17/09/14

“Vanagloria”. La lectio magistralis di Umberto Galimberti a FestivalFilosofia. Cappelli al sole

Duemila persone sedute, quasi altrettante in piedi lungo il perimetro e nei vuoti della sterminata Piazza Martiri a Carpi, sotto il sole giaguaro delle 11.30 (ma in attesa da almeno un’ora prima) diventano una distesa di cappelli fai-da-te dei muratori una volta, prima dell’era Nike: perfette allo scopo le paginone del Sole24ore (lo danno gratis, ma sono le copie di domenica scorsa: gran signori questi del Sole, invece di buttarle via le regalano a noi…); però funzionano benissimo anche Repubblica o il Corriere di oggi, invece di pulirci i vetri di casa [loro utilizzo primario].
Però sul palco hanno messo un ombrellone, perché non diventi il festival del filosofo liquefatto. Abbiamo ascoltato parecchio sulla “gloria”, da due giorni in qua. Oggi con Galimberti si parlerà di “Vanagloria”: dalla quale sono di certo esenti il Nostro (“Non battete le mani, si spellano”) nonostante il pubblico da concertinpiazza, e anche il vicesindaco che si presenta come semplice “amministratore” e parla soltanto tre minuti scarsi, nei quali ricorda anche i danni del terremoto e la ricostruzione per fortuna avviata, visibile nei begli edifici storici ingabbiati per lavori [da noi, per tanto filosofo si muoverebbe una corazzata Potёmkin di sindaci e assessorame misto, a vanagloriarsi incontinenti, e il sole giaguaro tramonterebbe e il filosofo si addormenterebbe prima di poter parlare…]. L’argomentare di Galimberti attraversa Platone e Aristotele, Hegel e Nietzsche, Goethe e Schopenhauer, Freud e Heidegger, dentro un impianto rigorosamente circolare la cui conclusione (certezza di un Occidente al tramonto, il cui destino sembra contenuto nel nome stesso, “…ci raccontano che ci riprenderemo, ma non è vero, non c’è più niente da fare”, dirà) si salda all’assunto iniziale per cui “vanagloria” è la superbia dell’Occidente cristiano che volutamente ignora il suo limite ed è destinato per questo a soccombere. Nesso comune fra gloria e vanagloria è il poggiare entrambe su strutture relazionali, essendo sempre la nostra identità - positiva o negativa - frutto di relazione con gli altri, per il naturale bisogno umano - teorizzato perfino da Hegel - dell’altrui riconoscimento. Ma alla gloria che nella massima civiltà antica, la greca, è etica dell’onore da difendere fino al sacrificio di sé (“Ares risparmia i vili e porta con sé gli eroi”) e valore fondante dell’esistenza per i ceti dominanti, l’Occidente cristiano - dove anche l’ateo e l’agnostico sono “cristiani”, poiché è col cristianesimo che tutti ci relazioniamo e tutti pensiamo “cristianamente” - ha sostituito l’esaltazione di sé al di là del proprio limite: si è distaccato dalla eudaimonía che è il seguire il daimon, il proprio demone interno quindi il proprio carattere, così da essere in buon accordo con se stessi (“conosci te stesso”), ed è il comportarsi secondo giusta misura senza oltrepassare il limite assegnato, pena la propria rovina. L’etica del limite è nel pensiero greco intimamente connessa all’idea della morte come costitutiva dell’esistenza umana; la promessa del Cristianesimo “tu non morirai”- per Nietzsche, il vero colpo di genio del Cristianesimo - ha invece allontanato l’idea della morte, senza la quale il pensiero occidentale non può sottrarsi alla vanagloria, e la stessa sofferenza è eccesso di desiderio rispetto al limite che non sappiamo riconoscere. Nell’ ”ottimismo cristiano” il futuro è positivo: il passato è il male (il peccato originale), il presente è redenzione, il futuro è salvezza. “Tutto è positivo in Occidente perché tutto è cristiano”, osserva il filosofo (e perfino Baget Bozzo, ricorda, si domandava: Sopravvivrà l’Occidente alla fine del Cristianesimo, e viceversa il Cristianesimo alla fine dell’Occidente?). Nelle epoche in cui l’afflato religioso si esaurisce, la morte di dio è rimpiazzata da scienza e tecnica ma, cambiati i contenuti specifici, la qualità temporale è la stessa (anche per Marx il passato è errore, il presente riscatto, il futuro è progresso) e oggi ci rivolgiamo alla scienza con la stessa fede salvifica che riserviamo alla religione, e chiediamo alla tecnica gli strumenti per continuare ad essere la “società difesissima” che consuma la maggior parte delle risorse della terra e il cui modello non è strutturalmente esportabile perché se si estendesse porterebbe al collasso della terra stessa. Per l’uomo occidentale, infatti, che assimila dal Cristianesimo l’etica del dominio assegnatogli da Dio (Genesi: “…Abbia potere sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra”) la natura non è più quella dei Greci, creazione non divina né a disposizione dell’uomo, immutabile e regolata da leggi ferree perché determinate dalla necessità (“anánche”) da indagare per la propria sopravvivenza ma secondo misura, e l’uomo solo componente di essa, in nulla privilegiato (“E tu uomo - dice Platone - non pensare che per te questo universo sia stato fatto, tu piuttosto sarai giusto se sarai aggiustato all'armonia cosmica”). La società occidentale è dunque “inevitabilmente colpevole”: siamo inferiori alle stesse macchine che inventiamo, necessitati ad agire secondo le regole che esse ci impongono e non c’è nel nostro scenario possibilità alcuna che tornino a prodursi “l’arte greca, Beethoven, Dante, Goethe”: ci è precluso dal nostro pensiero ridotto a calcolo, e in questo degrado della cultura l’Occidente muore suicida. Ha il pregio raro e notevole della concretezza, Galimberti. Così, rispondendo all’intelligente domanda (perfino in buon italiano) di uno studente, la calma e l’apparente cinismo si accendono a sottolineare il disastro culturale del nostro tempo, del nostro paese: in cui i giovani hanno accettato passivi la loro emarginazione, la non-rilevanza sociale (“non posso immaginare cosa sarebbe successo se nel ’68 ci avessero proposto i Co.co.co…”); per questo vivono di notte, e droga e alcol sono funzionali alla assoluta consapevolezza di non avere futuro, al loro concepire anzi il futuro come una minaccia. E “ciò che più sembra terribile è l’assenza di felicità che su tutto incombe”. Eppure i giovani hanno il massimo della forza biologica e intellettuale, il massimo di ideazione: una società che fa a meno di questo - come questa Europa elementare, economica, finanziaria - non ha futuro. Tramonteremo, dice il filosofo, e sarà solo per colpa nostra, perché le colpe prima o poi si pagano, e proprio qui, su questa terra. Ma - alzando per la prima volta la voce si rivolge direttamente a loro: sono tanti, oggi qui, i giovani - voi qualcosa dovete farla, perché noi moriremo, ma voi dovete prendervi la vostra vita: vivete di giorno, non di notte per cancellare una società che vi esclude! “Basta, sennò mi arrabbio”…
Vorrei abbracciarlo, e mi limito a spellarmi le mani.

Sara Di Giuseppe

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