13/06/15

Roma. Forum Austriaco di Cultura. Schumann e Brahms per il "Mahler Quartet". Dietro ogni grande uomo [anzi due] c'è sempre una grande donna

Il detto del titolo, pur reazionario, coglie con esattezza la "presenza" di Clara Wieck (maschilisticamente più conosciuta come Clara Schumann!) nel Quartetto op. 47 di Schumann e nel Quartetto op.25 di Brahms: per quel che era concesso alle donne in quel tempo, Clara non è solo dietro ma sopra, prima, dentro, fino a riempire di significati ciascuna nota, ogni accordo dei due Quartetti.
Nell’intelligente, intrigante chiusura della Stagione Musicale del Forum Austriaco di Cultura di Roma, col suo programma ben pensato…pensando a Clara Wieck Schumann, i giovani interpreti del Quartetto Mahler colgono in pieno questi elementi. Nel restituirci il senso profondo della presenza di Lei nelle due composizioni, essi rivelano una maturità artistica inconsueta per la loro età: non solo nell’affrontare gli aspetti formali, talora non semplici, delle esecuzioni, ma soprattutto nella conoscenza profonda del contesto e dei protagonisti della vicenda umana ed artistica: Clara, Robert, Johannes.
Nel Quartetto di Schumann la presenza di Clara è totalizzante ("E’ il tuo ritratto" dirà il compositore alla moglie): nel Primo movimento l’instancabile pianoforte sostiene efficacemente gli archi e con discrezione ne sottolinea i colori e i timbri; oppure esce con frasi lunghe quasi autonome, armoniche, a volte percussive. Mirabile la padronanza tecnica dei quattro musicisti che, nel secondo movimento, creano un contrappunto veramente vibrante anche nelle frasi intermedie tra i velocissimi insiemi dello “Scherzo” con il suo ossessivo ritmo iniziale ripetuto più volte per il quale c’è bisogno che gli attacchi siano perfetti per marcare con decisione lo stacco dalla sezione precedente.
Ma è soprattutto nel Terzo movimento che gli interpreti sanno cogliere l'intimità fra i due con il segno elegantissimo del pianoforte, tipico delle composizioni di Clara, che si avvolge come morbida seta lungo l’intero percorso del movimento. Nella struggente introduzione alla melodia del violoncello, colma di tenerezza, si lega quella del violino che "racconta", ripetendo la stessa frase, la storia dei due sposi inimitabili con le parole più dolci che l'amore possa suggerire.
Qualche istante di dialogo tra i due archi ed ecco il pianoforte - che sempre ha unito i due nella musica, nella vita e nell'amore - dipinge l'affresco intimo delle ore in musica trascorse insieme: vi si coglie lo sguardo ammirato di Robert rivolto all'ottima compositrice, alla eccellente pianista che sa interpretare nel più profondo l'animo in musica del marito. E quando, prima del sussurrato finale, la viola della minuta e dolce Yushan Li riprende il tema iniziale, la grazia e la morbidezza dello strumento lasciano assaporare a fondo il piacere di una intimità che vorresti fosse tua. Nel Finale abbiamo la cifra esatta della qualità interpretativa: perché è qui che i quattro musicisti austriaci dispiegano interamente le abilità solistiche di cui sono indiscutibilmente dotati.
Da un’esecuzione così matura ed emozionante esce nitida l'immagine di Clara che dell'anima contrastata di Robert sapeva cogliere ogni risvolto: dalla contrapposizione Eusebio-Florestano (personaggi ideali che Schumann usava per “umanizzare” le proprie composizioni, oltreche per firmarle) a tutte le contraddizioni che dentro di lui si combattevano. L’ amore e l’odio, il bene e il male, la felicità e la tristezza, il sentimento e la ragione. E in mezzo, a fare da paciere, il terzo lui di Schumann: il ponderato ed equilibrato Maestro Raro, o forse Clara stessa?
Clara poteva leggere, nelle pagine pianistiche del marito, quanto esse fossero dettate dall’amore per lei e dal bisogno di evocarne la presenza. Clara, angelo ispiratore, e tale sarebbe stata per sempre. Clara, che vince la feroce ostilità paterna verso Robert, che gli dona otto figli, che è acclamata in tutta Europa, che è l’unica donna docente di pianoforte al Conservatorio di Francoforte (dove sono ammessi solo uomini): Clara, che porta il genio Schumann all'umanità.
E Clara sarà protagonista, vent’ anni dopo, anche per Brahms nel suo Quartetto Op.25.
Qui il Quartetto Mahler realizza il giusto equilibrio tra la musica sublime di Brahms - coi colori delle sue caratteristiche lunghe frasi spezzate “non condotte a soddisfacente conclusione tonale, ma armonicamente deviate con nuove modulazioni” *, i contrasti timbrici generati dall'inseguirsi degli accordi, quasi delle fughe (se Schönberg ne fece una versione orchestrale fantastica non fu per caso!) - e le ispirazioni pianistiche che profumano di Clara.
L’impetuoso fiume di note del Primo movimento fluisce inarrestabile dal pianoforte, come nell'Allegro Maestoso del Piano Concerto in A minor, Op. 7 di Clara. Nell'Allegro iniziale il piano apre il tema portante di tutto il movimento - con le sue quattro note che ne sono la cellula primigenia - al quale si aggiungono, uno ad uno, gli archi. Nei temi successivi le figurazioni pianistiche e quelle degli archi dialogano in contrappunto e ritmo tessendone il grandioso sviluppo, fino a smorzarsi nel Pianissimo finale.
Nell’Intermezzo, con esatte pagine sognanti e dolcemente malinconiche gli interpreti rendono la delicatezza di frasi pianistiche che – col loro contrappunto dai toni più scuri (anche drammatici e tanto cari a Johannes) - evocano la dolcezza, quasi un lied, del terzo movimento del Trio per piano Op.17 di Clara,
La "promenade" pianistica del Terzo movimento (Andante con moto), che ricordale le Tre Romanze per violino e piano Op. 22 di Clara, evoca nitidamente le lunghe passeggiate dei due, uniti nel ricordo di Robert. Perfetto equilibrio tra le parti anche se si può avere l’impressione che il piano reciti un proprio monologo disgiunto: colore allo stato puro. Nulla di melenso o decadente: al contrario, i due primi temi sono vigorosi, quasi orchestrali, pur mantenendo l'espressione melodica che dall'inizio tornerà, poi, nella parte finale.
Nel Rondò alla zingarese dell’ultimo movimento, ecco un tripudio di colori e ritmi contrastanti – velocissimi o lenti e malinconici – proprio alla maniera “tzigana”: l’esecuzione dei quattro del Mahler è un fuoco d’artificio che dissemina il cielo di miriadi di faville.
Bastava chiudere gli occhi, questa sera, per “vederli” - Clara, Robert, Johannes - e convenire con ciò che acutamente osservava un anonimo commentatore inglese:I moderni biografi si interrogano sulla rozza, irrilevante questione del loro eventuale rapporto sessuale, come se solo i due corpi che si incontrano stabiliscano il grado dell’amore. Ogni volta che ascolto gli Intermezzi di Brahms, invece, io li immagino seduti in un giardino, in una fioritura tardiva di rose e nere cascate di foglie, lasciando che sia l’orizzonte a parlare per loro, senza permetterci di spiare le loro parole d’amore".

Francesco Di Giuseppe

* M.Mila: “Storia della musica”

* Anonimo da wikipedia

10/06/15

20° Festival Ferré: l'uttiano omaggio di Pier Giorgio Camaioni, "Vingt ans"


Da una canzone di Leo Ferré nascono solo fiori, come da quelle di Fabrizio De Andrè. Poi ci sono modi e modi di raccontare venti anni di un festival prestigioso e prodigioso. Pier Giorgio Camaioni ha preso Vingt ans, mitica canzone di Leo e, sulla base delle traduzioni sparse di Giuseppe Gennari e Francesco Tranquilli, ne ha tratto una storia. Questa.

Vingts ans (*)

Solo vent'anni tra le mani
le strade piene d'auto,
protetti dagli air-bag,
gli sguardi fissi sui vetri.

L'amore è per un po',
che dura il tempo di un aperitivo,
di un jeans bucato, di una sbronza
e per il resto non importa.

Solo vent'anni in un teatro,
morto un Ferré avanti un altro...
non è vero, stiamo imparando
il Ferré usato non esiste.

La nostra gioia più ricorrente
ad ogni giugno ricomincia
e suonerà ad ogni Festival
come una sveglia accanto al letto.

Solo vent'anni tra le mani
non ci facciamo bei discorsi
che ci invecchiano i denti
che ci annoiano i ricordi.

Solo vent'anni, ma in tre giorni
come una vita in due settimane
come un bosco dentro una rosa
come una danza in un passo.

Pier Giorgio Camaioni

(*) libero saccheggio da Ferré, Gennari e Tranquilli

Lo splendido manifesto è di Sergio Staino (of course)




08/06/15

Monica Ferrando al Forte Malatestiano di Ascoli Piceno dal 27 giugno al 13 settembre 2015

L’oro e le ombre

“Sono nata dentro quella parte dell’Italia del nord nota un tempo come triangolo industriale… mia madre mi parlava di Raffaello, che aveva l’anima divina… mio padre mi comprava i fascicoli dei Maestri del colore… ai tempi delle elementari frequentavo la scuola pomeridiana di pittura, tenuta da un pittore, ‘il Signor Luca’”.
Monica Ferrando ha studiato pittura a Torino, poi a Berlino con il pittore astratto Frank Badur. Ha esordito nel 1992 a Mantova con una mostra intitolata Kore, presentata da Ruggero Savinio. In seguito ha tenuto mostre personali a Gelsenkirchen-Buer, Firenze, Milano, Scicli, Francoforte e ha partecipato a varie mostre collettive, tra le quali la Biennale di Venezia del 2011. Nel 2001 suoi pastelli sono entrati a far parte della collezione del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Nello stesso anno ha ricevuto il Premio per la Pittura Tarquinia-Cardarelli. Ha pubblicato studi su Poussin, Bellini, ShiTao, Arikha. Una monografia sulla sua opera è stata pubblicata da Moretti & Vitali nel 2000. È autrice, con Giorgio Agamben, della parte pittorica del libro d’arte La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Electa 2010, tradotto in diverse lingue. Dirige la rivista online De pictura. Parallelamente agli studi di pittura, Monica Ferrando ha coltivato gli studi filosofici, a Torino e Berlino.
L’oro e le ombre raccoglie opere quasi tutte recenti, olî, pastelli, inchiostri. “Pensare all’oro in pittura - scrive l’artista - è ritrovarsi all’improvviso tra le ombre”. L’oro, nella pittura di Monica Ferrando, volta alla verità dei colori, configura una sorta di scheletro ontologico delle cose, istituisce una dimensione invisibile del visibile, divenendo, scrive ancora l’artista, “se non un atto religioso, un atto filosofico”. Come per Ruggero Savinio, il mito rappresenta per Monica Ferrando il nucleo fondamentale della pittura - “le favole antiche hanno trovato nella pittura la cittadinanza che sarebbe stata loro negata dalla storia” - è attraverso le favole antiche che la pittura trae le proprie immagini alla fine di un cammino lento e oscuro, come una gestazione. Qui l’oro non è il punto di arrivo dei colori, ma il loro punto di partenza, il loro fondo nascosto.
Il catalogo della mostra, edito dalla casa editrice Quodlibet, contiene testi di Victoria Cirlot, Monica Ferrando, Clio Pizzingrilli. 

a cura di Clio Pizzingrilli

Inaugurazione della mostra il 27 giugno alle ore 17






01/06/15

Il numero 49 di UT: La città


Tra Boris Bilinsky, l’artista che illustrò la locandina del film Metropolis di Fritz Lang, e Francesco Del Zompo, rivisitatore di quei tratti famosissimi e art designer di UT, passa "La città". 
Il tema n. 49 della storia uttiana, merita di essere raccontato dai collaboratori. Aspetteremo le vostre proposte fino al 30 giugno. Scrivete, please!
(Ovviamente l'immagine è di Francesco Del Zompo)