29/08/17

Il melograno di Dimarti. Regia e Interpretazione di Vincenzo Di Bonaventura


       Il vento s’è impigliato all’orizzonte, scriverebbe Dimarti pennellando l’atmosfera di questa sospesa sera d’agosto. Cielo profondo sopra gli alberi, quiete stelle lontane, giardino antico di terrazze e gradini impervi che si fa arabo negli aromi di cous cous e di tè speziato servito con gesto d’arabesco, e nella voce calda del giovane Yacine in severa galabeya che in arabo legge le poesie di Giarmando. Tornerà fra poco alla sua Itaca nel deserto, alla famiglia, lui arrivato dal mare come tanti. Poi sarà di nuovo qui, Yacine (mi chiamo anche Ahmed, come quasi tutti gli arabi), a questo “scrigno dell’amore, dell’accoglienza, della cultura” - così Di Bonaventura definisce il luogo nato dalla passione di Stefania e di Euro - e da qui riprenderà il non facile viaggio della sua vita.

       Il Poema del Melograno, inedita meraviglia che nel marzo dedicato alla Poesia sfoglieremo con a fronte l’araba traduzione di Nesrine Besbes, è il frutto carnoso di agguerrita dolcezza maturato nel poeta dalla “attentività testimoniale” (Di Bonaventura) per l’universo di colore, di danza e di suono - suoni stupiti fragranti - di quella cultura antica: prismatica e polposa, complessa e succosa come il melograno che ne è simbolo “carico di sole ed essenze”.

       Granada e Palermo ne sono i confini: lo apre la “melograna di Spagna”, che ha il frutto del paradiso musulmano nel nome e nello stemma, moresca città di sapienza e cultura non piegata alla feroce Reconquista cristiana, spezzata infine da oscurantismo e violenza di sovrani cattolicissimi; lo chiude Palermo, scrigno medievale di poeti arabo-siculi, in fuga come Ibn Hamdis col suo diwan di versi d’amore per la patria perduta, di struggimento per un nostos mai realizzato (Sono stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia?).

       Al Melograno il poeta rivolge domande, curioso del riposto segreto di quelle danze d’Oriente che custodiscono sontuose messi e frutti sonori; il Melograno risponde al poeta, e lo fa dando voce agli Strumenti - squittire rapido di uccelli, sapori di nettare e di mirra - poi ai Ritmipercorso lungo del Nilo, arcobaleni accovacciati, beduino ritmo raccolto  -  poi alla Danza - alcove odorose di cinnamono, fervore accecante del giorno, i sette colori dei sette veli di Salomè, chiarezza di luce danzante per l’Antipa, e l’ingombrante testa del Battista

      “Avevo dimenticato la nostra musica, i nostri ritmi, la nostra danza” scrive a Giarmando la traduttrice Nesrine, e il poema di Dimarti è questo, nel nostro tempo miope e feroce: è folgorazione che scopre “l’anima despiritualizzata dell’uomo” (Di B.) perché “ristare ammarati è la più atroce sconfitta” e “solo dalla speranza rigermina un alabastro di salvezza”. Nella grande idea di recupero dell’uomo che pervade la poesia di Dimarti - commenta l’attore - sentiamo l’eco di quell’impensabile “…continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo” consegnatoci da Anna Frank.

       Lo sguardo di Giarmando sull’artista scopre cose che l’artista stesso non conosce: così, poco prima, sull’altissima poesia di Dimarti - degna dei più grandi del Novecento - argomentava Di Bonaventura, i cui spettacoli sono ogni volta contenitori inesauribili, lezioni magistrali di letteratura e teatro, di storia e poesia, di lingua e dialetto, di tradizioni popolari e di potente classicità.

       Lezioni che possono di colpo farsi giullarate: come quando si accende, stasera, il ricordo di una cena nella casa marchigiana dell’elettricista nativo di Casablanca, autore del sapiente impianto d’illuminazione nel suo ora dismesso Teatro Aikot da 27 posti in via Fileni (“con le assi e tavole del palcoscenico farò la mia bara”, ride l’attore): la giunonica madre in elegante hijab che cucina il delizioso menu arabo, e la conversazione fitta e cortesissima con lei che ovvio parla arabo e Vincenzo no ma capisce tutto anche i più sofisticati culinari tecnicismi, riprodotta in imperdibile grammelot degno del miglior Dario Fo.

       Noi aficionados lo sappiamo, che quelli di Vincenzo sono sempre due spettacoli, e anche più, in uno…

Sara Di Giuseppe

28/08/17

VI Biennale d'Arte Murale “Casoli Pinta”. L'inaugurazione


Si inaugura sabato 2 settembre al Museo Archeologico di Atri, con inizio alle 19.30, la Biennale d'Arte Murale “Casoli Pinta”, prestigioso appuntamento artistico-culturale giunto alla VI edizione, che lo scorso anno ha festeggiato il suo ventesimo compleanno.
La Biennale, decretando il vincitore di questa edizione, arricchirà la sua galleria museale all'aperto, quel “Museo sotto le stelle” che ha contributo a fare di Casoli di Atri una importante attrazione turistica e non solo.
Ventinove gli artisti partecipanti al concorso mentre, per completare il percorso legato al senso di Arte Contemporanea oggi, l'Associazione Culturale “Castellum Vetus”, organizzatrice dell'evento con il Comune di Atri e la Fondazione della Cassa di Risparmio di Teramo, ha invitato dieci artisti di fama nazionale e internazionale, che figurano nel catalogo guida della manifestazione, come ospiti.
Quest'anno, però, la manifestazione si arricchisce della presenza delle delegazioni di altre città abruzzesi promotrici di iniziative similari. Auspice la Regione Abruzzo, si sta predisponendo un protocollo d'intesa che dovrebbe valorizzare al massimo le manifestazioni “open” e dare alle realtà che le promuovono, quella visibilità e quel sostegno indispensabile per continuare la loro opera di avvicinamento all'arte del maggior numero di persone. 
Emotività e sensibilizzazione verso una parte della cultura abruzzese che meriterebbe ben altre soddisfazioni.
Gli appuntamenti di sabato 2 settembre sono i seguenti:
ore 16.30 arrivo a Casoli di Atri delle delegazioni di Azzinano di Tossicia, dove la locale Pro-loco si occupa di dipinti sui muri, dell'associazione culturale di Treglio che si occupa di affreschi sui muri e dei rappresentanti del Consiglio Regionale
ore 18.00 Comune di Atri – riunione per l'analisi e l'approfondimento della progettualità futura del protocollo d'intesa con la Regione
ore 19.30 Museo Archeologico – Inaugurazione e premiazione VI Biennale d'arte Casoli Pinta.
L'ingresso alla Biennale, allestita presso il Museo Archeologico di Atri, è gratuito.

15/08/17

La carica dei 101. “Ripatransone in miniatura”. Eugenio Cellini, acquarellista


         Gli acquerelli di Eugenio Cellini in questo antico spazio sono 101 o giù di lì, del resto neanche i dalmata cuccioli di Walt Disney erano davvero 101 ma 99 (84 + 15). E sono coloratissimi, come è normale che sia per gli acquerelli. Niente macchie bianche e nere. Se ne stanno quieti silenziosi e ordinati - ma vivissimi - nelle loro sobrie cornici vetrate. E nessuna Crudelia vuol farne pellicce dunque non devono scappare, nè pensano di scatenarsi in una corale carica canina…

        Gli acquerelli di Eugenio Cellini la carica non la fanno, la danno. Intanto perché entrando dal vecchio portone non trovi la solita mostra - pavimento da Centro Commerciale, muri anonimi di garage, aria (mal)condizionata, fredde luci, invertebrata musica-flebo di farcitura, arredi IKEA o angosciante “vuoto”… con esposte opere-profughe (con nome/titolo e numero di matricola) dall’aspetto carcerario appese a catenelle… insomma uno di quei non-luoghi dove i visitatori (magari paganti) sembrano automobili in cerca di parcheggio.

        Questo è un posto di casa e di chiesa. Intimo. D’atmosfera. Il pavimento centenario di vissuti mattoni, le insolite pareti  riquadrate e verniciate in color rosso-Cellini, il grande tavolo-di-lavoro con la miriade di arnesi del mestiere pronti all’uso, cavalletti da pittore di ogni taglia, molte sedie, faretti da cinema… poi quel bravo “allievo” appartato che disegna a matita un nudo di donna… ed Eugenio, sempre presente negli orari della mostra, che fa gli onori di casa a tutti.
Tutto il contrario della mondana aria da merchandising che trovi nelle mostre “importanti” dove il paccuto catalogo con-saluti-del-sindaco-e-dell’assessore, con l’illustre cervellotica pagina del (grande) critico, e i sussiegosi dépliant sono i fumogeni per una monetizzazione dell’arte che spesso sostituisce la qualità.

        Qui trovi “paesaggi dell’anima”, anche in formato quasi francobollo (per non disturbare…), piccoli sguardi posati su un muretto, sospiri appoggiati a un balcone, capriole di neve in discesa, scorci di sotto casa che avevi trascurato, cadenze ipnotiche di tramonti e cieli che avevi dimenticato, e campagna e calanchi e colline…



        Negli acquerelli di Eugenio Cellini scopri e conosci meglio il (suo) paese scansionato e raccontato in ogni palmo. Le case di bei mattoni basse e arrampicate, le ringhiere, gli archi, i campanili e le chiese, le scale ardite, le strade lastricate di pietre di Cingoli, l’affettività delle architetture perse e le rovine intatte, i giardini e gli orti spontanei, le ariose o anguste piazze dall’acustica perfetta, ma ripensate senza macchine: con l’acquerello puoi sottrarre, omettere il degrado e il finto-progresso, falsificare senza rimorso, togliere il vento, inventare il silenzio, fermare e ribaltare il tempo. 

Un acquerello rinfresca il nostro vivere sub-tropicale, corrobora le giornate uggiose, sghiaccia le nostra anime come si fa con le ali degli aerei sennò non decollano. E’ spensierato. Leggero. Ossigenante. Libero. Comprensibile a tutti, ha l’aria bohémien ma non fa l’intellettuale. Quasi canta. Ma non le canzonette, ama il buon vecchio Jazz. Gli acquerelli di Eugenio Cellini sono molto swing. Quando entri qui per gustarteli, ascolti Benny Goodman, Duke Ellington, Earl Hines, Glenn Miller…  Io m’immagino anche Paolo Conte.

PGC

06/08/17

Grottammare. Edipo Re di Sofocle, a cura di Vincenzo Di Bonaventura


          E’ dei grandi uomini di teatro, l’attrazione magnetica che inchioda il pubblico, seduce noi umani e non solo: anche le colte intelligentissime api, e il mitologico geco, e le preistoriche lucertole

           Ci sono tutti, stasera, oltre a grilli e cicale confusi dal caldo: il geco, impertinente come il ragazzaccio che fu prima di mutarsi in rettile al tocco rabbioso di Cerere offesa, imprendibile lampo screziato sui ruderi così mal restaurati del Castello; e c’è quell’ape intrepida che, non paga di ascoltare Vincenzo, ne ha cercato e conquistato il contatto epidermico, s’è infilata nell’ampia tunica edipica, ha lasciato il segno rovente sulla spalla dell’attore che - stoico - non s’è fermato, facendo così più reale il pathos del re sventurato, più aspro il dolore dell’infelice stirpe di Labdaco.

        “Arte demolitoria è la mia”, sottolinea l’attore (stavolta non-solista) fin dalla prima delle tre serate sofoclee: teatro che demolisce il “decanto” e la tentazione declamatoria, il birignao che i registi “importanti” sempre impongono ai loro attori specie nel teatro classico, per eccellenza teatro di potere e di regime. Proprio in quello, allora, maggiormente occorre recuperare la lingua madre, la lingua parlata dietro l’angolo, quella che raggruma in sé tutti i possibili sottotesti; quell’onomatopeica “lingua del mondo”, insomma, universo sonoro stratificato nelle culture del popolo, l’unica che sia in grado - superando un teatro rimasto fermo su se stesso  -  di dar voce al pensiero antico che scava a fondo nell’uomo, di dar corpo ai pensieri che – direbbe Pirandello – nascono malgrado noi, bastardi come a volte sono i figli, tracotanti perché pronunciano verità (e per questo perniciosissimi).

        Il suo è perciò teatro della festa e della strada, teatro dell’immediato che qui ha le sue quinte ideali fra le antiquissime vestigia del castello che fu: pietre di restauro malamente assemblate da ignoranti mani contemporanee, offese da cartelli storti e tubi dimenticati, da incuria e da echi di musicacce del borgo in turistico orgasmo, intralciate dalla fluorescenza di obbligatorie e inutili Protezioni Civili.

        Così ecco nel prologo l’attore - di nuovo e temporaneamente solista - farsi allo stesso tempo coro e sciamano: maschera adunca che in mescolanza di dialetti e onomatopee disegna l’antefatto delle vicende tebane. La peste che sta decimando vite in un altro paese, richiede una vita:  Dovete fare il sacrificio, prescrive lo sciamano in grottesco saltare e contorcersi al popolino ignorante che lo interroga  - Siama’, come ci dobbiamo comporta’? -  e non capisce, duro d’orecchi e di comprendonio – Eh, che siete detto? –
Sacrificio ci sarà, e sotto il pietrame della lapidazione non il vecchio mendicante fatto bersaglio si troverà, ma una cagna che svommica e muore e in quell’istante la peste è vinta, la città è libera.
  
        Deposta la maschera, indossata la tunica (l’ape malandrina l’aveva individuata, adesso studia le mosse, il percorso…), l’attore è ora Edipo, saggio e sapiente re di una Tebe una volta luminosa, devastata ora - 450 a.C. - dall’orribile pestilenza.
        Da lui, che la liberò dalla sanguinaria Sfinge - Tu che già una volta hai raddrizzato il corso della nostra vita - la città attende nuova salvezza. Il sacerdote lo prega e sollecita, il supplice Coro (i bravi allievi de “La Macchina Attoriale”) se la prende con gli dei neghittosi, con Febo Apollo, e con Atena e Artemide, perfino col rubicondo Bacco: li sfida a parole, rabbioso e disperato, si muovano dunque, scendano dai loro regni dorati ad aiutare il popolo stremato.

        Non si sottrae Edipo alla preghiera (Figli, poveri figli… la mia anima piange per tutta la città), e il responso di Apollo Pizio apre alla speranza: la salvezza è possibile, non c’è che da cercare chi uccise il vecchio re Laio, la punizione del reo scioglierà il maleficio che è conseguenza del delitto, fugherà la pestilenza. Meglio anzi - è la proposta di Creonte - convocare il cieco indovino Tiresia, lui certo saprà svelare il colpevole, e tutto avverrà più in fretta…

        Muove da qui l’inchiesta, e cammina a ritroso poiché il mitologema - il fatto originario, seme della catastrofe - è già compiuto quando la vicenda ha inizio. E’ la “tragedia perfetta”, costruita come una modernissima detective’s story, i cui colpi di scena alternano sollievo e terrore e rendono aspro il confronto: ciascuno rigetta da sé la colpa, rabbiosamente la scaglia sull’altro in questa che è anche una “tragedia dell’ira”; alla collera essa attinge la sua lingua, ed è testo attualissimo che rimanda alla nostra coscienza ancestrale, alla rabbia che noi umani custodiamo irrisolta da millenni.

         Edipo è insieme investigatore e colpevole, e nella generosa leale volontà di far luce (egò fanò) e di risalire indizio dopo indizio, prova dopo prova, ogni gradino dell’oscura sua origine, rivelerà fatalmente se stesso come l’empio, causa pur inconsapevole del maleficio tebano.

        Il vaticinio antico s’è dunque compiuto inesorabile, s’è fatto beffe dei miserevoli destini umani: uccisore del proprio padre, figlio e marito della propria madre, padre e fratello dei suoi stessi figli, Edipo si condanna a vivere (La morte si sconta vivendo: Ungaretti, secoli dopo) accecato ed esule - Luce, ch’io ti veda per l’ultima volta, perché io nacqui da chi non dovevo, mi congiunsi con chi non dovevo, chi non dovevo uccisi - emblema immortale della contraddittoria duplicità e infinita miseria della condizione umana (Oh razza dei mortali / quanto simile sei / nella tua vita al nulla).

        E’ mirabile questo teatro fatto col nulla: non impressionanti fondali di cartonaccio, non pretenziose perforanti luci di scena, nessuna musica che non sia il misterioso ritmo percussivo di djembe; “il teatro appartiene alla gente, alle mura antiche” dice il maestro che con sapienza ha estratto dai suoi allievi la passione, il talento, la fatica. Dopo gli applausi li vediamo farglisi vicini… c’è da cercare il rimedio giusto contro il bacio infuocato dell’ape malandrina, dell’ape di Edipo.

Sara Di Giuseppe