella spoglia scenografia dell’inospitale Ospitale - che è quasi lo “spazio vuoto” di Peter Brook, “necessario” perché al centro vi sia l'elemento umano - agiscono il Simone/Raskol’nikov e il  Simone/Petrovič Giudice Istruttore, e ancora il Simone/Raskol’nikov deportato in Siberia: nei monologhi di Raskol’nikov, nelle trappole logiche del sulfureo Petrovič si delineano gli imponenti temi etici del romanzo e l'essere, questo, manifesto esistenziale sulla condizione umana, sulla ricerca di giustizia e sul concetto di colpa.
 
Vi è un misfatto, organizzato con accurata progettazione, ma il misfatto risponde ad un’esigenza impellente di giustizia del protagonista, all’impossibilità di sopportare l'idea che la propria vita e quella di altri sia rovinata da un essere spregevole, l'usuraia in questo caso (Io non ho ucciso una persona, io…io… ho ucciso un principio).

Giustizialismo che lo rende giudice e carnefice al tempo stesso: l’intrinseca "giustizia" che Raskol’nikov vede nel delitto - l’idea universale di giustizia è infatti per la sua natura ideale, inattuabile e imperfetta, e dunque “si può rinunciare alla perfezione” - si legittima storicamente poiché - come argomenta in uno slancio superomistico - …tutti i legislatori, i fondatori della società, dai più antichi e continuando con Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via erano criminali per il solo fatto che facendo una nuova legge infrangevano quella precedente che la società considerava sacra. […] Ciò che è notevole è che la maggior parte di questi benefattori e fondatori dell’umanità ha versato fiumi di sangue. 

Paradosso che confliggerà ben presto con la stessa volontà di giustizia del giovane e lo precipiterà nell’inferno del dissidio interiore che lo perderà. 

La legge morale - come tutto ciò che è universale ed esiste indipendentemente dalla nostra volontà, a cominciare dalle leggi di natura - non può essere razionalizzata o dimostrata: nella pretesa di farlo, Raskol’nikov pecca di superbia e viola, nel delitto, la legge morale per eccellenza, la sacralità della vita che è indipendente dalla sua utilità o nocività nel consorzio umano. E si rende, infine, artefice della propria rovina. 
 
Un fascio di luce abbagliante sull’eterno umano dramma è quello che il nostro Simone, attore/artefice, estrae dal romanzo.
 
Nei monologhi della sofferta introspezione del giovane, nel groviglio di circostanze scandagliate dal giudice istruttore, nella volontà di espiazione e riscatto di un Raskol’nikov ormai deportato, l’arte scenica ci trasmette in ogni vibrazione il conflitto interiore, la dicotomia tra delitto e desiderio di giustizia, tra questo e la giustizia stessa come entità superiore e impersonale.
Ma nel buio che scende sulla sala e sul pubblico e sull’ultima battuta - Solo sette anni, ancora sette anni!... - il nostro Simone/Raskol’nikov sembra dirci che gli interrogativi restano irrisolti, che "la realtà del male [....] è purtroppo una realtà effettiva e ineludibile che conferisce alla condizione dell'uomo un carattere eminentemente tragico" (L.Pareyson). 

Così come la complessità del male si sottrae ieri come oggi alle facili o consolatorie schematizzazioni, e lo sguardo che scandaglia gli abissi dell’umano può solo ritrarsene, senza portare con sé risposta alcuna.


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...Ma qui inizia un’altra storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua progressiva rigenerazione, del suo passaggio da un mondo ad un altro, quella del suo ingresso in una realtà che fino a quel momento non aveva nemmeno immaginato. Questo potrebbe essere il tema di un nuovo racconto, ma quello presente è giunto alla fine.

 

(F.Dostoevskij, Delitto e Castigo – Epilogo, II)

 

Sara Di Giuseppe - 17 dicembre 2024

 

 

11/12/24

“Suonerò per te, stanotte”

 TEATRLABORATORIUM AIKOT 27

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL
Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos


Il CONTRABBASSO 
di
Patrick Süskind

Ri-scrittura scenica di e con Vincenzo Di Bonaventura
e con 
Alberto Archini alle percussioni

A cura di
 Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos 


OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  7 e 8 Dicembre 2024  h21,30


“Suonerò per te, stanotte”

 

Franz, bassista - seconda fila terzo leggìo - dell’Orchestra di Stato di Berlino, uomo qualunque, entra in scena vociando: cappotto cammello, piglio risoluto, gestualità ampia, monologando disserta di sé, di musica, di orchestre, di canto e d’altro ancora. Apostrofa di tanto in tanto un amico inventato, là, in platea, poi riprende l'alluvionale flusso di coscienza...

 

Ma noi sappiamo di aver davanti il nostro Di Bonaventura attore, regista, sceneggiatore, musicista, tecnico del suono e fabulatore d’incanto; "macchina attoriale", insomma, che allo stesso modo del contrabbasso ha in sé la  potenza di un’intera orchestra.

Sappiamo poi che lo spettacolo che vedremo stasera “già domani sarà diverso”: perché oggi la ri-scrittura scenica di questo Contrabbasso di Süskind ci offre un testo metabolizzato nell’inconscio attoriale e ”pulsato dal cuore” verso noi  spettatori; e domani quel “testo a monte” – come nel dettato beniano – ancora ri-creato dopo essere stato “dimenticato”, sarà nuovo e altro. 
E ancora noi spettatori ne saremo raggiunti fin nell’io profondo: tanto da poter essere vero, per dirla con Carmelo Bene, che potremmo "non saper raccontare ciò da cui siamo stati posseduti nel nostro abbandono al teatro”.

 

Stasera è monologo  - tragicomico - per attore solista, con batteria al completo per jazzistiche sottolineature, con qua e là travolgenti assaggi di grande musica nel flusso dissertatorio del bassista Franz, nello spazio claustrofobico della stanza insonorizzata dove si esercita col suo strumento, a poche ore dalla rappresentazione serale de L’oro del Reno.
 
Dunque detesta Wagner, il nostro Franz - Se ci fosse stata la psicanalisi ci saremmo risparmiati quel mostro di Wagner – quasi con lo stesso ardore con cui ama Brahams e Schubert - ah la Seconda di Brahms! ah l’Incompiuta di Schubert! – e d’altronde i musicisti sono tutti in analisi, sono la categoria più depressa, sono così dipendenti dal loro strumento... 

 

Lo strumento, già.

  

Lui,  il contrabbasso: anno di costruzione 1910 circa, altezza del corpo 1,12, fino al riccio 1,92; lunghezza della corda vibrante un metro e dodici […] oggi potrei chiederne fino a ottomilacinquecento marchi.

 

Fin dall’inizio il flusso di coscienza non lascia dubbi sulla centralità dello strumento (il mostro) tanto nell’orchestra quanto nel pur limitatissimo universo relazionale del bassista: Se c’è una cosa inconcepibile è un’orchestra senza contrabbasso (…) Se si toglie il basso insorge una totale confusione linguistica di tipo babilonese, una Sodoma, all’interno della quale più nessuno sa perché fa della musica.

 

E tuttavia dei contrabbassi non si accorge nessuno. Soprattutto non se ne accorge Sarah, splendida soprano destinataria della desolata incorrisposta passione di Franz, amorosa ossessione con quella voce, quell’organo divino.
Lo sguardo di lei non è mai rivolto al contrabbasso di fila, e lui si spingerebbe all’autolesionismo professionale, pur di attirarne l’attenzione (Quasi quasi stono apposta…quasi quasi lo lascio cadere…); mentre in parallelo si fa sempre più marcato, nel flusso di coscienza, l’avversione per lo strumento, la percezione di quello come di un ostacolo: Non è uno strumento, è un mostro. A volte vorrei fracassarlo. Segarlo a pezzi. Spaccarlo. Triturarlo, schiacciarlo e polverizzarlo e… farlo fuori in un camion col carburatore a legna! No, proprio non No, proprio non posso dire di amarlo. 

 

Con il feroce totalizzante amore/odio che unisce Franz al contrabbasso - che ha un’orchestra nelle sue 4 corde, che soffre il caldo e il freddo, cannibalizzante nella sua monumentalità – sale in superficie quel coagulo di frustrazione e impotenza che è la condizione esistenziale e professionale del personaggio. 
Lo stesso contrabbasso, rabbiosamente percepito come zavorra che impedisce di emergere, si fa a sua volta depositario di significati metaforici, scandaglio psicanalitico di pulsioni rimosse e di complessi (quello edipico, innanzi tutto, alla base della scelta di quello strumento al quale non si arriva se non per vie traverse, per caso o per delusioni): ed è - nel suo ingombrante gigantismo che tuttavia l’orchestra “nasconde” - in tutto simile a un iceberg: ne vedi il 10% e sai che la parte maggiore è sommersa, ed è la più inquietante.
 
Ma a dispetto dell’odio - Uno strumento orribile! […] Sembra una vecchia grassa. Il fianco è troppo basso, la vita un disastro totale […] e poi la parte delle spalle, esile, cascante e rachitica – c’è da impazzire – e per una sorta di transfert sessuale, lo strumento finisce per assumere le sembianze di Sarah:  a volte immagino di vedermela davanti, molto vicina, come il contrabbasso in questo momento. E di non potermi controllare, di doverla abbracciare… così… e con l’altra mano così… quasi come faccio con l’archetto… di circondarla col braccio… o dall’altra parte, di cingerla da dietro come faccio con il contrabbasso e di appoggiare la mano sinistra sui suoi seni, come avviene nella terza posizione sulla corda sol… quando suono da solista 

 

Suonerò per te, stanotte 

 

Non può che tracimare, l’intreccio di frustrazione, orgoglio, rabbia. E lo farà, nello struggente delirio in cui Franz vede sé stesso - mentre l’orchestra quasi sospende il respiro in attesa dell’inizio e le tre figlie del Reno stanno là come inchiodate dietro il sipario chiuso - esplodere, dal fondo del golfo mistico, nello spettacolare grido: SARAH!

 

 

L’effetto sarà colossale, lo leggerete domani sui giornali.

 

Solo qualche anno prima il felliniano Prova d’orchestra* (1979) riproduceva dinamiche simili, mettendo in scena la ribellione dei musicisti contro l’orchestra e la società gerarchizzata di cui quella è proiezione e miniatura, che si  realizza ma per fallire poi e lasciare il posto ad un' angosciosa oscura normalizzazione. 
In Süskind la ribellione resta virtuale: e resta quella stanza chiusa, insonorizzata, spazio mentale più che fisico, metafora di una condizione atemporale dell’esistenza e insieme veicolo di riflessione critica sulla funzione dell’artista, sul consorzio umano, sulla contemporaneità in genere.

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 *  Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo Paese? Perché eravamo ridotti a questo punto? Tra questo e il film non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto. Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era già finito, anzi quando era già in programmazione. Non è che fin dall’inizio io non annettessi al film i significati che ha, ma non avevo coscienza del perché a un certo punto mi fosse diventato urgente il farlo. Ebbene, poi l’ho saputo: è stato l’assassinio di Moro”. 

(F.Fellini)

(in Franca Faldini - Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984)
 
Sara Di Giuseppe . 10 dicembre, 2024

 

 

06/12/24

ALBERGO DIFFUSO (forse) anche nel Piceno a 494 m s.l.m. (per esempio)

Non sarà "ancora alberghi", questo “ALBERGO DIFFUSO”

 

          Il progetto sociale dell’ALBERGO DIFFUSO (A.D.) può finalmente essere anche per noi l’innovativa saggia opportunità di investimento pubblico/privato nel “Turismo Sostenibile”, e non soltanto e banalmente attività alberghiera (di rapina), nè (furbi) B&B a go-go nè forme dilaganti e spopolanti di “affitti brevi” (Airbnb).

Ri-utilizzando, con sapiente e corale gestione centralizzata, solo strutture e immobili già esistenti “diffusi nell’autenticità locale” - semplici abitazioni appena da ricondizionare, palazzetti storici dimenticati [dismessi o in (s)vendita], case sussurranti di paese, casolari tipici sorridenti, ex luoghi di lavoro o d’impresa ecc. - l’A.D., in sinergia tra residenti e turisti, valorizzerebbe diversamente e con successo i nostri borghi storici espulsi dalle zuccherose rotte turistiche. Senza costruire il solito albergo (l’albergo in più o l’albergo che non c’era), senza cacciare gli abitanti, senza insistere nella violenza del territorio.

Borghi e colline restano integri, gentili. Per il turista emergente che cerca nuovi stimoli, addio stress nelle ospitali dimore-soft a misura d’uomo di albergo diffuso mimetizzato nel jazz dell’ambiente, conservate ad arte per lui.

          Conservare qui non significa congelare, bensì rivitalizzare rigenerando con cautela e rispetto: solo che ormai è compito delle anime volenterose del borgo snaturato e svilito da certa modernità, bonificarsi dal kitsch delle brutture sovrapposte, frutto dell’abitudine all’incuria dei propri amministratori e dell’ignavia dei troppi sudditi votanti. Presane tristemente coscienza, tocca a loro subito reagire, macinar idee, pianificarle con luminosa intelligenza, progettare, organizzarsi, restaurare come si deve. Perché, come in acustica la qualità d’ascolto è compromessa dal più scadente dei componenti, così un borgo si mostra brutto-e-cattivo e respingente al visitatore se anche uno solo dei suoi elementi importanti resta sciatto e scadente: solo ricondizionandone tutte le parti critiche con cura, impegno, sentimento, armonia e spirito sociale, il borgo diventerà attrattivo e funzionerà. Servizi, viabilità, segnaletica, traffico, sicurezza, trasporti, illuminazione… cose così, a tutto campo.

Il turista/viaggiatore che sceglie l’A.D., statisticamente meno corsaro, più leale e sensibile della cieca massa vacanziera, guarda con occhi come fionde, pensa, confronta, giudica, pretende. Torna a casa sua e racconta. Ma pure dà. E quel che dà - specie in esperienza, socialità, cultura - è patrimonio regalato che resta al territorio, è curriculum che non si disperde.

-          Se (per es.) il comprensorio del borgo a 494 m s.l.m. vuol degnamente competere con le forme tradizionali di ricezione alberghiera del circondario con un A.D., ri-conosciuti in coscienza i propri punti di debolezza, vi rimedi! Ricordandosi che il suo cliente potenziale prediligerà sempre - migliorandole - la calma, il silenzio giusto, la quiete dell’antico, la pulizia urbana, l’informazione, i prezzi morigerati e sorvegliati, l’aria buona, la genuina cortesia di paese.

Ma non basta.       

          Non basta perché occorre aggiungere un connotato speciale a questo A.D.. Certo per distinguerlo, ma anche per cogliere l’opportunità di dare al settore vacanziero corrente (che normalmente ne è lontano) qualcosa di autenticamente culturale. Sta diffondendosi l’arte di viaggiare: spinta dalla curiosità, dalla voglia di esplorare, di imparare o da chissà cosa, c’è sempre più gente che vuol scegliere “dove” andare e “perché”. Un borgo meno nevrotico e più umano certamente  attira, poi se offre una certa panoramica culturale originale attuale è meglio.

            Per cui, agganciandomi non per caso alla cronaca di questi giorni, il polverone mediatico sulla banana con scotch di Maurizio Cattelan venduta all’asta alla cifra folle di 6,2 milioni di dollari, bassa cronaca giornalistica che sbeffeggia l’Arte Contemporanea centrifugandola coi soldi dei mercanti, degli speculatori e di galleristi più spregiudicati che competenti, propongo l’idea di dare alle varie dimore-soft del borgo a 494m s.l.m. (sempre per esempio) adibite ad A.D. i nomi di noti artisti/performer internazionali di Arte Contemporanea*.  Se i siti fossero 10, sceglierei

BANSKY  CHRISTO  KOONS  PAOLINI  KOUNELLIS  HOCKNEY  KIEFER  CASTELLANI  GILARDI  CATTELAN

E di ognuno “arrederei” gli interni (possibilmente pure gli esterni) con manifesti, stampe, cataloghi, adesivi, modellini e multipli di opere dell’artista di cui quell’A.D. ha preso il nome. Come se lì ci abitasse davvero lui, l’artista famoso, ah ah…  

Ovviamente, a prezioso supporto dell’operazione, si progetti una comunicazione adeguata che informi, racconti, spieghi, insegni, appassioni. Ma, per favore, in un italiano preciso e brillante, non medicinal-burocratico-pomposo come fan tutti. Anche in oxfordiano inglese (non maccheronico o all’amatriciana, che poi ci ridono dietro…), e in spagnolo, cinese e russo. Sììì! Non è strano, serve!

       Ma ancora non basta.

-          Al “nostro” ALBERGO DIFFUSO necessita pure un marchio/logo esclusivo. Eccolo:

 

*P.S.    Ah… ci vuole un certo fiuto per orientarsi nell’Arte Contemporanea. Ripa ce l’ha.

PGC  Messico e nuvole - 1 dicembre 2024



03/12/24

“IL CANTO ANTICO DEL DOLORE” *

VERFREMDUNGSEFFEKT TESTIMONIAL

Rassegna di teatro poesia musica canto orchestra
A cura di Vincenzo Di Bonaventura e Teatro Aoidos 
 
_'NDO' e LA STANZA BREVE
di
GIARMANDO A. DIMARTI
 con Vincenzo Di Bonaventura attore solista - Alberto Archini  percussioni

 

OSPITALE DELLE ASSOCIAZIONI
GROTTAMMARE ALTA  -  30 Novembre 2024  h21,30

 

 

“IL CANTO ANTICO DEL DOLORE” *
 
Vincenzo Di Bonaventura                       Giarmando A. Dimarti

dove questo tempo induce il tuo confuso esistere?
su quali illusioni vesperali naviga la mente fatìca
il cuore calpestato la ragione abbattuta?

(G.Dimarti, in La pula e il vento, 2013)

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Se la poesia di Giarmando Dimarti incontra la voce dell’attore solista e questi è Vincenzo Di Bonaventura e ne nasce poderosa ri-scrittura scenica della produzione dimartiana, l’evento  potrebbe richiamare millemila spettatori (come per Carmelo Bene al teatro Alle Cave di Sirolo) e ci vorrebbero i tornelli. 

 

Se non si fosse a Grottammare. 

Un gigante della poesia e un gigante del teatro: per noi pochi fortunati, è concerto per voce sola e djembe e percussioni ardite, ed è poesia che ti inchioda come urto poderoso di vento che ti obbliga a fermarti, a piegarti su te stesso. E la macchina attoriale che è Di Bonaventura si lascia possedere dalla grande poesia di Dimarti: l'attore-solista si fa aoidos di versi titanici e quelli ti arrivano dentro in forma di vibrazioni ed ogni cellula, in modo profondo, quasi primitivo, ne è raggiunta.

 

Tambureggiare di djembe, vortice di percussioni, e la voce si fa lamento dissotterrato da affogate memorie: il verso dimartiano, sperimentale e frantumato, destrutturato e al tempo stesso di lingua antichissima e dotta, irrompe apocalittico nel conformismo anche linguistico, perché il velo delle cose ne sia squarciato, perché il poeta possa ripiegarsi sul dolore eterno di una terra erranea sdraiata fraudolenta, evocare presago il cieco precipitare della nostra vita in disarmo verso il tempo destinato, verso il “primate futuro” che noi torneremo ad essere nel ”giorno dopo / il dies illa quel giorno proprio quello”.
Scavano implacabili l’indicibilità del reale, quei versi, gridano il chiassato silenzio di un mondo arreso, di un obeso presente contro il quale la parola poetica - taci il tuo ciancio cantare / poeta - s’infrange e muore. Perché alla poesia con le sue balorde sfioccate bandiere sonore non possiamo chiedere, montalianamente, la parola salvifica nella spaesata realtà di un oggi in avaria dell’umano.

Balena tuttavia il seme di una speranza nuova, nel poeta: l’ "animula vagula blandula" batte in cerca di una nostra sopravvissuta umanità, ed è allora che la pena del vivere si sublima, nel verso di Dimarti, nell'idea possente di un recupero dell’uomo; batte là dove si china pietosa sulla sorte di uomini bui senza nome senza storia, fratelli nella acerba vita e nella morte apertasi piega sul ricordo dell' amico suicida, su quel cuore in ritardo per un giorno senza rive che tragicamente ha cercato un’alba di là da tutto // senza più paura; s'interroga sull'uomo fatto solo, perchè è caduto il respiro che univa l'uomo alla pena  / dell'uomo.

 

Ed è ancora lo scorrere esiliato di questo povero tempo sgomento che muove l'afflato dell'altissima poesia civile di Dimarti, il suo disperato j’accuse: per un'umanità emarginata ed errante, con le labbra incollate dai digiuni (a chi offrirete a sdebitarvi / il vostro pane cencioso / se le mie ossa scricchiolano / come un rotto ramo triste senza stagioni? ); per una quotidianità che lascia sgomenti e sovrasta ed umilia; per l’umana follia che come acqua cupa / ha innalzato la sua forza in bave lattiginose contro la costa; per l’incapacità di decifrare l’insensato presente, per la devastazione obbligata, per l’indicibilità di una barbarie che attecchì sotterranea / funesta, per l’annientamento possibile. 
Ecco allora l’urgenza poetica e la denuncia, il rifiuto di un oggi devastato e svenduto - ho paura dell'uomo - e la tensione verso un recupero di umanità che ricomponga l’unità perduta con il tutto, che additi un orizzonte nuovo. 

  

Perché non si debba soltanto cadere sotto il dolente carico di vita calato sul mio tempo, perchè ci si possa sottrarre allo schiamazzo ebete del giorno, abbiamo bisogno di quel canto poetico: visionario, presago, umanissimo. Venuto fino a noi stasera con la voce aedica, per lungamente restare. 

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- Le citazioni provengono dalle raccolte poetiche di G.A.Dimarti: 
  La pula e il vento; Le stagioni dismesse; E' tutto sotto controllo; Il tempo che ci siamo dati; La stanza breve.

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*( G.A.Dimarti,  La stanza breve)

Alberto Archini
Sara Di Giuseppe - 3 dicembre 2024