29/04/18

La fragilità del Jazz

TOM HARRELL / Moving Picture

Tom Harrell  tromba/flicorno   
Danny Grissett  piano   
Ugonna Okegwo  contrabbasso   
Adam Cruz  batteria

Cotton Lab - Ascoli Piceno      
21 Aprile 2018  h 21,45


       Se uno non va ad un concerto di Tom Harrell non può capire quanto certo Jazz sia anche fragile, avendolo normalmente creduto solido, sicuro, spavaldo (oltre che snob). E non pare un caso che proprio questo sia il concerto conclusivo del 28° ciclo stagionale del Cotton Club/Cotton Lab, dopo che sul suo palcoscenico si sono succeduti   alcuni pure recidivi lungo gli anni e i decenni i nomi e le formazioni più reboanti del pianeta-jazz.

       A noi che religiosamente li ascoltammo dal vivo per tanti venerdì, mancava qualcosa. Non per chiudere il cerchio - giacchè altri cicli straordinari ci attendono al Cotton Lab - ma per scoprire meglio e nel profondo lenigma-jazz, la più anarchica delle espressioni musicali.

       Guardare e ascoltare Tom Harrell ti inchioda alla sedia. Inizialmente per la sua fisicità-senza-il-fisico, inutile negarlo. Prima che dalle inconfondibili note della sua tromba o flicorno, rimani stupito da come possano formarsi quelle note. Dove prendano laria, la forza, lanima, il colore. Attorno a schemi apparentemente elementari, si snoda tutta una costruzione faticata e fantasiosa di armoniche disordinate e trasgressive, che destabilizzano il prestabilito.

       Musica senza spettacolarismi, senza movimenti del corpo - ad Harrell sono quasi del tutto negati - eppure con scalate ribelli, arrampicate stupefacenti e commoventi, improvvisazioni calcolate e rischiose, invenzioni risolutive geometriche e liberatorie. Suoni eleganti, mai forzati, mai ermetici, che quasi te laspetti ma non è vero: non potrai nemmeno ricordarli, se non riascoltando Moving Picture. Note fuggevoli veloci e pastose, restano nellaria il tempo della loro caduta, come cristalli ma morbidi, come gli echi nelle altissime cattedrali inglesi, che sarrestano dimprovviso.

       Eccola, la sensazione di fragilità: di un suono, non di un corpo. Pare che ad Harrell il corpo gli vada stretto, quindi non lo usa, ma è un gigante. Quando non suona non concepisce il riposo: pensa, chissà cosa pensa Va a passettini di robot verso il suo angolo appartato, tromba e flicorno appesi alle mani come pipistrelli cromati. Passate le 16 battute (o multipli), torna al ralenti in postazione. Senza sguardo: come gatto di notte, vede quello che tu non vedi. 

Ci sentiamo osservati. Pare un acrobata immobile già caduto, ma vivo. Ci sorprende quando, dopo una smorfia chissà se di dolore, estrae lentissimo dalla tasca della giacca di pelle da motociclista una boccetta contenente più elisir che olio e, accucciandosi pericolosamente, lubrifica come un meccanico i pistoni della tromba. Quindi, altre note ovattate, scorticate, spaventate, nascoste, le sublimi intermedie che nessuno fa

       Superlativi per forza, i tre fidati compagni di viaggio che da anni lo accompagnano. Non si scompongono mai, sono un tuttuno con Harrell, complementari al suo talento solistico ma con individualità sopraffine che centellinano a tempi contingentati. Un motore perfetto questo quartetto, anzi un orologio, di quelli complicati e ipnotici, ad ingranaggi, con gli essenziali indispensabili e ripetitivi movimenti del suo bilanciere che fornisce jazz vitale al tuo tempo ordinario.


PGC -  26 aprile 2018 


Come i fiumi

OFFICINA TEATRALE 2017/18
Viaggio cosmico-letterario

Canti Orfici di Dino Campana

di e con 
Vincenzo Di Bonaventura

Ospitale delle Associazioni 
Grottammare Paese Alto
26 aprile 2018  h21.15

 Come i fiumi


       I poeti sono come i fiumi, dice Vincenzo, si fanno strada da soli, tracciano da soli il loro percorso.  E passano lasciando il loro inesorabile segno. Cè dunque un motivo se alle prove del Recital la dolce Toffee - unica ammessa - è così rapita che si dimentica pure di scodinzolare; e se stasera soffrirete tutti dice di sindrome da scavo davanti allo svelamento continuo, alla corrente irresistibile che è la poesia di Campana (Dino Campagna e Canti Orifici, per certa stampa locale). 

       Che si sia in dodici come stasera è Grottammare, bellezza o folla come in altre platee che hanno accolto i suoi Recital, per Di Bonaventura (Mi nutro bacchicamente di poesia, dice) sempre la poesia avrà lasciato la sua orma bruciante, e di quella oltranzista di Campana conserveremo a lungo la sensazione di fiamma.

       Ladro di fuoco sente di essere Campana, sacerdote di poesia, religione che reclama il suo sacrificio e il suo sangue quanto più lo avvicina allessenza delluomo. 

“… Io che vivo al piede di innumerevoli calvari, scrive di sé, consapevole del proprio difetto esistenziale: e la malattia - cui certo concorrono anaffettività e autoritarismo paterni, ottusità dellambiente e mentalità medievale del tempo e desiderio di riempire i manicomi - se lo emargina da un contesto di società che non tollera fuoruscite dagli schemi, lo rende però veggente, lo conduce al centro delle cose, assegna alla sua poesia potere orfico e iniziatico. 

Se la parola poetica sempre trasfigura il reale e lo ricrea, quella di Campana lo sospende oniricamente fra passato e presente, lo scarnifica in pure immagini e puri suoni, procede per illuminazioni vitali e gioiose o si ripiega sui sentieri tortuosi dellinconscio affollati di fantasmi notturni .

       È la notte, che reca il panorama scheletrico del mondo, che è madre di tutte le forme desistenza, a dominare i versi e le prose poetiche, è la buia notte dellinconscio, la notte delluomo dogni tempo e vi tremano attese e inquietudini. 

        I versi dei Notturni, orfici per eccellenza cifrati, mistici ci precipitano addosso, qui, con la forza di un vento; la voce dellattore ne porta ogni fremito, ogni tremore, ogni eco di miti lontani, fluisce in tuttuno con la traccia sonora, diventa moto tellurico nel ritmo percussivo di djembé (Era la notte / Di fiera della perfida Babele / Salente in fasci verso un cielo affastellato un / paradiso di fiamma). Figure misteriose emergono dalla notte di Campana, ed è la Chimera, sembianza femminile, viso di leonardesca Gioconda - Dolce sul mio dolore  -  a farsi, dal mito, emblema di poesia  - E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera

       Quando si è matti, molto meglio si vedono le miserie, i fariseismi, le viltà del reale. "Il lazzaronismo eretto a sistema", particolarmente nell'arte, lo disgusta. "Ci fu un tempo -  scrive - prima di prendere coscienza della civiltà italiana contemporanea, che io potevo scherzare. Ora questa civiltà mi ha messo addosso una serietà terribile. Per questo io sono anche tragico e morale".

       Fuggirne dunque, viaggiare dove cieli e mari possano fondersi col suo io tormentato finalmente libero, in perfetta comunione con la Natura. I suoi molti, molti viaggi sono in realtà, è stato detto, un unico viaggio in quella direzione. 

Non solo terre esotiche, vergini e sconfinate, dove trovare lUomo, ma anche luoghi a lui vicini: come Genova Pei vichi antichi e profondi  / Fragore di vita, gioia intensa e fugace: / Velario doro di felicità - città di porto e di mare, di vita febbrile che saddormenta nel ritmo dellacqua e nello scricchiolio dei cordami. 

E sempre dovrà esserci un mare  - Le vele le vele le vele! () Ah! Chio parta! Chio parta! - o il mistero di terre sconfinate - la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo - dove rinascere riconciliato con la natura ineffabilmente dolce e terribile, dove poter, libero, tendere le braccia al cielo infinito, non deturpato dallombra di Nessun Dio.

       E lamore, anchesso, offre ali e vele al sogno di libertà: presagito o ricreato nellevanescenza del sogno o del ricordo (O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi [] O non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno), sfiorato già prima dei Canti Orfici (Tu mi portasti un po dalga marina / Nei tuoi capelli, ed un odor di vento [] Oh la divina / semplicità delle tue forme snelle).  E ancora viaggio, quellunico disperato amore, per il povero troviero di Parigi (Io povero troviero di Parigi / Solo toffro un bouquet di strofe tenui) in cerca di libertà, ma sarà invece una guerra furibonda, consumata fra liti feroci ed esplosioni dira.

       Lei, Sibilla Aleramo, ape regina dai numerosi amori eccellenti, amica di letterati, scrittrice di fama e femminista ante-litteram, colta ed eccentrica e coi suoi dieci anni di più, forse lo ama amando in lui le ossessioni e la follia, la reticenza (Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia gli scrive), le notti insonni e la devastante gelosia. Gioco tragico a due, sadico e crudele o forse solo appassionato; nella disperazione del poeta si alimenta la sua follia: si sono incontrati nellestate del 1916, agli inizi del 1918 Campana entra per sempre in villa Castel Pulci "ricovero dei dementi". Vi resterà per quattordici anni scanditi dalle sedute di elettroshock, vi morirà nel 1932.

       La libertà cercata scavalcandone il cancello, ferendosi e morendone di setticemia, il poeta lha infine trovata: di nuovo atomo, frammento delluniverso, corre tra forze primitive, le braccia levate come nel presago Sogno di prigione ( in fuga io? Io ch alzo le braccia nella luce!); lo accoglie il cielo infinito, svanita lombra opprimente del vecchio Dio Io ero in piedi: sulla pampa, nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro () Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! O era la morte? O era la vita?...


Sara Di Giuseppe - 28 aprile 2018


27/04/18

La musica del quotidiano

STOMP
Teatro dellAquila Fermo
24 aprile 2018  h21


      Un pubblico vivace come non taspetti  - perché abbondantemente adulto, non giovanissimo - gremisce e fa venir giù dallentusiasmo il bel teatro, negli applausi finali. E durante lo spettacolo asseconda con divertita complicità e discreto senso ritmico la straordinaria comunicativa degli interpreti.

      Della compagnia - Stomp -  che con ovvi ricambi si esibisce in tutto il mondo dallinizio del secolo scorso - nascita a Brighton, Inghilterra, e lancio a Broadway - tutto il dicibile è stato detto, evidenziati e studiati tutti i richiami - colti e folclorici, contemporanei e vintage, esotici e metropolitani sottesi alle creazioni del gruppo: le reminiscenze flamenche (del tablao flamenco) e della clog dance forse olandese che si fa con zoccoli di legno; le allusioni a Fred Astaire e al tip-tap statunitense; i ritmi tribali e le danze afro; le citazioni dalla Pop Art di Deschamps; e poi gli scampoli di circo, di hip hop, break-dance, heavy metal, lotta giapponese kendo, e chi più ne ha

      Forse troppo, e si fa torto allo spettacolo, la cui cifra è piuttosto lassoluta originalità: competenza musicale tradotta in sapiente drammaturgia del suono; geometrica distribuzione dei ruoli e rigorosa sincronia nellapparente caos; perfetta coordinazione e preparazione atletica; audacia acrobatica e fantasia; il tutto coagulato nella prorompente presenza scenica degli interpreti, capaci di creare senza dialoghi né battute personaggi dallumorismo incontenibile del cinema muto.

       Soprattutto, ogni cosa è comunicazione sonora qui, dove la creazione musicale nasce da materiali e oggetti tra i più diversi e imprevedibili ma legati da un tratto comune: lappartenenza al quotidiano, al ritmo martellante del nostro presente, quello domestico e quello urbano, quello delle periferie industriali e delle riciclerie, del nostro compulsivo consumo e del nostro spreco.

       Così bidoni e barattoli, scope e tubi d'aspirapolvere, carrelli di supermarket, pentole e coperchi, lavelli da cucina e guanti di gomma, scatole di fiammiferi e accendini, gomme di camion e altro creano quella che qualcuno ha chiamato una maestosa sinfonia urbana;  e gli oggetti vivono per due ore un proprio sogno musicale, poetico a suo modo, che nella possibilità di creare suono, ritmo, quindi musica, li riscatta dal grigiore, dalla bruttezza accettata e ovvia dellutensile casalingo, dello scarto industriale, del materiale da discarica. Per un tempo breve tutti loro saranno, come nella favola, la zucca e i topini trasformati dalla fata madrina - qui, gli otto atletici energumeni in sdrucite vesti da lavoro - nella principesca carrozza per il ballo a corte. 

       E il corpo anchesso, diviene strumento: mani che battono, piedi che coi pesanti anfibi percuotono il pavimento (lo stomp, appunto) creano il ritmo e generano la musica, e il richiamo al flamenco è nel suono che si fa dialogo e rimando continuo fra gli interpreti e nel movimento che lo accompagna con intensa fisicità.

       Sullenorme pannello metallico che invade il fondale i musicisti-mimi-danzatori-acrobati-eccetera, inerpicati e imbracati con cinghie, suonano - come su unincredibile batteria/vibrafono - pentole e coperchi, tubi e secchielli, cerchioni e segnali stradali. Enormi bidoni metallici creano il finale in un crescendo percussivo tra lorgiastico e il tribale, il suono penetra in ogni fibra del corpo, scuote come corrente elettrica, nessuno di quegli oggetti è più utensile o materiale urbano, tutto è suono, ritmo, corporeità prorompente e dionisiaca. Controindicato agli emicranici.

       Da scommetterci, che una volta a casa metà almeno di noi spettatori ha provato a suonare una pentola o una sedia, o il tubo dellinsospettabile aspirapolvere


Sara Di Giuseppe - 25 aprile 2018


26/04/18

“IL PROTOCOLLO NON LO PREVEDE”

[Anche questanno niente Bella ciao alle Celebrazioni del 25 Aprile a San Benedetto del T.]


         Siccome me laspettavo, per saperne di più mi sono attrezzato: sperando che durante la Cerimonia qualche coraggioso avrebbe avvicinato il sindaco per chiedergli il perché del suo divieto alla Banda Cittadina (per il secondo anno) di suonare Bella ciao, gli ho piazzato con destrezza ben tre cimici supertecnologiche. Una infilata nel taschino della giacca, una autoadesiva sul nodo della cravatta, una sulla frangia dorata della fascia tricolore. Poi, a distanza di sicurezza, appollaiato comodo sulla bici, mi son messo allascolto. Non prima di aver anche addestrato alla rischiosa missione unattempata amica dallaccento sambenedettese doc, con laria da balda partigiana e tanto di fazzoletto tricolore al collo. Nel caso che nessuno avesse osato far quella domanda alNostro

          Ah le cimici, che grande invenzione: ho registrato tutto forte-e-chiaro, sia le domande che le risposte. Anzi, mi conforta il fatto che, oltre alla mia inviata, anche altri hanno chiesto al sindaco: Perché non fai suonare Bella ciao? La risposta sempre la stessa, come un disco rotto: IL PROTOCOLLO NON LO PREVEDE suoneranno Il Piave IL PROTOCOLLO NON LO PREVEDE suoneranno Il Piave IL PR

           Forse intimiditi, non ho però sentito nessuno replicare tipo: ma Il Piave è una canzone della prima guerra mondiale, mica della seconda oggi festeggiamo il 25 Aprile la Resistenza la Liberazione dal nazi-fascismo, mai sentito parlare? Ti è pervenuto? ... Hai sbagliato festa? Il 4 novembre è lontano  

No, purtroppo neanche la mia inviata ha avuto questa prontezza di riflessi.

            Sicchè niente Bella ciao. Del resto, mica puoi chiedere ai musici di disubbidire, sai le rappresaglie che subirebbero. E neanche gli spartiti avevano, invece lanno scorso quanti ne avevo trovati sotto gli oleandri, stropicciati con rabbia Alle majorette poi, se gli dici Bella ciao credono che è per loro e ci credono... Ai lustri politici odorosi di dopobarba, come fai a dirgli di intercedere, dovresti arredare la richiesta con qualcosa di losco Ai canuti rappresentanti degli ex combattenti e dei partigiani, dopo che hanno ri-tirato fuori dai cassetti mostrine bandiere fazzoletti e decorazioni, se gli dici Bella ciao si mettono a piangere Né puoi avvicinare i militari dalle sbrilluccicanti divise: guardano di continuo lorologio, hanno caldo, faticano a mantenere la posa migliore E troppo impegnati i giornalisti a far linventario delle personalità, per farcire domani le pagine di nomi e cognomi. Guai se omettono qualcuno!

        Eh no, proprio non la suoneranno Bella ciao. Ci appalleranno invece con la tristissima canzone del Piave e con altre marcette, anche per far pericolosamente roteare i bastoncini delle majorette finchè non te ne arriva uno in testa. Infine la fotona di gruppo, che imperversa già nei social. La allego, ma non è mia e lo dico (non faccio come il Carlino, che adopera le foto dei miei pezzi per i suoi articoli e zitto). 

        È San Benedetto, bellezza! San Benedetto, provincia di quellAscoli Piceno dove certi vicepresidi fanno gli auguri al Fuhrer e poi dicono che non volevano. San Benedetto che si gemellerà con Todi il cui sindaco ha negato il Patrocinio del Comune alla Festa della Liberazione del 25 Aprile. 

San Benedetto che a questa Festa non porta il mondo della Scuola, troppo impegnata ogni giorno a prendere lezioni da calciatori, cantanti, banchieri, militari, campioni di ogni sport, attori, nani e ballerine.

           Chiudo qui, vado a recuperare le cimici. Anzi no, sono dellultima generazione, si auto-distruggono


PGC -  25 aprile 2018 


20/04/18

Sognando la profezia del terzo candidato


Il Magnifico Messere de lo contado de Arquata e la sua Corte dei Miracoli si struggono e si rivoltano negli spasmi perché il loro "regnetto" non è più bello come prima, perché una volta c'era chi lo curava ed amava e non erano decine di ditte forestiere messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che lo abitavano e lo lavoravano: contadini, allevatori, boscaioli, tartufai, cercatori di funghi. Buona parte dei paesi non sono stati demoliti, figuriamoci se si parla di ricostruirli, perché non ci sono soldi... ovvero ci sono ma non per tutti. I pochi cittadini tornati dall'esilio dorato della costa e che non sono emigrati altrove, sono collegati al resto del mondo attraverso connessioni private costosissime. Gli abitanti dei villaggi SAE sono diventati a loro spese anacoreti digitali, dediti all'ego surfing ed allo spamming di emozioni su una soffice nuvola di bite. Oggi abbiamo nonnine 2.0 che vivono in paesi deserti ma ipercablati che fanno la spesa alimentare on-line e si fanno visitare a distanza sul profilo facebook dal medico condotto e se si sentono sole possono fare chatting dei pettegolezzi sui social. Non voglio neanche immaginare cosa succederà quando si tornerà in campagna elettorale con le solite interfacce dei due candidati già predestinati per regole di successione ereditaria che batteranno le "piazze virtuali" alla ricerca di followers e like, promettendo app a gogò per qualsiasi bisogno. E se qualcuno si sveglia... e se ci fosse un terzo incomodo, uno capace di collegarsi in video-conferenza con il Governo Centrale, uno capace di usare il suo cervello e fare di testa sua. Uno che decide che prima di tutto vengono i cittadini, che sono i veri padroni del territorio e che hanno bisogno di soldi per vivere, di case nuove, di chiese, di lavoro. Così questa mente illuminata istituirà il V.I.P., ovvero il Vitalizio Post-Sismico. Un modesto ma dignitoso assegno mensile riservato al 60% dei cittadini senza lavoro, ai precari ed ai pensionati con la minima, a chi è emigrato invitandoli a tornare nei paesi sempre più deserti. Ed ecco che i cittadini ormai in stato confusionale, semi-alcolizzati e sull'orlo del suicidio che hanno scambiato una ricostruzione edilizia con una palingenesi dell'uomo e dell'abitare in "puffilandie" di legno truciolato, avere come unico obbligo per ottenere il VIP quello di fare una cosa bella ed utile per i paesi, a piacere e senza fretta. Il VIP funzionerà. Tornati alla realtà reale, liberi di fare altrove lavori inutili e mal pagati i cittadini arquatani asseconderanno le loro passioni. Le stradine terremotate dei paesi si riempiranno di musicisti e poeti, artigiani, arrotini, ombrellai, giocattolai, ricamatrici. Nelle piazze deserte impazzeranno tornei di calcetto tra scapoli ed ammogliati con le panchine vuote piene di vecchi e giovani spettatori ciarlieri. Gli ex-assessori ripareranno buche ed aggiusteranno fontanelle senza chiedere voto di scambio. Riapriranno le vecchie cantine e le osterie e non si berrà solo per rendere gli altri più interessanti o per dimenticare di pagare il conto. I paesi si riempiranno di orti, ritorneranno ad essere coltivati anche i pascoli di montagna con campi di grano e di patate come una volta. Nasceranno anche due o tre "banche del tempo perso" per darsi una mano nei momenti del dolce far niente. Chi è ricco e garantito, escluso dal VIP, e che un po' rosicherà presto ci ripenserà perché l'economia tornerà a girare ed i negozianti faranno affari. Arquata del Tronto diventerà un caso mondiale, accoreranno migliaia di turisti, stavolta non per fotografare macerie ma volti sorridenti in uno strano territorio dove l'amore è di casa. Certo ci saranno ancora i pingui burocrati oziosi, ma non avranno sensi di colpa e chi continuerà a rubare sarà anch'esso meno povero. Finirà il rinchiudersi dentro, l'arroccarsi nell'egoismo e nell'indifferenza perché bisognerà rifare solo luoghi veri in cui accade la vita. Il terzo candidato deciderà che è arrivato il momento di ricostruire, riapparirà il popolo delle carriole, delle pale, delle cazzuole, delle betoniere. A centinaia si offriranno volontari nei cantieri "veri" da ogni parte del mondo. Fioccheranno di nuovo donazioni a gogò perché Arquata del Tronto sarà diventata la speranza di una nuova era dell'umanità. Man mano il progetto SAE verrà smontato e rivenduto ai paesi poveri, tutto viene riciclato per contenere i costi. Casa dopo casa, piazza dopo piazza, fontana dopo fontana, chiesa dopo chiesa i paesi verranno ricostruiti con entusiasmo e grande lena. A quel punto il terzo candidato si dimetterà da sindaco, tornerà a vivere libero tra le sue montagne ed i paesini finalmente piene di gitanti ed escursionisti e odori di buona cucina. Oddio che strano sogno ho fatto stanotte!

Vittorio Camacci - 19 aprile 2018


19/04/18

Nascondete i premi

Nascondete i premi, o se li prende Alberto Cecchini


       Circola questa voce nel mondo della fotografia. Quando nei più prestigiosi concorsi fotografici internazionali partecipa lui, tranquilli che quasi sempre va sul podio o vince. Come al Fine Art Photography Awards di Londra, con migliaia di concorrenti.

A San Benedetto ci siamo abituati, non fa quasi più notizia. Mentre il suo medagliere va riempiendosi tanto che fra poco dovrà cambiare appartamento.

       Ma perché il nostro Alberto vince? Sappiamo che oggi, con tutta la tecnologia a disposizione, è agevole realizzare una buona foto. Scegli il soggetto, spari una raffica di scatti (a costo zero), guardi il visore, fai una cernita, scarti, scegli. Facile e veloce. Meglio se hai una buona attrezzatura, la compri anche su Amazon. 

      Una volta, invece Intanto non ti doveva tremare la mano. Poi dovevi essere bravo e svelto a fare le canoniche misurazioni luce-apertura-tempi-distanza, capire se mettere il tele, quando cambiare macchina, obiettivo... E poi i combattimenti con i rullini, e lo sviluppo, e la stampa e altro ancora: quante aspettative tradite. Pochi erano i concorsi fotografici, pochi i partecipanti, pochi i vincitori (cadevano subito nel dimenticatoio). 

       Ma oggi, che siamo tutti fotografi compulsivi (fotografo-dunque-sono), con il mondo infestato da immagini usa-e-getta e conseguente moltiplicazione dei concorsi, rimediare qualche premio - magari per caso - che importanza ha. 

       La fotografia vera però è diversa, come quella di Alberto: e se, partecipando seriamente ai più vari concorsi - come lui fa da anni, con costanza - ti piazzi sempre bene e spesso vinci, il motivo cè. 

       Le sue premiate immagini del terremoto di Amatrice, per esempio, coshanno di speciale? Macerie a volontà, crolli, distruzioni, vittime, angoscia forse sarebbe bastato andar lì il giorno dopo, anche il mese dopo, e scattare ad esaurimento pile. Senza neanche mirare. Invece Alberto ci si è gettato dentro, respirando la polvere e la paura come uno del posto, solo che non gli è caduta una trave in testa. Le sue sono testimonianze vibranti della tragedia appena provocata dal killer invisibile: fotografie dure, che gridano dolori infami, che odorano di disperazione non ancora rassegnata. Non mostrano solo danni.      

       Non è rituale cronaca giornalistica. Certo, sono tecnicamente ineccepibili, ma non basta per vincere premi. E che i lavori di Alberto Cecchini sono diversi, contengono e trasmettono emozioni vive, che le giurie gli riconoscono.

       Per lui è una meritata fortuna, per i suoi colleghi no: a lui i premi alti, a loro quel che resta. Allora nascondete i premi, o


PGC - 16 aprile 2018



Sezione Fotogiornalismo 2018, 1° classificato: Alberto Cicchini
Terremoto Centro Italia ( Serie ) 
24/08/2016, Terremoto nell'Italia centrale. Un terremoto di magnitudo 6,2 ha colpito le regioni Lazio e Marche scatenando il caos nel centro Italia. In particolare la città di Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto e Arquata, per un totale di 299 morti, circa 400 feriti e 2.500 sfollati. 
https://fineartphotoawards.com/winners-gallery/fapa-2017-2018/professional/photojournalism

16/04/18

A Max

Voglio dedicare un piccolo pensiero a Max, esattamente un mese dopo la sua morte, tratto dal 50° numero di UT, agosto 2015.
Nell'ultimo breve periodo della nota, che accompagnava la mia opera "Guardando i miei piedi", ho messo lui per primo tra i 'compagni di viaggio', proprio perché lo ritenevo il supporto fondamentale di molti miei progressi professionali e soprattutto centro di molta parte della mia vita di quegli anni.

Grazie ancora, caro Massimo Consorti

15 aprile 2018 - Francesco Del Zompo
NOI

Spesso accade che il mio sguardo, prima di incontrare il vostro, sia rivolto da un’altra parte, in aria, a sinistra, a destra, più facilmente in basso a seguire i miei passi prima dei vostri. Io e tu, io e lui, io e voi, io e gli altri, più difficilmente noi, ma amo le persone che mi guardano, le persone che sorridono, le persone che piangono, le persone che parlano ascoltando e non si mettono tra i piedi del discutere o s’indispongono con l’ultimo ‘messaggio’, ma si infilano, riallacciano, conversano con me, si interessano, abbracciano il mio cenno di ragionamento, condividono le emozioni, consigliano poco e più spesso sbagliano insieme a me, ma non rimpiangono, non pretendono, non sentenziano, presentano, condividono, mi abbracciano anche senza sfiorarmi.

Allora, perché non riusciamo sempre a coabitare decentemente tra di noi se è questo che ci piace? Perché l’altro è sempre un rivale, un concorrente, se non addirittura un nemico? È frutto dei nostri ‘vivi’ pensieri o c’è lo ‘zampino’ della storia che stiamo vivendo? Ma amo le persone che si donano e fanno della propria vita uno scambio sbilanciato, e detesto quelle che si trincerano dietro i dubbi, le diffidenze, i ‘se’ e i ‘ma’ che precedono qualsiasi opinione. 

Pensando a questo tema “Noi”, così assoluto e fondamentale del nostro stare al mondo e per la prima e unica volta come interprete della 50ª opera di UT, guardavo i miei piedi nudi cercando di ‘comprendere’ in me l’immagine riassuntiva. Non ho visto altro che ‘un altro me’ in fondo alla mia distorta prospettiva e, in mezzo, un mondo intero, un universo che si muoveva mentre ero lì, assorto e stordito dalla complessità del noi e la mia piccola immagine, che appena conosco se non attraverso Voi: i miei cari, i miei conoscenti, i miei compagni di viaggio (Max, PGC, Enri’, Ale’, Anto’, Mich’, Peppe, Alce’, Dante, Saba’), Michaela che ha così sapientemente scritto del mio racconto visivo, i miei amici e sostenitori di UT che ringrazio molto per avermi donato un po’ del loro tempo, amicizia e stima.



15/04/18

Palco esaurito

Ciclo sinfonico 2018

Ludwig van Beethoven

Sinfonia n.9 in re min. op.125 per soli, coro e orchestra

Orchestra Sinfonica Abruzzese

Coro V. Basso di Ascoli Piceno Coro Accademia di Pescara
Coro Conservatorio A.Casella, LAquila
Corale Novantanove, LAquila Schola Cantorum S.Sisto, LAquila

Direttore e maestro concertatore Pasquale Veleno
soprano Li Keng 
tenore Riccardo della Sciucca 
mezzosoprano Daniela Nineva    
baritono David Maria Gentile


Ascoli Piceno - Teatro Ventidio Basso     
12 aprile 2018  h21                                                                
Società Filarmonica Ascolana


Palco esaurito

       È il palco del Ventidio Basso, occupato in ogni centimetro quadrato dalla poderosa orchestra, dai cinque cori, dai quattro solisti. E dà i brividi il respiro divino di questa musica, mentre il pensiero va a quellesecuzione del 1989 a Berlino, che festeggiò la caduta del muro (e Bernstein che la diresse sostituì Freude, Gioia, con Freiheit, Libertà): perché lEuropa che nell’’86 fece suo lo schilleriano Inno alla Gioia del Quarto Movimento, è oggi larcigna Europa dei muri, pavido fantasma in decomposizione, digrignante coi deboli belante coi forti, che nulla ha imparato dalla feroce lezione della Storia.

       Meglio dunque abbandonarsi al puro piacere dellascolto, che passa anche dagli occhi grazie a questo palco gremito di strumenti e voci, pur se piccolo nel piccolo gioiello del Ventidio Basso, ma la musica - questa musica - è onda di piena che non si cura di limiti e confini.

       La curiosità stasera sono i bambini: se da noi è ahimè insolita la presenza di giovani a concerti e manifestazioni di cultura, figurarsi quella di bambini. Invece eccoli. Una quarantina, a occhio, nelle prime due file, maschi a sinistra femmine a destra. Qualche adulto a guidarli. La piccola col cappello a coniglio che siede davanti dice, interrogata, di essere della Music Academy. Scuola di Musica, insomma. Poi si cala ilconiglio sul viso e scherza con le compagne. Sono volenterosi ma questo concerto è un alimento troppo corposo per i loro anni verdissimi e di studi musicali troppo acerbi: come gettare piccoli velisti in piccioletta barca fra gigantesche onde dOceano.

       Si agitano un po allinizio, poi risucchiati dalla musica si fanno attenti; intorno al terzo movimento metà delle testoline è crollata; ma sveglissima resta in prima fila la ragazzina che armeggia tutto il tempo con lo smartphone extralarge, se tutta lorchestra e i 5 cori e i 4 solisti - dato il peso complessivo - franassero giù col palco non se naccorgerebbe.

       Brillante come sappiamo, lOrchestra Sinfonica Abruzzese asseconda lenergia del direttore Veleno, la sua candida corona di capelli e i piedi in decollo verticale sul podio nei momenti travolgenti. Spettacolare il colpo docchio dei cori, poderosi e bravissimi ma un po soffocati, in uno spazio più grande rifulgerebbero davvero. E le voci dei quattro solisti, soprano - mezzosoprano - tenore - baritono, illuminano di chiara luce i versi, pienamente fuse allorchestra nel culmine della tensione espressiva.

      Tutto il resto è Beethoven, e nulla si può dire che già non sia stato detto. La poderosa armonia giovane di molti secoli piove ancora dalla sua chioma ribelle su noi mortali, come Giove stilla dai crini ambrosia sullamata ninfa Elettra nel foscoliano Carme. Spazio e tempo si fondono e sannullano nella musica che sinabissa e riemerge, che interroga con voce eterna la vastità dellanimo umano, ne esplora il tormento e il dolore, la ribellione e la fatica, ne riconosce la fragilità, sinnalza infine a celebrarne il trionfo: oltre la finitezza delluomo cè il suo spirito che vince di mille secoli il silenzio, cè leternità ineludibile dei suoi ideali, cè lincancellabile sete di giustizia universale.

     Egli sa tutto, ma noi non possiamo ancora capire tutto disse Schubert agli amici dopo aver incontrato Ludovico van. Neppure oggi sappiamo se il mondo abbia compreso, tutto fa pensare di no, né ci sono inni gioiosi nel nostro presente, e se quel gigante vivesse proibirebbe alla UE di oltraggiare il suo. 

       Nonostante noi, quella mente magnifica ci parla ancora, illumina la superiore armonia di quel tutto di cui siamo parte imperfetta, e trionfante sulloscurità del nostro dolore addita la scintilla divina presente nellumano.


Sara Di Giuseppe -13 aprile 2018


13/04/18

Primavera tra assurdità e macerie

È una bella giornata, con qualche nuvoletta nel cielo azzurro, mani in tasca faccio un giro in quello che resta del mio villaggio. Il Vettore sulla sinistra è ancora coperto di neve. L'abitato sembra deserto, sfioro vecchie mulattiere sepolte da inestricabili rovi, osservo alcune case già demolite ed altre messe in sicurezza, migliaia di euro in travi, tavole ed acciaio per salvare case ormai collassate ed inutili. Passo vicino a vecchi orti abbandonati, mi accorgo di non essere più capace a distinguere il canto degli uccelli che proviene dal folto della vegetazione intorno al paese. Cosa sono? Fringuelli, allodole, merli. Da piccolo con i miei amici vagabondavo tra i boschi per scovare i nidi, i più preziosi erano quelli della pica, e seguire l'evoluzione della cova. Ecco il mio orto, l'erbetta umida luccica sotto il sole. Tra poco sarà ora di zappare e sarchiare con cura, addolcendo il terreno con la cenere del focolare ed il letame della stalla. Mi piace far diventare una manciata di piccoli semi, attraverso le regole della terra e del cielo astronomico, pomodori, fagioli, fagiolini, melanzane, peperoni, zucchine, aglio, cipolle, zucche e verdure oltre alle immancabili patate di montagna. A volte nei giorni di luminosa foschia, quando la luce del sole sembra sbucare dal nulla, esamino le piantine che crescono e guardo gli alberi da frutto. Quanti giorni mancano alla luna nuova? Quanti danni ha fatto il gelo? Quanto valore ha questa fioritura? Come saranno quest'anno le erbe spontanee e quelle commestibili? Quanti e quali funghi troveremo tra i boschi e i prati? So di non conoscere i nomi di tutte le erbe, di tutte le piante e nell'aria del pomeriggio inoltrato rimango immobile con gli occhi concentrati sul prato dove le margherite e i "dente di leone" all'unisono schiudono i loro fiori bianchi e gialli tra l'indaco dei minuscoli "non ti scordar di me". All'improvviso rivedo l'immagine sfocata di mio padre affilare i bordi scalfiti ed arrugginiti della falce con la pietra da cote che teneva in un corno appeso alla cintola. Falciava, di solito, nel primo mattino, lentamente, alzando lo sguardo verso l'orizzonte di tanto in tanto. Era un bell'uomo mio padre, suonava la fisarmonica e aveva, prima, tentato la carriera cinematografica per poi emigrare in Gran Bretagna. Tornato in vacanza in Italia si era innamorato di mia madre ed aveva scelto la vita di campagna, amava falciare e quando l'erba era ormai secca la mamma l'ammucchiava con il rastrello in lunghe file e poi con la forca formava dei mucchi arrotondati. Io e i miei fratelli l'aiutavamo a trasportarla nel fienile con le reti. Adoravo sdraiarmi spensierato sul fieno fresco, caldo e profumato. A tavola mio padre sorseggiava, tra un boccone e l'altro il vino pecorino da lui prodotto nei suoi filari e nelle sue pergole. Nella vigna era sempre allegro e custodiva gelosamente i suoi tralci. Li potava, li legava con i vimini, li "scacchiava", gli soffiava lo zolfo e gli spruzzava il ramato con la pompa di rame a spalla. Durante la vendemmia diventava nervoso ed eccitato e ci impartiva ordini categorici fino a quando non vedeva il mosto versato nella botte. 
     Se uno viene oggi nel mio paese lo trova distrutto e semi-abbandonato ma quando ero bambino era tutto diverso. Gli anni cinquanta e sessanta erano stati prolifici dal punto di vista demografico ed io avevo tanti compagni di giochi, tutti con un soprannome e tutti originali, metà dei quali ce li aveva affibbiati un ometto simpatico della "Villa" detto Ciancò. Ricordo centinaia di partite a pallone, lo scambio delle figurine e dei punti a premio, le lotte per "servir messa" e per la ricerca delle fascine che servivano a metter su il "focaraccio" di Sant'Agata, le battute estive alla ricerca di alberi da frutto e le discese verso Arquata per il bagno al fiume. Emulavamo gli eroi dei fumetti, a volte buoni a volte cattivi: Zorro, Tarzan, Zagor, Cico, Tex, il Comandante Mark, Mister No. Tutto fino a quando mia madre mi richiamava. La voce della mia mamma giovane era bella e forte, somigliava al suono dell'acqua di un ruscello che scorre tra le valli, sulle spalle fronzute dell'Appennino. A casa c'era sempre la merenda pronta: la crema pasticcera, la crema al cacao, la ricotta con lo zucchero o le bruschette. Tutte le sere c'era una festa da qualche parte, ci andavamo con i motorini. A Pretare, Piedilama, Arquata, Colle, Capodacqua, Pescara del Tronto, Acquasanta Terme che già da giugno erano pieni di giovani che durante le vacanze estive preferivano venire a vivere con i nonni al fresco. Era il mio tempo delle mele, i primi "lenti" ai bordi delle piazzette, i primi amori nei fienili. Era finito, per me, il tempo in cui timoroso di perdermi, stringevo la mano di mio padre tra le vie caotiche di Acquasanta Terme piene di decine di venditori ambulanti accorsi per la festa di San Giovanni. Facevamo il bagno nell'acqua sulfurea, bianca e lattiginosa, della grotta sotterranea, sotto la volta opaca. Poi se a mio padre avanzavano dei soldi, dopo aver fatto la spesa, mi comprava un giocattolo che io riportavo trionfante in paese per sfoggiarlo davanti ai miei amici. Le domeniche erano bellissime perché il pomeriggio dopo pranzo ci riunivamo davanti al bar de "Lu Vecchiò" ad ascoltare le partite alla radio. Quando l'Ascoli giocava in casa, con tre o quattro automobili diverse, piene zeppe, partivamo per lo stadio del capoluogo di provincia. Era l'Ascoli dei miracoli, quello di Rozzi, di Mazzone, di Renna. La passione era vera e genuina, l'atmosfera nello stadio era calorosa e popolare. Giorni che non torneranno più... Ora è tutto cambiato. 
     L'altro giorno la Onlus con la quale collaboro ha donato Bonus Bebè e borse all'imprenditoria giovanile. Nella sala del comune provvisorio l'atmosfera era densa di un imbarazzo palpabile. Qualcosa non andava per il verso giusto ma non era quello a preoccuparmi, io pensavo ad altro anche se quei genitori e quei ragazzi non avevano bisogno di quegli assegni visto le loro famiglie di origine. Ormai è sera inoltrata, la luna piena comincia a muovere ombre. Sento il paese addormentarsi sul fianco della Cività. Mi siedo su un sedile di pietra consunta a fianco di due vecchine ad ascoltare vecchie storie di paese e mi accorgo che è la cosa che ora amo di più al mondo. 

Vittorio Camacci - 13 aprile 2018


12/04/18

Un Comune giocondo

[San Benedetto, lAmministrazione difende il suo autoscontro]


        Un quadretto ridente e gaio emerge dalle esternazioni pubbliche di autorevoli (!) esponenti dellamministrazione comunale sul contestatissimo autoscontro recentemente piazzato in Viale dei Tigli.

        Cè infatti unassessora che con molti miei amici sè subito fatta un giro in giostra e sè divertita tanto come ai vecchi tempi. Un altro autorevole eccetera che gongola perché lesperimento (esperimento?) è riuscito e frotte di adulti un po cretini e di bambini a loro vicini si sono divertiti tanto pure loro.

        È fortunata, San Benedetto: vanta politici giocondi, sanno come ci si diverte e si adoperano per renderne partecipi i cittadini. Missione nobilissima che non conosce ostacoli, avanti tutta se cè da piazzare una giostra, un autoscontro, un lunapark: gli alberi che impicciano si segheranno, le siepi si taglieranno, i prati si asfalteranno. 

        Certo può capitare che i giocondi amministratori a forza di divertirsi si facciano prendere la mano e per distrazione una certa giostra finisca per piazzarsi dove non dovrebbe. Come sto benedetto autoscontro, nella zona dellex Galoppatoio, a un-metro-uno dal lungomare. Ma suvvia

        È vero, è unautentica schifezza, cazzottaccio brutto nellocchio, riesce a far sembrare decenti perfino le orrenditudini che ci sono intorno; è una giostraccia arrugginita che non lavrebbe voluta manco Fellini per il mangiatore di fuoco Zampanò e la triste Gelsomina del suo film;  è vero, per infilarcela hanno segato grandi rami di grandi alberi, eliminato siepi, distrutto e sbancato; è vero, è pericolosa, sbuca direttamente sulla strada, in curva, fra le auto che corrono, ci finiranno sotto quelli che scendono rintronati dagli scontri. 

È vero, non ha manco lautorizzazione a svolgere attività di pubblico spettacolo, ma questa è burocrazia.

        Insomma, gliene dicono di ogni. Ma  lamministrazione, vanto di questa città, sta come torre che non crolla e non si lascia intimidire. Così si fa. Venghino signori, dicono, a guardare come ci si diverte davvero, ci siamo fatti un giro noi per primi e guardateci, siamo più giocondi e più bravi che pria.  

E poi qua decidiamo noi e chi non gli sta bene rosichi, è il sano principio del Marchese del Grillo, io so io e voi nun siete un

        E se qualche esponente del decomposto PD sbrocca e grida allo scempio - ma, coraggioso, non fa nomise no mi becco una querela (sic) - è solo perché, immemore degli scempi ambientali precedenti, tuttuno con gli attuali, incorre nella sindrome che le neuroscienze chiamano con eleganza: il bue che dice cornuto allasino

        Noi dunque - questa è più meno la linea dei gai amministratori difenderemo a oltranza la nostra posizione sul caso tenendo alta la bandiera della giocondità, coerenti col giocondo spirito dei tours scolastici del rapper Mudimbi: maitre-à-penser a sua insaputa, educatore per caso chiamato nelle scuole a dilettare la gioventù del loco, protagonista quotidiano di estasiate cronache di giornalisti e giornaliste in preda a orgasmo multiplo. 

        Attenzione, con questi amministratori e questa stampa e questi dirigenti scolastici, San Benedetto rischia seriamente di diventare la prossima Capitale mondiale della Cultura.


Sara Di Giuseppe - 11 aprile 2018 


10/04/18

The golden lab

the golden circle

Rosario Giuliani sax  Fabrizio Bosso tromba  Enzo Pietropaoli contrabbasso  Marcello Di Leonardo batteria 

Cotton Lab Ascoli Piceno      6 aprile 2018  h21,45



       Seppur squadrato e dallaspetto industriale, il Cotton Lab di Ascoli somiglia poco allex Golden Circle di Stoccolma, in particolare non ha quattro piani e non sta a due passi dal centro. Eppure stasera ci sentiamo in Svezia. Mancano i regolamentari freddo e neve di quel 1965, ma cè la stessa travolgente futuribile musica di Ornette Coleman.

       Nel programma non era scritto che Giuliani, Bosso, Pietropaoli, Di Leonardo avrebbero suonato Coleman - e the golden circle (il club di Stoccolma dove fu registrato quel memorabile disco doppio della Blue Note Records) dice qualcosa quasi a nessuno - quindi ammettiamolo: la serata ha funzionato più per i nomi importanti dei musicisti, che hanno fatto da esca. 

          E subito infatti Congeniality ci tramortisce. Ma che Jazz è questo. Penso sia successo un po come negli anni 60, quando Coleman si intrufolava nei club da perfetto sconosciuto e suonava la sua musica inaudita senza capo né coda, e col sax di plastica! Melodie scarne, evanescenti e tiranniche, senza accordi prestabiliti, senza struttura, senza tempo. Musica per niente ortodossa, non scritta, non imparata, non insegnata a scuola. Uno stile fuori dai canoni, un non-stile irripetibile. Penso che Paolo Conte si riferisca a lui, a Ornette Coleman, quando parla di enigmi del jazz. E anche Ornette, chi conosce un altro con questo nome?

       Nasceva proprio così il Free Jazz, con incoscienza fatica e coraggio. Erano i tempi di Martin Luther King, anche in politica si osava limpossibile, ma era la cosa giusta da fare. Poi le cose sono cambiate, anzi sono apparsi i seguaci di questa musica cosiddetta a venire. Coleman è diventato un capo-scuola, un marchio, una moda anche comoda per sdoganare autentiche schifezze. E lui invece si evolveva ancora, ad una velocità che ci vorrebbero fior di ricercatori per inquadrarla e studiarla nella sua geniale complessità. Era imprendibile. E imprendibile.

       Sicchè stasera i Nostri ci ripropongono proprio lui, fedelmente (almeno nello spirito) ma anche re-interpretandolo e proseguendo oltre, con composizioni originali altrettanto criptiche e rivoluzionarie. 

         E noi ci sentiamo nella condizione di chi deve recuperare svariati anni di scuola non in un anno o in un mese, ma in unora. 

Ma già dal secondo pezzo - Peace - va meglio e ci rinfranchiamo. Riconosciamo un po dAfrica, capiamo anche se a scatti, ipnotizzati dalle velocità, stupefatti dai sincronismi, irretiti da suoni inconcepibili, da fraseggi irregolari, infrazioni, dissonanze Senza riferimenti o giri armonici, senza appigli, senza schemi. 

Eppure nulla è casuale, cè del calcolo formidabile, e pensieri lampo che non puoi riavvolgere. Sembra addirittura, spesso, che contrabbasso e batteria facciano ordine, e tromba e sax disordine. Si affrontano come in un match di tennis tirandosi note a 200 allora, e Bosso che pare un serpente con quella maglietta, e Giuliani col tacco a batter il tempo, e Pietropaoli e Di Leonardo che non si sa dove vogliono arrivare Lo stiamo capendo, Coleman? Forse, non siamo certi, ma ci è piaciuto tanto.

      Dopo innumerevoli preziosità, quasi alla fine della stagione al Cotton Lab è arrivato loro.


PGC - 9 aprile 2018