31/08/21

VALE MENO DI DUE BAIOCCHI DI FOLIGNO

San Benedetto.

 
Ne ha combinata un'altra delle sue: nell’alto ruolo di assessora alle Pari Opportunità, alle Politiche dell'Integrazione e dell'Inclusione e alle Politiche della Pace, baiocchia nostra torna sul luogo del delitto e straccia i 41 nastri e i 41 manifesti di donne vittime quest'anno di femminicidio.      
["Femminicidi, Italia sotto la media europea", LIBERO, 29.8, ah beh, allora...] 
 
       Quanto può valere un’assessora così? È come se un assessore al Commercio facesse chiudere tutti i negozi, come se un assessore alla Sanità trasformasse gli ospedali in concessionarie d'auto, come se un assessore al Turismo cacciasse tutti i turisti…
 
       I baiocchi non valevano granchè neanche al tempo dei papi, ce ne volevano almeno 77 per 1 ducato papale. Pur di diversi conii - di Foligno, di Ancona, di Fermo, della Repubblica Romana - per lo scarso valore d'acquisto praticamente non li voleva nessuno. Quasi tutti avevano su una faccia il fascio littorio (appunto...).
 
Quindi non c'è da meravigliarsi se, dopo quest’ultima performance in tema di femminicidio, una baiocchia di San Benedetto vale davvero poco, addirittura meno di due baiocchi di Foligno
 
 
PGC - 31 agosto 2021



26/08/21

Non ci resta che la pasta all’amatriciana

        Amatrice. Col raduno di tutti i draghi del cucuzzaro, si è festeggiato in pompa magna anche il 5° compleanno del terremoto
Presidenti, governatori, parlamentari, consiglieri regionali e anche meno, sindaci, commissari, questori, prefetti, alte medie e basse cariche militari, capi di ogni risma, pompieri, vescovi, preti e cotillons. 
Cerimoniale ineccepibile: i rintocchi di campana a morto, la tromba che suonicchia il silenzio, la corona d’alloro sfiorata da ben addestrate mani tremanti, il coro in nero che attacca - come viene, viene - con l’Alleluia, la messa allo stadio con predica a tutte maiuscole, la folla di bandiere appena stirate con pure quella europea, i medagliati stendardi e gonfaloni dei Comuni, la commovente veglia con fiaccolata… più giornalisti, fotografi e televisioni come il sale, ovvio. 
E di qua, industriali, progettisti, costruttori e (im)prenditori attentissimi, “adesso i soldi ci sono”, “non mancano i capitali, quando si tratta di spenderli male” (G. Ceronetti).
Poi il paterno colloquio con i superstiti e i familiari dei morti [“Lo Stato vi sarà sempre vicino”, notare il futuro…], le reboanti promesse declamate con quelle facce un po’ così, quelle espressioni un po’ così… (se dovessi commentarle, sarebbero tutti omissis), le cifre tonde a molti zeri della ricostruzione e della rinascita sparate senza vergogna o allungamenti di nasi.
Ma incredibilmente, ad Amatrice ancora ci credono. Battezzano ogni cosa col nome “Rinascita”, Ponte della Rinascita, Bar Rinascita, Ristorante Rinascita, magari si ritroverà ‘sto nome pure qualche incolpevole neonata. 
Ma quale rinascita: della farmacia rimane solo una cassettiera con ancora i farmaci (scaduti) e una confezione di pannolini, sul pavimento sfondato di una casa di anziani distrutta resta solo una macchinetta per misurare la pressione, di una Opel Corsa, come di altre auto, non hanno rimosso neanche le carcasse… Hanno solo sgombrato le macerie, se le sono vendute - letteralmente, pietra dopo pietra - prima che finissero di mangiarsele le sterpaglie. L’antica torre civica, inclinata, puntellata e irriconoscibile, con quel provvisorio-definitivo sgarbato tetto rosso di ferro, è l’offesa bruciante simbolo della disonestà politica della “rinascita” di Amatrice-dimenticatoio-d’Italia.
Per il resto, a parte qualche (non indispensabile) opera pubblica frutto di donazioni private e la teatrale PRIMA - e unica - PIETRA inaugurata l’altro giorno (dopo 5 anni!) da Zingaretti, “UNA SOLA GRU E CANTIERI DESERTI”, “DOPO 5 ANNI LA RINASCITA NON C’E”. Anzi, tira ovunque un’aria macabra, da 5 anni!  
Fra un anno, il sesto compleanno sarà uguale. Però l’entusiasta sindaco Bufacchi pensa già al glorioso decennale, al 24 agosto 2026, quando gli incapaci, gli incompetenti, i furbi, i chiacchieroni e i la… (omissis) di oggi e di domani completeranno (dice lui) l’opera - in tutta evidenza mai iniziata - di ricostruzione di Amatrice. Alè!
      Eppure ci vorrebbe poco per interrompere questi indecenti Festival dei Disperati. Basterebbe educatamente sabotarli. Per esempio disertarli in massa, noi gente comune, noi vittime, noi familiari, noi spettatori solo all’apparenza non paganti. Lasciarli, i politici e gli alti papaveri, soli soletti. A guardarsi tra loro stupiti perché i loro ubbidienti sudditi-votanti non ci sono. Costretti a dirsi la messa da soli, a suonarsi il silenzio e l’Alleluia, a sparlare al vento, a spromettere, a non sorridere agli applausi a comando che non ci sono. Certo che qualche paura gli verrebbe, di venire assaliti dalle colline intorno da gente incazzata coi forconi, di essere inseguiti dai lupi intelligenti, dai cani selettivamente feroci dei pastori… cose così. Ad Amatrice (anche ad Accumoli, Arquata, Pescara del Tronto…) non sarebbe impossibile.
Ma non succederà. Non faremo niente, tutto continuerà come sempre. Anche dopo che loro si saranno mangiato tutto e a noi non resterà che la pasta all’amatriciana.  
 

PGC - 25 agosto 2021

 

17/08/21

RIPA - Gli acquerelli con le ruote

 

È successo che gli acquerelli di Eugenio Cellini hanno messo le ruote e si sono spostati, ma non gli è servito il motore. Casa nuova l’han trovata facendo neanche 100 metri in discesa, uno storico palazzo in mattoni del Corso, un po’ trascurato che adesso pare rinato.
       Ogni anno dei suoi acquerelli di successo Eugenio faceva almeno una mostra, ma era “a tempo”. Dopo un mesetto li riportava nel suo studio-loft, tranne quelli che incantando chi li guardava prendevano altre strade. Ed Eugenio, riarmati i cavalletti, con tutto l’ambaradan di matite, pennelli e colori (più un po’ d’acqua per carburante) li rimpiazzava dipingendone altri, quasi uguali ma sempre diversi, col suo stile garbato, preciso, quieto, rassicurante.
Sicchè gli acquerelli devono avergli detto che erano stufi di fare così le loro ferie. Ogni volta due traslochi. Eugenio doveva trovargli uno spazio fisso, che fosse solo per loro, una seconda casa non di vacanza ma stabile, dove occupare comodi i muri per tutto il tempo, dove farsi guardare a tutte le ore, e soprattutto senza dover rifare i bagagli e rimettersi in viaggio finito il tempo della mostra.
Fatto.

       Finalmente gli acquerelli di Eugenio si sentono meno precari, più tranquilli, sereni, sicuri. Loro stessi lo dicono. Dalle due porte-vetrine d’epoca possono guardare le auto e la gente che passa, che già è meno scappereccia, e dar loro un motivo per fermarsi, per entrare a fare un giro tra più di cento paesaggi dipinti, respirare l’atmosfera e la musica di quei colori pre-romantici, dei pennelli, degli attrezzi d’architetto ben ordinati sui tavoli tecnici, innamorarsi dei plastici, del modello trasparente di quella barca a vela unica… Nulla dovrà essere re-impacchettato, la mostra qui rimane.
Insomma gli acquerelli di Cellini che avevano messo le ruote possono definitivamente toglierle. Anche perché, per tornare su nello studio-loft dove son nati gli occorrerebbe davvero un motore per rifare i 100 metri di salita… e non se ne parla. Quelli che usciranno da qui lo faranno per cominciare  un’altra vita in un altro posto. Vicino o lontano.
 
[Potevo dirlo meglio ma pazienza]
 

PGC - 16 agosto 2021



15/08/21

Altro che “oltraggio a Bach”


CARASSAX

Festival di musica moderna e creativa per saxofono
Mario Marzi – Achille Succi 
(Bach con elementi di improvvisazione)
CARASSAI – Giardino Comunale – Sabato 8 agosto h 21


Altro che “oltraggio a Bach” - come scherzosamente Achille Succi definisce questo loro “omaggio”...


Bach li avrebbe abbracciati. Anzi, avrebbe inventato lui stesso il saxofono un paio di cento anni prima del belga Antoine J. Sax, arrangiando e trascrivendo per sax di sua mano, anche in chiave simil-jazz.
Mentre Carassai - per tre giorni d’agosto gustosamente ribattezzata Carassax - potrebbe diventare famosa quasi come quella Dinant dove Sax è nato, vista la qualità di questo Festival un po’ in sordina, ma stupefacente.
 
Marzi e Succi arrivano al Giardino puntuali come due viandanti della Francigena. Prima di aprire i loro bagagli ci guardano… è qui che si suona? Tastano la ghiaietta (scricchiola un po’), toh ci sono i leggii, le aste, i microfoni, un faro, hanno dimenticato il palco… Tanto Bach non s’incazza… quindi tirano fuori i loro 3 - 4 sax (veramente uno è un clarinetto basso color argento vecchio, più buffo del sax con quella pipetta, ma con ben 5 ottave di estensione, sarà terrificante) e attaccano subito con assaggi di musica rinascimentale e di gregoriana, tanto per prepararci alla comprensione dell’inimmaginabile che combineranno con Bach.
E infatti nelle architetture perfette di Bach innestano altre loro architetture, con fraseggi, mascheramenti, acrobazie, sovrapposizioni, inseguimenti, invenzioni sincopate e ritmiche sorprendenti. Bach pare nascondersi, talvolta quasi non lo ri-conosci. Sax che si guardano come due ciclisti in fuga su una salita, o che si inseguono perfettamente sincronizzati come quelli in pista. Di Bach saranno preludi, suite, sarabande che si trasformano ballate - che da veloci diventano lente - delicatamente.
Niente di serioso però. Marzi e Succi, che con successo suonano insieme da anni, che causa Covid devono far le prove a distanza con internet, sono due mattacchioni educati e divertenti, mica turnisti di filarmonica.
Suonano difficile, complicato, ma senza ansia, quasi giocano: fingono di andare ognuno per conto proprio, Marzi che se ne esce - in slang sanmarinese - con “questo pezzo è bello ma a me non piace…” e Succi - in modenese - “ah, c’è da spostare una BMW, targa…” e Marzi “ma sì, facciamo questo pezzo qua, lui (Mario) ci tiene…”  
L’ultimo pezzo “sacrilego” - che “potrebbe essere un oltraggio, non un omaggio a Bach” - fanno finta di non sapere o di non ricordare come finirlo,  infatti lo allungano un po’ - è una specie di ballata con l’inaspettato stranissimo accordo conclusivo detto di “tierce” o di “quarta di Piccardia” (dopo me lo son fatto spiegare, ma non sono sicuro di aver capito): dissonanza ottenuta aggiungendo una nota ibrida, che - ZAC - Bach ogni tanto usava per finire in maggiore un accordo minore, per dare un po’ di allegria… (questo l’ho letto)


PGC - 14 agosto 2021


 

13/08/21

Nicola era bravo

A 10 – 12 anni io ero già una schiappa al calcio. Nicola invece era già bravo, molto bravo.
Dopo la scuola, con la nostra banda, andavamo a giocare a pallo’ nei gibbosi campetti in fondo a via Sabotino, tra i mattoni e i mucchi di ghiaia dei cantieri. Con palle o palloni rimediati, rubati, d’emergenza, troppo pesanti, troppo leggeri, troppo sgonfi, poco rotondi, toccava accontentarci di qualsiasi corpo rotondeggiante. Ci si faceva pure male.
Ma un giorno, non ricordo come né da chi, ricevo in regalo un vero pallone di cuoio, con tanto di camera d’aria, coi lacci come le scarpe. Color cuoio grezzo, pure un po’ peloso, giacchè era nuovo.
Nicola, oh Nicola, cosa non fece: palleggi, tiri di destro e di sinistro, colpi di tacco, di testa, rovesciate, stop di piede, di petto, tiri d’effetto, a giro, a rientrare, tunnel, discese, traversoni…
Noi incantati. Io al solito in porta, tra due sassi. Bombardato.
Si fa notte e vado a riprendermi il mio pallone per pulirlo e portarlo a casa. Nicola mi guarda, con quella faccia un po’ così quell’espressione un po’ così… e noo, lu pallo’…
Succede tutto in un attimo: un baratto, il mio pallone diventa di Nicola.
Ci furono altre partite, tutte con quel pallone. Poi i ricordi si spengono. Con Nicola siamo rimasti strani amici: sorridenti ciao e basta. Ma amici veri. Ad ogni ciao io tornavo a quel felice momento del baratto, e penso anche lui.
Oggi ho rivisto ancora Nicola su quel campetto, mi faceva gol.
Ciao Nico’
                     
Gio’
 

12 agosto 2021 

 

12/08/21

ILLACRIMOR, ERGO SUM / Piango, dunque sono

 
Perché un tempo - a scuola, in collegio, al militare, nella vita - i piagnoni li si guardava storto?

Maschi “pappemolli”, “piangono le femmine”, era l’assioma. Piangere - senza esagerare e raramente a dirotto - era tollerabile solo per un lutto stretto e per faccende gravissime: tirar su col naso e poi girarsi di spalle, respirare forte, ingoiare, cercare aiuto al fazzoletto (di stoffa a righe o a quadri, di carta ancora non c’erano) per finalmente risorgere nuovo come prima… “mica piangevo”… Senza andare dallo psicologo che non c’era, eravamo come allenati a non piangere. Specie in pubblico. Si piangeva - segretamente - quando si era tristi, sofferenti, disperati, distrutti da un evento improvviso, bocciatura, tradimento, morte del gatto (io per la mia gallina nera). Si piangeva al buio, leggendo “il libro della giungla”, al cinema, nelle cabine telefoniche… C’era poca tivvù.

Poi ci siamo evoluti, con sempre più tivvù.
Cosicchè, dopo i fluviali pianti di gioia (!) delle Olimpiadi - dove ci siamo convinti che almeno quelli sul podio avevano i condotti lacrimali possenti come acquedotti romani, dove abbiamo visto mascherine zuppe e non pioveva, e non era morto nessuno - ci è toccato Messi
Messi, il Messia del calcio. Poveretto quanto ha pianto l’altro giorno il Messi, al pensiero di dover emigrare per campare, di lasciare in lutto gli amici inconsolabili, di costringere famiglia e figli allevati tra gli stenti ad abbandonare Barcellona per Parigi… E come non piangere anche noi, a quella gloriosa conferenza stampa mondiale a reti unificate, che neanche l’eterna telenovela spagnola “Anche i ricchi piangono” ci riusciva alla milionesima puntata.
       Oggi Messi già ride, meno male, che consolazione. L’usignolo-del-calcio che piangeva frignando come un usignolo, adesso festeggia e ride senza una lacrima con la nuova maglia n.30 sventolando il nuovo contratto milionario. Ma lui, dicono trionfanti i giornali in un’alluvione di saliva, è il più forte proprio perché nella sventura non ha avuto paura di piangere in diretta, senza nascondersi, senza vergogna (sic). Che uomo! ILLACRIMOR, ERGO SUM / Piango, dunque sono. Tiè!
Voi no, voi perdenti no, voi se piangete non vale. Avete presente “io so’ io e voi non siete un cazzo”?


PGC - 11 agosto 2021                   

07/08/21

“CATRAME E CEMENTO”


 
Le “Fonti” di Ripa peggio della Via Gluck
 
Non siamo nella Milano del 1966 in preda a quella comprensibile ansia di costruire.
Ma Questa è la storia: non del Ragazzo della via Gluck, bensì del nostro paese quaggiù, che continua a farsi male da solo. 
Sono gli stessi ripani che violentano le loro “Fonti”, sono i politici e gli amministratori ripani che “restaurandole” (e facendole “belle”, c’è pure chi lo dice!) le massacrano, dopo aver lasciato per decenni nel più assoluto degrado il loro gioiello cinto di mura del XV sec.
Oggi, grazie a questa gente qua, ammiriamo:
 - Le lunghe gradinate in mattoni del teatro all’aperto affogate con tonnellate di cemento (verniciato al quarzo color merda, oh yes). Così l’acustica va a farsi benedire per sempre.
 - Le belle recinzioni di legno - che mai conobbero manutenzione - sostituite da ringhierine di ferro (color merda, oh yes) tenute su con degli “stop”
-  La rigogliosa vegetazione circostante rasa al suolo o massacrata con cattiveria, quando bastava di tanto in tanto saperla potare.
- E adesso, l’ultimo scempio: l’affettuosa strada brecciata che scende alle Fonti malamente sbrodolata d’asfalto, quando bastava pulirla. Un fiume nero, solidificato, che “alimenta” le Fonti.
Lavori effettuati - come sempre nel nostro territorio - con ignoranza, incompetenza e arruffoneria, rastrellando soldi pubblici e senza infrangere nessuna legge, si capisce. Perfino con l’approvazione dell’occhiuta Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio delle Marche che anche lei verrà a pavoneggiarsi all’inaugurazione, a respirare catrame e cemento. Ma per una volta non morirà. Mentre noi…

E no, se andiamo avanti così, chissà /come si farà /chissà /chissà / come si farà… *

*A.Celentano, Il ragazzo della via Gluck, 1966
 
PGC - 7 agosto 2021

“For me, Formidable”

For me, Formidable *

“La vie en rose… BOLERO”
Balletto di Milano
Musiche di Ravel e Autori Vari
Coreografie Adriana Mortelliti

Villa Vitali – Fermo     2 Agosto 2021  h21.30

Viens voir les comédiens
Voir les musiciens
Voir les magiciens
Qui arrivent...
       Ch.Aznavour ,”Les Comédiens”



For me, Formidablequesto Balletto di Milano che ci scaraventa piacevolmente fuori dal tempo e dallo spazio: siamo nella Parigi della Rive Gauche e siamo nel secolo scorso e intorno ci sono loro, i mostri sacri, gli chansonniers che li ascolti ed è subito Francia. 
 
È come mettere il pilota automatico e ti ritrovi in un altrove e in un clima culturale ancora vividi, emozionanti, tra quelle voci del secolo breve a cui la danza presta il suo sortilegio e un sovrappiù di grazia divertente e ironica mescolando i toni e i registri più diversi, ma con la devozione affettuosa che si deve ai grandi.
 
Che sia l’urticante Brel che dà dei “maiali” a les bourgeois - i borghesi, ces gents-là - o canta la festa di avere vent’anni mentre la danza sul palco si fa vorticosa disegnando une valse à mille temps”; o la Piaf con la sua anima frantumata e quella voce da leggenda, o Montand che lo ascolti e t’innamori all’istante; o che sia il gigantesco Aznavour - che ti arriva dritto e forte al cuore e basta, anche se sai che è perfino “Eroe nazionale dell’Armenia”, sempre le traiettorie dei danzatori su quelle melodie disegnano un’emozione, un sogno, una solitudine, ma anche il poliforme spettacolo della vita reale che pulsa intorno.  
 
Così il rimpianto, il dialogo muto della coppia, la commozione, la ribellione aperta, l’implorazione, si stemperano ogni volta appena prima dell’acme, e una vitalissima coralità vi si sostituisce, e disegna trame narrative freschissime e leggere.
E sono tenere come il ricordo della dolce guida russa Nathalie nella voce calda di Bécaud - …elle avait le cheveux blond mon guide, Nathalie - e nella danza si affacciano, trascinati e ironiche, le danze del folclore sovietico; o sono nostalgiche come la bohème dei vent’anni e dei sogni nella voce di Aznavour e quella bohème e quei sogni significavano semplicemente, e non lo si sapeva, che si era felici, on était heureux... 
 
Formidables dunque, questi interpreti, e contagiosamente espressivi: di alto livello accademico, versatili nel fluire dall'intensità drammatica di un assolo alla sensualità della passione, dalla scanzonata ironia alla schermaglia sentimentale, allo scherzo cameratesco.


E capaci di affrontare nella seconda parte, con uguale naturalezza, quel Bolero di Ravel che una coreografia originalissima sottrae agli stereotipi pur suggestivi della danza per la quale la composizione era nata.
La ripetizione ipnotica dei due soli temi appoggiati su una base ritmica ossessiva, l’intensità sonora creata dal variare degli strumenti, dall’aggiunta e sottrazione di questi - ottoni, legni, archi, perfino il sax-tenore “prestato” dal jazz - tutto converge nel fluire ininterrotto dei corpi, nel loro incontrarsi, sovrapporsi, sostituirsi. 
Trama coreografica sensualissima che disegna le eterne e mai uguali dinamiche d’incontro e seduzione e nell’imponente crescendo esalta la solida fisicità dei danzatori, la millimetrica coordinazione, la forza primitiva del movimento.
 
Il saluto finale della Compagnia al pubblico è un’apoteosi di brio e simpatia, i ballerini sono di nuovo figure reali e non più personaggi, sono scanzonati e allegri, ci ricordano che tornare a danzare è - più che mai in questo presente difficile e ingiusto - obbedire con gioia al precetto di Pina Bausch: Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti.”
 


*Ch. Aznavour

” Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più cosa fare. A questo punto comincia la danza.”
     (Pina Bausch)
 

Sara Di Giuseppe - 5 agosto 2021



01/08/21

Astor è un aeroporto


 
“ASTOR”

UN SECOLO DI TANGO

CONCERTO DI DANZA
 
Balletto di Roma

Coreografia: Valerio Longo
Bandoneon e fisarmonica: Mario Stefano Pietrodarchi
Musica: Astor Piazzolla
Arrangiamenti e musiche originali: Luca Salvadori
Voce recitante Carlos Branca

Regia: Carlos Branca

Anteprima nazionale
Teatro Rossini – Civitanova Marche
29 Luglio 2021   
h21.30
 
 
…..
                                                  .....
Vivono nelle corde e nella musica           En la música están, en el cordaje
della tenace chitarra operosa                 de la terca guitarra trabajos
che concerta in milonghe fortunate        
que trama en la milonga venturosa 
la festa e l’innocenza del coraggio          la fiesta y la inocencia del coraje.                                
…..                                                      ......
                                                          (Jorge Luis Borges, “El Tango”)

 
 

        L’aeroporto Astor Piazzolla è quello internazionale di Mar del Plata, intitolato al rivoluzionario genio musicale che a Mar del Plata era nato: cent’anni oggi sono passati da quel 1921, e non è un caso che la sapiente regia del “Concerto di danza” racconti anche questo, stasera.
Perché è l’aeroporto, oggi - come il piroscafo degli antichi migranti - la summa di ogni volo e di ogni esilio, paradigma di ogni viaggio e di ogni ritorno, e la musica di Astor è tutto questo: memoria e narrazione, impeto e struggimento, inquietudine che diventa elegia, è il tango fatto di polvere e tempo e “negli accordi ci sono antiche cose / l’altro cortile e la nascosta orditura” (Borges).
È soprattutto, in Piazzolla, il fondersi fecondo di tradizione e innovazione, è reinvenzione di un genere musicale antico e intoccabile - il tango-milonga delle origini, la sua “spavalderia un po’ malandrina”, pura sfacciataggine e pura spudoratezza nelle parole di J.L.Borges, - che si fa erudito e sensuale, si contamina con musica colta e jazz: è il tango nuevo che affonda lontano le sue radici, al modo stesso di un luminoso sfaccettato diamante.
 
Otto valentissimi danzatori, un magistrale bandoneon dal vivo, una voce recitante fuori campo: lo strumento è personaggio esso stesso e respira, procede sinuoso in tutt’uno col musicista sul palco, pare decollare e posarsi, funambolico sostiene il moto dei corpi, l’intrecciarsi e sciogliersi di questi e insieme narrano lo struggimento e la rabbia, l’amore e la forza, la speranza e il coraggio. La voce fuori campo - ascolteremo, poi, anche quella di Borges - è confessione e narrazione, dichiarazione d’amore per la sua terra, nostalgia “di quanto è stato perso e ritrovato”.
 
Della vicenda umana e della parabola artistica di Astor la danza disegna con devozione geografie e percorsi, incontri e passioni, tutto quello che - diceva lui stesso - “si ritrova nella mia musica, come nella mia vita, nel mio comportamento, nelle mie relazioni”.
Ed è viaggio vertiginoso, questa coreografia, tra continenti e culture: è il barrio violento e il suburbio porteño con la sua litigiosità e la fame, è Parigi ed è New York, è Glenn Miller e Gershwin; ed è Bach, perfino - un cardine delle rivoluzione musicale di Piazzolla - a cui la danza presta uno dei movimenti più belli della serata; è, infine, caleidoscopio di linguaggi e culture, fiume di suoni e di vita che nella fisicità degli otto danzatori in stato di grazia scorre impetuoso e spumeggia, straripa per poi raccogliersi in sé.
L’incontrarsi e il fondersi, dei corpi l’un l’altro e di questi con la musica e col respiro dell’Oceano, tutto su questa scena diviene narrazione: di amori e solitudini, di memorie e distacchi; di quel nostro essere tutti migranti: se non nello spazio geografico di certo nel tempo, al quale affidiamo il passato e il presente per ricomporre la nostra identità.
 
Taccuino di viaggio, nella centrata definizione del musicista Salvadori, quello di stasera è una creazione artistica a tutto campo: Concerto di danza che unisce tecnica rigorosa e suggestione evocativa, che plasma sulla scena la concretezza di una vita, quella di Astor, che in prodigioso tutt’uno con la sua musica parla ancora, cent’anni dopo, di un viaggio che è di tutti noi, oggi come ieri migranti in cerca di approdo.
 
Prezioso spettacolo, ricco di promesse in questa sua anteprima nazionale.
 
[Peccato questa direzione del Teatro. Incapace di comprendere (e non da adesso) che non è civile ritardare di quasi mezz’ora l’inizio per compiacere quella parte cafona di pubblico che d’abitudine arriva all’ultimo momento con nonchalance (non li vedi certo affannati, i poverini!) pur sapendo di dover fare la coda al botteghino, sottoporsi ai controlli di rito, prendere posto ecc. Intanto chi è dentro, arrivato con ragionevole anticipo, inganna l’attesa dando a sè stesso del cretino…
È elementare “educazione allo spettacolo” quella che impone, ai responsabili di un teatro o altra struttura, di rispettare l’orario stabilito (accade nei paesi civili), oltre il quale e senza deroghe i ritardatari cronici se ne andranno a casetta loro e sarà un vantaggio per tutti].
 
Sara Di Giuseppe - 1 Agosto 2021