26/07/21

(82) UOMINI CON IL MARE DENTRO [NESSUNA DONNA]

 Francesca Marchetti – Mostra fotografica al porto di San Benedetto


 
Adesso aspetto che Francesca faccia un’altra mostra bella come questa con (82) DONNE CON IL MARE “FUORI”.


Mogli, madri, compagne, sorelle, fidanzate, separate, vedove… Donne che faticano col mare quanto i loro uomini, solo che stanno a terra,
“FUORI” dal mare. Ma il mare lo guardano, lo annusano, lo amano e lo temono, come se anche loro lo avessero “dentro”.
Donne importanti come gli uomini, ma che restano in secondo piano, invisibili, quasi nel dimenticatoio.


Quasi sempre anche il mare se ne dimentica.
 
 
PGC - 26 luglio 2021

Fotografie di Francesca Marchetti

 

"Prospettiva" Danctis

 Inferna Danctis Orkestra

di e con
Vincenzo Di Bonaventura
Parco Arena Sisto V – Grottammare
23 Luglio 2021   h 21
 

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Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi
(Dante, Inf. XIII)
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È la poesia in musica di Battiato scelta dall’attore solista, a intrattenerci prima che il Concerto inizi, anche se niente è più lontano di questo mediterraneo parco d’ulivi divenuto “arena” dall’innevata Prospettiva Nevskij, né certo vedremo stasera un film di Eisenstein sulla rivoluzione.
Di rivoluzionario c’è molto tuttavia in quest’ora-e-mezza-quasi-due con Di Bonaventura: evento sismico che rovescia canoni e convenzioni di paludati recital; attoriale memoria “metabolica” che scaglia noi, pubblico, dentro “la più alta architettura linguistica che dal Trecento in qua mente umana abbia innalzato”(Di B.); macchina narrante e concertante che sposa il duttile endecasillabo alla sonorità percussiva del djembe e la partitura che ne nasce è tutt’uno col respiro possente del metro dantesco.
Sarà che “Hai l’Inferno dentro”, diceva all’allora giovane attore italiano – ma anche ehi, italiano, mafioso! … – l’insegnante britannico alla Scuola Internazionale di Teatro di Londra; sarà che a lui tredici/quattordicenne s’era impressa nella mente quella prof che si commuoveva nel leggere Dante in classe e piangeva, perfino, sulle parole di Francesca: sarà per questo - e certo per molto altro - che l’epica dantesca è stata poi magnifica ossessione per l’attore-solista e l’Inferno in Concerto ne ha punteggiato l’intera carriera artistica, sempre diverso, sempre unico, avanguardia già allora, trenta o vent’anni fa, come adesso, come stasera.
 
E stasera scorrono, i Canti infernali, dal primo al terzo e poi oltre, fino al settimo, all’ottavo, al nono… perché il pubblico inchiodato – dolorante - alle scomode sedie non ci pensa per niente ad andarsene, così lui continua, e con lui rischiamo di vedere l’alba dentro l’imbrunire, mentre la luna che dall’orizzonte s’alzava lenta è diventata gialla da rossa che era e ora illumina il mare giù in basso.
 
È un crescendo, il Concerto, e trascorre nell’oltremondo infernale dalla tonalità calda e sospesa dell’incontro con Virgilio al ribollente digrignante magma dei dannati che la pena sfigura; e sempre vi è, personaggio e narratore, il poeta: testimone che trasporta nell’aldilà la propria sostanza umana, la politica e la storia, l’irriducibile concretezza del reale e - in continuo trapasso dal particolare all’universale, nell’inesausta ricerca di significati assoluti - il poderoso messaggio umano e morale del poema.
Il djembe segue il verso o lo precede, lo avvolge e lo incastona nella sua ipnotica trama sonora e Di Bonaventura diviene ciascuna delle ombre cui la voce si contorce e si deforma nella pena: si fa roca e scoscesa in Francesca, dannata in eterno per quell’amore che a nullo amato amar perdona; s’inarca nel grido rabbioso o nell’invettiva furente, si fa sommessa nella richiesta dolente di Ciacco Ma quando tu sarai nel dolce mondo / priegoti ch’a la mente altrui mi rechi, s’innalza nella tragica profezia sul destino di quella sua Firenze dilaniata da corruzione e discordie; stride aspra e grottesca negli accenti irosi delle creature infernali, demoni e figure del mito antico e dei bestiari medievali.

Quasi due ore sono trascorse e dalla “più grande opera fra cielo e terra” e dal suo “testimone” ci congediamo infine a malincuore; la piccolissima Aurora balla ancora silenziosa ai piedi del palco, al ritmo del djembe e di chissà quale musica misteriosa che le canta dentro.
 
E noi: per quest’ora e mezza quasi due, con Di Bonaventura e il suo Dante abbiamo (quasi) dimenticato l’orrido palco, che li fanno grandi così per il raduno nazionale delle bande o per la festa della trebbiatura con gara di liscio; abbiamo potuto (quasi) non vedere quel suo perimetro di sbarre carcerarie coi manifesti appiccicati davanti - disomogenei e a casaccio - come alla sagra del boccolotto al ragù; l’infilata di “bandiere blu 2021” appese alle transenne, vanagloriose e stridenti con l’incuria del vialetto d’accesso; le plasticose sedie scolorite e stanche, pensate per peccatori in vena d'espiazione. 
Perfino la luna, innalzandosi, ha preferito tenersi di lato, dietro gli ulivi, ai margini di questo parco benedetto dalla natura e affidato alla sciatteria comunale che sbaglia anche il nome: quel supponente “arena”, semanticamente inappropriato a una dolcemente digradante distesa di ulivi, ed evocatore piuttosto di muscolari ludi gladiatorii.
 

 
Sara Di Giuseppe - 25 Luglio 2021


 

25/07/21

"Uomini con il mare dentro" e tanto altro

 

A San Benedetto in festa, tra spettacoli di cover band e musica a palla, tra street food e processioni per uomini da spiaggia più che di mare, finalmente vedo qualcosa di degno. Sobria ma originale formula espositiva e artistica all'interno della "Festa della Marina":
 
Francesca Marchetti che interpreta con la fotografia "Uomini con il mare dentro". Il luogo e l'allestimento sono già un segno di sensibilità e progettualità non comuni. Fotografie 70x100 non poste al chiuso di strutture più o meno accessibili, con orari e condizionamenti sanitari, ma all'aperto, h24, su grate esistenti di protezione dell'area da diporto, e proprio a due passi da quelli stessi volti che si muovono e che partono per la pesca tutti i giorni che gli concedono le leggi terrene e ambientali.
 
Leggendo fugacemente il motivo di questa ricerca di Francesca (82 primissimi piani di pescatori in carne e ossa, 'solari' da invidia, senza stress come da scrivania accade), ho comunque potuto apprezzare molto il suo tributo a questi uomini di mare di oggi! contemporanei! visi e colori del mestiere, lavoro nobile e primitivo che ha fatto nascere la nostra comunità. 
 
Bella l'idea, professionale la realizzazione, creativa la location... come oggi si dice. Piazzale Pinguino, area Porto (a sud, vicino ai cantieri navali di San Benedetto del Tronto).
Spero che esca o ci sia già una pur piccola pubblicazione. Lo meritano, l'autrice come la marineria rappresentata.
 
PS: Bello che non ci siano i nomi dei marinai ma solo l'appartenenza alla 'motopesca'; meno bello che le poesie in vernacolo, a intervalli tra i ritratti, non vi siano state stampate a fianco le traduzioni in lingua italiana. Il dialetto parlato è quasi incomprensibile; scritto è ancora peggio (come una lingua straniera), anche per me. Figuriamoci per un milanese.
 
Francesco Del Zompo - 24 luglio 2021 
 
Francesca Marchetti, Uomini con il mare dentro, 23 luglio 2021


 

24/07/21

UNITED COLORS OF SAN BENEDETTON


        In tutto il mondo gli spazi di lavoro e di servizio dei pescatori, come pure le loro casette vicino al mare, sono sempre pitturate di colori pastello: rosso, verde, giallo, blu, viola, rosa, celeste… colori di alta luminosità eppur rilassanti e rinfrescanti, che favoriscono la meditazione. Da Reine (Norvegia) a Cadillero (Asturie – Spagna), da Aveiro (Portogallo) alle Cinque Terre, da Valparaiso (Cile) a Burano, da Muralla Roja (Spagna) a Klima (Milos – Grecia)… I turisti corrono a vederle, perché hanno quel fascino romantico e mettono allegria.

A San Benedetto no. Le fanno nuove e tutte marron: NO UNITED COLORS.

Più di 400.000 euro per un arzigogolato caseggiato a schiera fatto di avanzi di legno e cemento, incastrato tra uno stradone a scorrimento veloce in curva e una rovente spianata d’asfalto buona per una messa papale. E tutto di un tristanzuolo marron scuro, agghiacciante come le baracche di Auschwitz ma senza filo spinato. Di certo sull’ingresso non incomberà la scritta FARBE MACHT FREI.      [Farbe = colore]
 

PGC - 24 luglio 2021


20/07/21

4 architetti e 1 ingegnere per “quattro balaustre rotte”

San Benedetto T. – Lungomare centro. 
      4 architetti e 1 ingegnere (!) per riparare “quattro balaustre rotte” del lungomare e 4 mesi di lavori [6 aprile / 4 agosto], ma a metà luglio hanno appena iniziato impacchettando di bianco solo le prime vicino all’Albula. Pare un’opera di Christo.

Adesso sospenderanno per l’estate, passeranno agosto, settembre, ottobre… arriverà l’inverno. Se ne riparlerà forse a primavera, ci penserà la prossima amministrazione. Con comodo, si capisce.
 
180.000 euro ribassati a 135.000, l’impresa appaltatrice che come da collaudato (mal)costume passa al sub-appalto e la sub-appaltata che se nel frattempo non fallisce terminerà i lavori a babbo morto.
Tapini i 4 architetti, l’ingegnere e l’occhiuta
SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA, BELLE ARTI E PAESAGGIO DELLE MARCHE, che finora hanno pensato, studiato e lavorato per niente. Oddio, per niente no: come dipendenti/funzionari/dirigenti pubblici di Comuni e Regione, non hanno quei superstipendi rimpinguati annualmente da superpremi di migliaia di euro extra, come raccontano senza sdegno i giornali?
Insomma, le nostre belle e malandate balaustre liberty - protette dall’occhiuta Soprintendenza - meritavano certo attenzione affettuosa e saggia, non tutto questo vanaglorioso e mastodontico ambaradan di super-tecnici blasonati e imprese quasi straniere specializzate in sub-sub-sub-appalti.

       Ah, se le avessimo affidate a uno dei nostri vecchi ma bravi e coscienziosi muratori in pensione (dell’età circa delle balaustre, ce ne sarà ancora qualcuno) non ce la saremmo cavata con dieci/venti/venticinquemila euro e qualche birra? Oltre che molto più economico, sarebbe stato sicuramente anche un lavoro celere e ben fatto, di cui andare orgogliosi noi e il muratore. Altro che ‘ste ditte X e Y, che se lavorano male e se si sputtanano non gliene può fregare di meno.
Ma certe cose facili il Comune non le fa - e sappiamo perché - mentre la Soprintendenza non ci vede.
 
 
PGC - 19 luglio 2021


 

18/07/21

Se una notte d’estate un geomungo


FLOW

Compagnie Linga (Suisse)
Coreografia: Katarzyna Gdaniec – Marco Cantalupo
               Musica: Duo Keda (
E'Joung-Ju , Mathias Delplanque)
 
Teatro Rossini – Civitanova Marche
Venerdì 16 Luglio 2021 h 21.30
 

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“Rilàssati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto”.
(Italo Calvino – Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979)
 
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Geomungo.
 Per minaccioso che suoni il nome, è solo uno strumento musicale, viene da tempi lontanissimi e da mondi esotici: ma stasera è qui, “tradizionale cetra a pizzico coreana”, e satura l’aria di sonorità ipnotiche, guida il linguaggio dei corpi, ne avvolge i passi e questi diventano volo e venti, uccelli e nuvole, acque e pesci.
 
Il duo Keda dal vivo sul palco - E'Joung-Ju e Mathias Delplanque , rispettivamente al geomungo e alla musica elettronica - tesse la trama sonora di una coreografia che ruba alla natura le sue magie, agli animali le sapienti dinamiche di movimento e aggregazione, al paesaggio gli echi misteriosi del suo apparente silenzio.
 
La fisicità energica dei sette danzatori della Compagnia Linga trascolora in una fluidità che modifica il reale, ricrea dinamiche e linguaggi, codici e segnali che appaiono misteriosi e magici solo perché non appartengono all’animale umano.

La coreografia ri-crea infatti lo spazio, lo ri-definisce in funzione di un incessante aggregarsi e scomporsi, avanzare e arrestare quasi in virtù di un comando o parola d’ordine; imita nell’arte quel che avviene in natura quando sciami d’insetti e banchi di pesci, branchi di mammiferi e stormi di uccelli obbediscono ad un’intelligenza collettiva auto-organizzata che istantaneamente si coordina e sincronizza e segue forme di comunicazione tanto - per noi - misteriose quanto per loro infallibilmente efficaci, che sia strategia anti-predatoria o “puro piacere degli uccelli di danzare nel cielo”.
 
Sorprendente coreografia, questo “FLOW” che trasferisce nel linguaggio dei corpi ciò che la natura ci porge ma raramente vediamo e quando lo facciamo, per esempio col naso in su verso i disegni magicamente pennellati in cielo dagli storni in volo, ne siamo ipnotizzati, soggiogati dalla nostalgia di una perfezione che è negata all’umano.
 
“FLOW” è così al tempo stesso danza e metamorfosi: i ballerini disegnano la scena di sinuosità eseguite con precisione geometrica, evocano della natura e del mondo animale quella perfetta sapienza così lontana dall’umano (oggi più che mai); tessono folgoranti microstorie, rituali di corteggiamento e competizione; fluiscono in repentini cambi di direzione, in ritmi convulsi o distesi; plasmano nelle forme dell’arte la suggestione di comportamenti sociali del mondo animale, tanto organizzati e sofisticati da bastare, nella loro assoluta perfezione, a rovesciare ogni nostra presunzione di superiorità e ogni nostro arrogante specismo.
 
Sembra impossibile, al termine, tornare a vedere uomini e donne in quei danzatori straordinari che ricambiano generosi l’entusiasmo del pubblico.

Perché le sonorità ancestrali del geomungo sposate all’iper-modernità del suono elettronico, la coreografia geniale e visionaria, i mondi aerei, acquatici, terrestri che abbiamo visto prender forma sulla scena nel moto dei corpi, nell’incanto e nella maestria della danza, ci hanno trasferiti in una sospesa atemporalità - così distante dall’umano - in cui la sapienza della natura e delle sue leggi si fonde intimamente all’intelligenza animale. Ed è armonia a noi sconosciuta o paradiso per sempre perduto.
 
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I movimenti di alcuni gruppi di animali possono sembrare una coreografia di danza: le evoluzioni in volo di determinate specie di uccelli e negli sciami degli insetti, in acqua per i pesci e alcuni cetacei, la sincronizzazione del movimento di branchi di zebre, bufali o animali domestici quali le pecore. Si tratta di quelli che vengono definiti “comportamenti collettivi”, comportamenti sociali con più di un interattore, nei quali i singoli individui si uniscono per aggregazione non casuale e compiono movimenti coordinati anche molto complessi”.   

(in: OS, OggiScienza, aprile 2019) 

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Sara Di Giuseppe - 18 Luglio 2021
 

 


 

11/07/21

IL “MARGINE DI RISCHIO”

ovvero
Il calcio ai tempi del colera
 

              Ogni Paese ha i politici che merita. E l’Inghilterra deve averla combinata grossa, per meritarsi un Ministro delle Attività produttive, Kwasi Kwarteng, che interrogato sugli Europei di calcio a Wembley come occasione di contagio (60 mila spettatori, praticamente una città dentro uno stadio, come nel Cile della junta militar) se n’è uscito con un ineffabile  
C’è sempre un margine di rischio nella vita.



Deve aver studiato filosofia.
 
           Nemmeno in Italia però stiamo messi bene, visto che:
 
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          abbiamo un Presidente della Repubblica che accetta l’invito ad essere anche lui della partita, proprio là dove la variante Delta del Covid sta furoreggiando: tanto per dare il buon esempio. Per dimostrare che ce ne sbattiamo delle cassandre e dei focolai in caduta libera nelle città in cui si sono giocate le partite del demenziale campionato itinerante; o per recitare da Pertini, forse, trascurando il dettaglio che quell’11 luglio 1982 non c’era il Covid (e perfino le Olimpiadi le faranno - purtroppo, ma giustamente - senza pubblico);
 
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          abbiamo mille privilegiati tifosi italioti - cioè un bel mucchione di papaveri - che sotto l’ala di Uefa e Federcalcio salperanno (non dallo scoglio di Quarto) con voli charter che li scodelleranno ben al dente direttamente sullo stadio, e a fine partita li ri-scodelleranno, ormai scotti, a casetta loro felici e contagiati. E contagiosi. Ah no, è vero, staranno in isolamento fiduciario (che, non ti fidi?);
 
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          avremo l’intero paese paralizzato, domenica: tutti gli eventi, gli appuntamenti e le cose serie della vita salteranno o sono già saltati come tappi di spumante; sindaci e prefetti vellicheranno con zelo elettorale l’Italietta del panem et circenses (presto solo circenses) a suon di maxischermi dalle città ai paesucoli. 
Va da sé che i malati guariranno, i ciechi vedranno, i moribondi rimanderanno la dipartita: orsù, chi avrebbe l’ardire di creare problemi nelle ore cruciali “of one of the greatest battles in history”?
 

Forse i posteri ci arriveranno, studiando tanto, a decifrare l’oggi.  
A capire perché i protagonisti di interessi economici tanto colossali quanto opachi abbiano potere e influenza tali da imporsi sulle regole ineludibili di una pandemia in corso; a spiegare l’ipnosi collettiva che fa assumere il mercato e i fiumi di denaro che regolano quel mondo, a paradigma di improbabili valori patrii da difendere costi quel che costi; a svelare la lente deformante che - complici fanfara mediatica, stampa e istituzioni -  fa scambiare le sorti calcistiche per guerra fra mondi e scontro di civiltà.

 
Per ora, di sicuro, la distrazione di massa è ben oliata e funziona, e l’urlo da stadio relega ai margini o sullo sfondo la realtà vera: quella di un paese che arretra di decenni grazie a un irredimibile ceto politico nazionale e locale, ad una classe Alpha* arrogante e intoccabile, e alle controriforme, oggi, di un governo della Restaurazione che il Congresso di Vienna al confronto fa ridere.
 
*(cfr. Il mondo nuovo, A.Huxley) 


Sara Di Giuseppe - 10 luglio 2021

05/07/21

Je déteste le football

CIVITANOVA DANZA 2021

BOYS DON’T CRY

Compagnia Hervé Koubi
Coreografia: Hervé Koubi Fayçal Hamlat
Testo: Chantal Thomas Hervé Koubi

Teatro Rossini
Civitanova Marche
2 Luglio h 21.30


 Je déteste le footballj’aime la nuit 

 

“Quanto a me, mi sento vivo solo quando danzo”
 
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Il calcio, io lo detesto… mi piace la notte, di notte sogno, e vedo cose magnifiche… Houssni: mi chiamo così, Houssni. Vuol dire “bello” in arabo.
Houssni detesta il calcio, alzarsi la mattina per andare a scuola sapendo che lì dovrà giocare al calcio è una tortura: è pieno di cattivi soggetti un campo di calcio, non sai mai se calciano per segnare un gol o per fracassarti la testa
 
Ama la danza, Houssni: le mie gambe iniziano a ballare, è più forte di me, hanno il ritmo giusto e io, io le seguo, andiamo all’unisono, io e le mie gambe… Le mani le braccia, i fianchi, la schiena, la testa, la bocca
 
È questa la storia che si srotola sul palcoscenico stasera, che si riavvolge all’indietro e si slancia verso il domani: ha l’energia e la grazia della danza, e ogni singolo movimento è pura forza e geometrica precisione ma appare naturale e leggero come il vento e come  l’aria, racchiude lo studio, la tecnica, il talento; e ha i volti e i corpi dei sette danzatori di Hervé Koubi, che a turno recitano il testo e raccordano al moto coreografico una narrazione ora colloquiale ora comica, intimista o beffarda, scanzonata o dolente.
Ogni monologo è tappa del cammino di formazione del caparbio Houssni: un perdente nato nelle discipline dove bisogna menar le mani o tirar calci - mi faccio bullizzare continuamente – perché invece tutto in lui è danza, danzare per me è la vita, permettimi di danzare, papà
 
Ne parlano, in platea prima che si alzi il sipario, a tu per tu col pubblico, i due coreografi: in volenteroso italo-francese narrano la genesi dello spettacolo e la nascita della compagnia anni fa, la collaborazione fra loro due, compagni nella vita e nel lavoro, di vedute e indoli opposte, franco-algerino di lingua francese Hervé, algerino di lingua araba Faiçal, questi musulmano, l’altro di religione ebraica. Quale miglior miscela per tesservi l’arabesco incantato e colto di una coreografia che nasce dalla pagina scritta e a questa si intreccia di continuo.
 
Perché la storia di stasera è uguale, forse, alla loro e a quella di ciascuno di quegli artisti sul palco: in un contesto sociale e familiare che marchia e gerarchizza le differenze di genere e i relativi ruoli, il calcio è lo sport macho per eccellenza, la danza è per femminucce; e guai se invece tutto, in Houssni, è danza, anche quando riceve le pallonate in faccia, anche quando nel judo - che il padre gli impone perché diventi un vero uomo - ne prende quasi da morirne e ride immaginando che sulla lapide scriveranno “morto per schiacciamento in una sala di judo”. No, non si può morire facendo ridere, bisogna morire con dignità, e dunque…
Meglio andare al mare, quando guardi il mare a lungo tu oublies le temps, tu oublies tout.
 
E che il padre sia orgoglioso di lui è il sogno di Houssni, il padre non dovrà più vergognarsi di lui; ma non ne avrà il tempo, sembra che il buon Dio ti abbia chiamato prima del previsto, troppo presto per me, papà. E allora lasciami danzare per te, papà.
 
Non scivola nella retorica la danza, neppure se racconta un sogno rivoluzionario – e nei miei sogni danzo e sento la tua voce che dice danza figlio mio, sono fiero di te – ed è anzi forza che si fonde a leggerezza, e quella dei sette danzatori che fluttuano sulla scena in apparente assenza di gravità è tecnica rigorosa che si unisce ad espressività contagiosa e rara.
Arrivano a noi tutte intere, la gioia e l’energia profonda del loro danzare, e da quel palcoscenico le sentiamo attraversarci in ogni fibra. L’entusiasmo del pubblico che li saluta e con cui loro salutano il pubblico, dice che il messaggio è passato.
 
Ma uscendo, nella sera in cui la partita di un’Italietta del calcio ha desertificato le strade di un’intera nazione, capiamo rassegnati che il sogno ce lo siamo lasciati alle spalle, in quel teatro e fra quei danzatori, e che di quella “mascolinità tossica” che nutre gli stadi e i relativi colossali interessi economici, di quella no, non ci libereremo mai.
 
“Dans certaines culture, on danse pour les morts […] parce que la Danse est tellement importante que pour rendre hommage à celui qui part, on danse pour lui”
 
(Ch.Thomas – H.Koubi)
 
 
Sara Di Giuseppe - 4 Luglio 2021
 

 

02/07/21

Le rondini di Budapest

 SPOLETO – 64° FESTIVAL DEI 2MONDI
 
CONCERTO ENSEMBLE ARCHI
Musicisti della Budapest Festival Orchestra
[ Musiche di Dmitri Šostakovič, Ernő Dohnányi, Astor Piazzolla ]
Chiostro San Nicolò – 26 giugno 2021
 h 19.00
 
            Spoleto. L’incanto del chiostro San Nicolò alle sette della sera, con quella luce un po’ così, con quel silenzio un po’ così, e quella gente che c’è lì sulle sedie avvitate in fila sul prato a distanza anti-contagio, ad ascoltar gli ungheresi. E quel venticello un po’ così che esce dalla collina, che ti asciuga e ti corrobora, mentre trasporta alla giusta velocità e intensità le onde musicali di un mondo diverso, asburgico, balcanico, ma non selvatico.
E le rondini d’Umbria, naturalmente gemellate con questo formidabile Ensemble d’archi di Budapest.
Anche loro, le nere migratrici, prima rigorosamente in quartetto (op.110 n.8 in do minore di Šostakovič), poi in trio (Serenade in do maggiore op.10 di Dohnányi), infine gioiosamente in quintetto e sestetto nelle Quattro Stagioni di Buenos Aires di Piazzolla. Più la squadra di rondini-soliste velocissime ed eleganti, anche se non “colorate” come le umane violiniste soliste (qualcuna col fascinoso violino nero, però).
Instancabili le rondini, come tutte le loro simili - ad ovest il sole della sera si appoggia ormai sul tetto del chiostro - volteggiano su di noi in circoli ellittici a quote di sicurezza variabili, medio-alte ma di temeraria acrobazia quando la musica si fa energica, disegnando traiettorie ardite e sicure (con Šostakovič e con Dohnányi non si scherza).
 
In formazione ridotta di trio (Dohnányi), eccole pure in spericolate “variazioni” raso terra, con l’aiuto esterno di rondoni-violoncellisti di contrappunto. 
 
Sarà che verso le sette e quaranta il sole sta sparendo dal chiostro e nel venticello s’allungano le prime ombre. I musicisti sul palco seguono i loro volteggi più con la mente che con gli occhi, noi più con gli occhi e le orecchie che con la mente. 
 
Di questa pensante “atmosfera di 2mondi” - terrestre e aerea - s’avvantaggia proprio la musica: lirismi danubiani (con influenze newyorchesi), ritmi simil-jazz che si spezzano come in certe danze balcaniche, e soliste ispirate. Ma tutto estremamente composto, nessun attrito con l’eccitata emozione danzante delle giovani rondini di Spoleto (o di Budapest?).
 
Sono traiettorie sonore, pennellate volanti, momenti sospesi, equazioni di coniche complesse e originali, specie nelle Quattro Stagioni di Buenos Aires, di un Piazzolla finalmente trascritto “diversamente”: non senti la mancanza del bandoneon, nessuno batte il piede sull’erba accompagnando il ritmo incalzante (ma a volte stucchevole) del tango, stasera invece scorrevole misterioso silenzioso e quasi malinconico, come l’acqua (blu?) del Danubio.
 
Le acrobatiche rondini-tanguere di Budapest aiutano perfino l’acustica: quando la voce degli archi si fa impercettibile e quasi non arriva (siamo all’aperto, senza microfoni, col “chiasso” delle rondini…) sentiamo bene lo stesso, le note viaggiano invisibili trasportate da rondini-musiciste professioniste. Alle nostre orecchie basta guardare gli archetti scorrere lenti e senza peso sulle corde, sotto la mira di sguardi infallibili.
 
Alle otto e trenta arrivano dei piccioni con due tortorelle, ma sono lenti e impacciati. Il concerto è finito. Chissà dove sono andate le Rondini di Budapest (o di Spoleto), non hanno aspettato neanche gli applausi.
 
 
PGC - 30 giugno 2021