26/01/20

“La bravura dei cani”

13ª Coppa Italia di “Caccia con cani da seguita su volpe” 
a Ripatransone (18 e 19 gennaio 2020)
 
“La bravura dei cani”

Il grande errore di ogni etica è stato sinora quello di immaginarsi di avere a che fare soltanto coi rapporti tra uomo e uomo. Invece il vero problema riguarda la sua attitudine verso il mondo e verso tutta la vita che entra nel suo raggio di azione . Un uomo è morale soltanto quando considera sacra la vita come tale, quella delle piante o degli animali altrettanto di quella dei suoi simili
Albert  Schweitzer

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         Fra le dichiarazioni rilasciate dagli organizzatori della nobile manifestazione ripana, la più grottesca e sinistra è quella secondo cui “obiettivo della caccia alla volpe non è uccidere volpi ma testare la bravura dei cani nello stanarle”. Così dicono, rimanendo seri. 
E - se ci fosse rimasto il dubbio d’aver capito male o di stare sognando - così proseguono: Le volpi vengono stanate dai cani, che poi le inseguono, e dai cacciatori. C’è anche la possibilità di uccidere l’animale ma è una scelta che viene fatta in rari  casi.

       S’indignerebbero pure i cani - lo faranno quando sapranno leggere, solo questione di tempo - nel vedersi, come noi, trattati da diversamente intelligenti, ma intanto: qui raccontano ancora la balla spaziale dei cacciatori-tutori dell’ambiente, a cui fingono di credere solo i cacciatori stessi, i politici a caccia (ops) di voti e le numerose categorie variamente interessate all’appetitoso business, con buona pace di civiltà, umanità ed etica, merce con la quale - come con la cultura secondo qualcuno - non si mangia.
  
      Tutti noialtri continuiamo a chiederci se costoro ci sono o ci fanno. Perché a siffatte anime belle – quelli che per fini elettorali, quelli che ci guadagnano, quelli che gli piace tanto tanto sparacchiare – torna comodo ignorare realtà confermate da evidenze scientifiche e da rigorosi studi ambientali ed etologici, e cioè:

1) l’assoluta inutilità del controllo mediante uccisione di alcune specie presuntamente in sovrannumero (cinghiali, volpi ecc.) la cui eliminazione non abbassa minimente il tasso riproduttivo, per un naturale meccanismo auto-regolativo della specie stessa;  
2) l’esistenza e praticabilità di efficaci e incruenti mezzi di contenimento - spostamento in altra sede, sterilizzazione ed altri - alternativi all’uccisione;
3) l’alterazione prodotta dalla riduzione di alcune specie necessarie - come appunto le volpi - all’equilibrio dell’ecosistema; senza contare le tonnellate di piombo rilasciate ogni anno nell’ambiente dalle migliaia di cacciatori  come cacio sui maccheroni.

L’elenco può continuare.
 
       “Colpisce soprattutto la presunzione con cui l’uomo si muove per risolvere problemi all’ambiente creati da lui stesso. Nessun dubbio, né riflessione, sui metodi alternativi alla caccia” (Cristina Franzoni, in Bailador n.42).        
         Eppure, di fronte a così sconsiderata barbarie, nelle polemiche di questi giorni sulla manifestazione ripana sembra che per i responsabili - e per la stampa che generosamente ne accoglie le esternazioni in lenzuolate cubitali e acritiche - tutto il problema consista nella disputa sull’effettivo  numero delle volpi uccise nella due giorni di mattanza: “solo” due secondo gli organizzatori, da quaranta a cinquanta e più secondo altri…  Discutono di due o quaranta, quando anche una volpe ammazzata è una volpe ammazzata di troppo!
E si parlano addosso, con pensoso filosofico ragionare (tipo: è tutto legale, s’è sempre fatto, mbe’?) nella posa plastica dei santimartiri arrostiti sulla graticola dell’odio sociale.

Come se fosse etico, morale, umanamente accettabile, inseguire essi stessi e far inseguire dai cani le volpi terrorizzate, braccarle nella tana coi loro cuccioli, decidere poi se lasciarle sbranare vive dai cani o ammazzarle sparate, o magnanimamente lasciare che muoiano da sé, di terrore.
Come se questa non fosse ferocia legalizzata, al pari di ogni forma di caccia e più ancora perché alla cretineria unisce l’incrudelimento
.
Come se fosse normale l’adesione delle istituzioni a un tale macello, e per il sindaco del luogo partecipare - così affermano i giornali - alla presentazione degli intemerati eroi iscritti alla gara di mattanza, salvo poi lui, il sindaco - ma non il giornale – smentire d’esserci stato.

         La bravura dei cani
- quella vera, fatta della dignità e fierezza che sono inscritte nel loro codice genetico - sarebbe allora quella di ammutinarsi contro i padroni - lo faranno, è questione di tempo  - e, con repentina inversione ad “U” buttarsi, in tutt’uno con le cugine volpi, all’inseguimento degli sparatori, in un elettrizzante dantesco contrappasso. Si apriranno scommesse su chi correrà più veloce.
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“L’uomo tratta questi esseri in cui vivono anima, sensibilità e intelligenza, con tutta l’inimmaginabile ferocia di cui le sue mani sono capaci”.   [G. Ceronetti – “Aquilegia”, 1988]
 
Sara Di Giuseppe - 26 Gennaio 2020


23/01/20

"RIVERBERI"

Giuseppe Franchellucci   Violoncello Solo

FERMO – Terminal Mario Dondero     Sab 18 gennaio 2020  h 18               tam



VIOLONCELLO FOTOGRAFICO                  [foto di Andrea Del Zozzo]



            Non lo vediamo, ma al concerto stasera c’è anche Mario Dondero. Figurati se manca, nella “sua” Fermo, nel “suo” Terminal, invisibile ma presente come in ognuna delle sue 80 foto-reportage di vita ordinaria nel mondo “ritrovate” - ma “segnate” da lui stesso - ben allineate sulla parete di mattoni lunga. Chissà, potrebbe essersi istintivamente nascosto “dentro” quel gruppetto di laboriosi fotografi; tra le file del pubblico (la macchina fotografica sotto la giacca); tra i rari passanti che dall’esterno sbirciano attraverso le magrissime finestre; dietro l’isola curva dell’ingresso, ad osservare non visto chi entra, e magari a fotografarlo… O forse è lui che si diverte laggiù a creare quegli improvvisi rumori d’ambiente – scricchiolii, imbarazzati colpi di tosse, porte o portiere di auto che si aprono/si chiudono – cioè quei “riverberi di scena”… che stasera servono. Insomma Dondero qua c’è di sicuro, ma non cercatelo. Potrebbe, ed è più probabile, che stia proprio “dentro” il violoncello di Giuseppe Franchellucci. Lo si sente.

            Franchellucci e (è) il violoncello. Che lui suona “interagendo e giocando” con il riverbero non trattato di questo originalissimo spazio minimalista, con un’acustica che non è quella di un teatro, ma qui non è un difetto. Perfino il ronzio dell’aria condizionata dentro il lungo tubo sopra le foto si integra a quella sorprendente musica-non-musica. Musica non scritta e non letta. Improvvisata. Fantasiosa. Ardita. E ovviamente preparata, calcolata, studiata, sperimentata. Le dissonanze mai stridenti al posto delle armonie, gli arpeggi saltanti, senza gabbie melodiche: non-suoni di vario registro, mai rumori.
Musica destrutturata, in fuga dai calcoli matematici della classica prevedibilità, non cantabile, più jazz del jazz, più contemporanea del futuro. Quasi sempre senza cadenza né ritmo. Successione di note isolate, anche in acrobazia, vaganti, stirate, striscianti, da meditative a descrittive. Come musica di viaggio per strade poco trafficate, che partono e arrivano in terminal sperduti più finlandesi o canadesi che mediterranei.
Non sai precisare quello che senti, ma immagini paesaggi piatti di laghi con poco vento, o di fiordi nebbiosi, silenzi di ultrasuoni e luci boreali: come quelle, involontarie, che qui in alto si autoproiettano sullo spoglio fondale senza quinte, balletto sospeso di artiche ombre cinesi. Melodie senza melodia. Dalle quattro corde Franchellucci estrae l’anima buona e meno buona, prendendole in ogni maniera, anche a schiaffi (non con l’archetto) fino a quando la corda tocca il legno, e ne escono brividi di frequenze che serpeggiano ed evaporano tra il pubblico disposto per lungo, come in un treno - autobus - aereo, alla cui guida c’è Franchellucci. Toh, finestre solo da un lato… ma siamo ancora al terminal - “luogo di arrivi e partenze”, non staremo mica fermi a Fermo…

           Concerto per violoncello-solo, da ascoltare guardandolo: fiamme di musica immaginifica, multicolore e amichevole, per una volta liberata dall’impiccio di altri strumenti, inventata e prodotta senza tecnicismi, fotografando solo i pensieri, propri e di chi ascolta. Con la complicità di Dondero e di “Riverberi” in libertà, cosa può combinare un violoncello “marca” Franchellucci!


PGC - 21 gennaio 2020




22/01/20

Anime smarrite, anime belle - appunti in treno

Un uomo grida a se stesso o forse alla sua famiglia lontana. Impreca in una lingua sconosciuta, certamente si dispera, infreddolito, curvo e chiuso sé stesso. Con passi sconnessi, spigolosi come i suoi capelli dritti e neri davanti al via vai indifferente della piccola Stazione. Spero non mi venga addosso, non capirei nulla, non saprei cosa fare… Il tizio si allontana bruscamente.
Salgo sul Locale e chiedo conferma della tratta. Mi siedo confortato e finalmente in viaggio.

Cerco un bagno al secondo ed enorme snodo ferroviario. Non ho fretta, ho tempo. Donne e uomini con ingressi distanti. Al tornello da gettonare c'è una signora un po' curva e non più giovane, forse per l'aspetto e i suoi vestiti lunghi e logori. Cerco l'euro ma qualche centesimo lo allungo alla portiera abusiva e precaria. 
- Signore, - mi dice - ha il borsello aperto. - 
Rispondo - Lo so, - fidandomi della mia figura dissuadente e mascolina. 
Mi lavo, esco e lei non è già più lì. Meno male, sarebbero altre parole inutili e forse qualche altro centesimo, questa volta da negare.
Attendo e fumo una sigaretta all'esterno della grande casa dei treni rossi, argentei e verdi misto-fango dei pendolari. Una passante mi avvicina: 
- Ha mica una sigaretta? - 
- No, fumo queste… da rollare. - 
La ragazza adocchia l'alta pattumiera al mio fianco, con lamiera forata e tanti mozziconi di sigarette. Alcuni sono consumati solo a metà immersi in un insieme misto di vecchia cenere e sporcizia varia, come solo nelle stazioni si vedono. C'è una sigaretta quasi intera. La prende e rivolgendosi di nuovo mi dice: 
- Hai d'accendere? - 
Niente di più probabile: - Certo! - 
La ragazza riprende il suo andamento ondulato e incerto, forse temporaneamente meno ansioso.

Vado al binario 7, sotto al piano stradale, dove c'è ancora poca gente. Manca quasi mezz'ora. Mi appoggio al muretto delle scale che portano ad altri piani della cittadella ferrata. Mi riposo nell'attesa. Un signore magro sulla settantina, ma ben portati, si avvicina per chiedermi se al binario passasse il suo treno, sempre verso sud. Confermo - Pescara. -
Risponde - Sa, ancora sul display non è comparso… e l'orario, e allora sa… 
Rispondo - Non si preoccupi, anch'io scendo e ho visto che è quello giusto. Vado a Sben. - 
Ci scambiamo dei cenni rassicuranti. 
Continua - San Benedetto, la conosco poco, ma in Ancona ci sono stato spesso e ho mio figlio lì. 
- Anch'io, - rispondo - da poco tempo mia figlia ci si è trasferita. Da dove sta venendo? 
- Da Modena, sono stato per un controllo dopo un intervento alla gola. Qualche mese fa mi sono operato sempre lì e dovevo farmi qualche esame. 
- Mi dispiace. Tutto bene ora? Positivo, anzi no, negativo? - 
- Sì, non c'è niente e sa, è stata una bellissima notizia. - 
Dal viso sereno si capiva che ne era felice, sollevato. Continua vedendomi col tabacco in mano: 
- Anch'io fumavo, ma poco poco. Sei, sette sigarette. Ma se ti deve venire, ti viene, anche se non fumi. Succede a tanti. - 
Pensavo proprio la stessa cosa. Il signore, di Bari, si sarebbe fermato a Giulianova, presso la sua seconda casa, piccola e unicamente dedicata ai giorni di mare. Ex impiegato comunale, responsabile all'ufficio ambiente, ora lontano dall'amministrazione, mi parla di De Caro, di Emiliano, delle difficoltà appena accennate e lasciate intuire della città del Levante.
Arriva silenziosamente il potente ferro argento a strisce rosse. 
Saliamo sulla stessa carrozza ma posti diversi. La conversazione finisce.

"Viaggiare in treno è, a volte e fuori dall'esperienza quotidiana, un privilegio, una scuola di confronto, conoscenza, di approfondimento, riflessione, studio, o di stupore e rammarico per le tante situazioni di disagio sociale. Una palestra fuori dai tele-schermi antichi e nuovi, fuori dalla cronaca raccontata o subita. Non ci si annoia, insomma."

Continuo il viaggio e questa volta i cambi sono finiti. Questo 'legno' mi porterà fino a casa. Non proprio, ma in prossimità, a due chilometri e mezzo. Li farò volentieri a piedi. Adesso posso immergermi in brevi letture e conversazioni al telefono con le figlie. Ecco cosa mancava nell'elenco di cui sopra: chiacchiere e pensieri con i cari, sparsi per lo stivale, amici poco frequentati e distrattamente sentiti con sporadiche e veloci conversazioni. Ne ho sempre poca voglia, la mia 'pigrizia' in questo senso è nota. Ne approfitto. 

Le ore passano, ma nel conteggio finale ne restano davvero poche. Forse neanche una e, alzandomi per prendere una boccata d'aria più fresca nello snodo d'uscita, noto meglio il ragazzone seduto vicino a me sull'altra linea dei finestrini. Mi fa capire che anche lui avverte caldo. Sbuffa e io rispondo a gesti. Capisco che non è italiano. Forse americano o tedesco? Fa lo stesso, ci capiamo per quel poco che dobbiamo scambiare. Nel frattempo sento qualcuno che grida, ma sono distratto e capisco appena che maledice e impreca contro qualcun altro. Faccio fatica perché non vedo la scena. Qualche secondo dopo mi accorgo che sta indiavolato al telefono. Mi domando: ma si renderà conto che è in treno e non a casa sua o in macchina? Chi gli sta a fianco lo subisce, e senza poter protestare! Vabbè, l'importante è che finisca 'sta sceneggiata.
Il ragazzone viene anche lui nello snodo a sgranchirsi le gambe e prendere una boccata d'aria fresca. Mi fa capire che viene da un viaggio lungo. Portogallo e poi qualche altra cosa come una sosta in Liguria. Adesso scenderà a… San Benedetto del Tronto. Lo ripeto anch'io scandendolo, e aggiungo: long name! Viene per lavoro, non capisco quale, e viene dalla Norvegia ma non afferro la città. Tanto oltre Oslo non conosco. Come moltissima altra geografia.

Arrivato. Saluto il signore di Bari e il ragazzone norvegese. Ho 20 minuti di strada a piedi. Recupero la tregua con i polmoni e mi accendo una sigaretta dopo una pausa per la rollata. Sono a casa, sono fresco di oltre 10 ore di viaggio ma non sono affatto stanco. Sono stato in un posto nuovo, sono stato con mia figlia, ho parlato piacevolmente con amici e familiari. Ho percorso 1.200 chilometri chilometri in due giorni e mezzo, prima in auto e poi in treno. Ma non c'è paragone tra i due mezzi.


Francesco Del Zompo - 22 gennaio 2020






18/01/20

Più stupidi che furbi

[Ripatransone, 18 e 19 gennaio 2020: 
13ª Coppa Italia di caccia alla volpe]


“La caccia alla volpe è una cosa praticata da sciocchi che corrono appresso a una cosa che nemmeno si mangia”   (Oscar Wilde)

          La Legge:
“In Italia la volpe è un selvatico protetto. Però è cacciabile”. Anzi, può essere uccisa anche dove la caccia è vietata. E tutto l’anno, non solo in certi mesi. Caccia libera, senza calendario. Stupidità legislativa che fa comodo a tanti. E se a qualcuno per caso non sta bene e fa ricorso - per esempio al Ministero dell’Ambiente - quello risponde con serenità olimpica che “le questioni di natura etica esulano dalle sue competenze” (sic).

E i paradossi non finiscono qui. Per continuare a divertirci facendo i gradassi coi più deboli (del resto è lo sport nazionale) ci siamo inventati la favola che la volpe è un animale dannoso. “Ma non è vero, siccome i cacciatori vogliono continuare a uccidere comodamente lepri e fagiani immessi artificialmente nell’ambiente,  uccidono le volpi che altrimenti li caccerebbero loro”. (cfr.“Natura”, rivista di ambiente e territorio dell’Arma dei Carabinieri)
Poi: nelle gare di caccia alla volpe, quando si sguinzagliano le mute di cani (mute da 2 a 8) che devono trovare la tana dove ci sono i volpacchiotti al caldo, con mamma volpe che non scappa ma li difende fino alla morte, e puntualmente succede l’allegra carneficina, “si prefigura il reato di maltrattamento di animale (cuccioli sbranati nelle tane, cani feriti ecc.), art. 544 c.p.”.  Però i Carabinieri non arrivano.

Ma se l’hanno capito perfino gli inglesi, che la caccia alla volpe è una stupida barbarie!
Infatti l’hanno proibita, per civiltà. Noi no. Mascherati come a carnevale (mimetiche divise, corni inglesi…) noi ci facciamo pure i campionati nazionali, le Coppe Italie in tutte le regioni in tutte le province e in tutti i paesi dove potrebbe aggirarsi anche una sola volpe smarrita, con regolamenti talmente dettagliati pomposi e saccenti che a leggerli verrebbe da ridere, se non si trattasse di regolare autentici massacri: esseri viventi sbranati da cani, o sparati. E paraculi, questi regolamenti: le volpi uccise non vengono mai nominate, come fossero entità astratte (per non turbare i pargoli?), però fanno punteggio!

          Naturalmente soddisfatti i nostri sindaci: con ancora in bocca il pane benedetto di Sant’Antonio Abate protettore degli animali, con luminosa coerenza sono già sui calanchi ripani a presenziare al massacro delle incolpevoli volpi. Non senza aver prima sguinzagliato le veline illustrate ai giornali-da-riporto, ubbidienti e fedeli più dei beagle. Neanche abbaiano.


PGC - 17 gennaio 2020



06/01/20

La forza di un sogno

CIRCUS ABYSSINIA

“ETHIOPIAN DREAMS”

Diretto da Bichu Tesfamariam
Con The  Abyssinia Troupe
Coreografie Kate Smyth
Prodotto da Bibi & Bichu Tesfamariam

Teatro Storchi - Modena            31 dicembre 2019  h21

 

LA FORZA DI UN SOGNO


        “Non c’erano circhi con cui fuggire”: non in Etiopia, per i fratelli Mehari ("Bibi") e Binyam ("Bichu") Tesfamariam, che giovanissimi hanno fondato il "primo vero teatro-circo etiope internazionale".

         Nessun circo era mai arrivato in città e così - a 14 e 15 anni rispettivamente - il sogno dei due giocolieri-ragazzi si sposta dalle strade di Addis Abeba alle strade del mondo, fino al Brighton Fringe Festival che li consacra, e poi fino a New York e al New Victory Theatre della 42° Strada, nel cuore di Times Square, e fino al regista Tim Burton che li nota in Gran Bretagna e li ingaggia per il suo film “Dumbo”.

           Le meraviglie dell’arte circense le avevano sognate e amate mentre da soli scolpivano nel legno le loro mazze da giocoliere, pesanti come la condanna sociale che in molte culture connota la scelta di “fuggire col circo”: oggi sono imprenditori di arti globali, completamente autoprodotti - una rarità nell’ambiente artistico internazionale - e la devozione al mestiere è diventata cultura, radicata nella terra d’origine ma tutt’altro che arcaica, e la passione realizzata si è fatta strumento di promozione sociale ed economica, fonte di reddito, valorizzazione di giovani talenti che il successo mondiale premia con meritata generosità.
Dalla ventina di studenti della scuola di circo da loro fondata, fino ai 150, fino alla formazione di questo straordinario Circus Abyssinia: favola moderna nella quale la magia si cala nella realtà di un paese, ne esalta la ricchezza espressiva e la mostra al mondo, e un sogno rivoluzionario pone altruisticamente le basi di un cambiamento sociale, si fa incoraggiamento e conservazione di una comunità, delle sue radici culturali e artistiche.

          Ed eccoli stasera, gli otto ragazzi e le cinque ragazze del Circus Abyssinia, in questo teatro modenese così bello e raro nei suoi legni vetusti e che oggi sembra ringiovanire, in mezzo a tanto spettacolo “spudoratamente gioioso”.
Perché questo sono, i 75 minuti del nostro viaggio incantevole e stravagante: divertimento e gioia declinati nell’arte; geografia di musiche, tradizioni, colori che la nostra spenta realtà occidentale ha per sempre annegato nel conformismo
.

       La strepitosa, quasi irreale abilità di ciascun artista disegna architetture corporee, scene visionarie e numeri ad alto rischio: coreografie acrobatiche quasi impossibili che appaiono invece gioco facile e scanzonato, dove l’eccellenza di ciascuno diviene prodigio corale che fonde arti circensi classiche e identità etiope. Dal più giovane al più collaudato degli interpreti, un fascino carismatico ed esuberante fluisce ininterrotto e lascia intuire dietro ogni gesto lo studio attento e certosino, la determinazione che si amalgama alla passione e modella l’artista vero.

        Brindano con noi al nuovo anno, con il pubblico che li circonda del calore riservato agli amici, e hanno sorrisi giovani che abbagliano. Ci regalano la forza del loro sogno e ci sorprendono, così "nuovi" e così diversi dalle nostre comode realtà; così capaci di difendere le proprie radici e il proprio futuro - e quelli di un'intera comunità - senza lasciarsi omologare, ma "solo" con sacrificio e passione, con studio e cultura.


Sara Di Giuseppe - 5 Gennaio 2020



04/01/20

Ripa perde i gioielli di famiglia

        Ci siamo salutati con brindisi, aperitivi e olive ascolane – meglio, ripane – di mamma Chiarina. E di sera, fino a tardi, con allegre tombolate dove terno-cinquina-tombola si premiavano con pezzi pregiati del locale, non con soldi. Sono stati momenti sospesi, emozioni, ricordi. Ma tra gli sguardi e le voci c’era anche tanta morbida e affettuosa malinconia, in questi “festeggiamenti” d’addio alla premiata ditta ROSATI-osteria-fumeria-bar-trattoria-ristorante, dopo quasi 60 anni di “onorato servizio” alla civiltà ripana.

        Ripa continua a perdere i gioielli di famiglia, ma nessuno se ne cura. Se fossimo città, o anche solo un volgare paesotto sulla costa, al posto di ROSATI spunterebbe subito - con gioia di tutti - un franchising di mutande firmate, un accecante punto telefoni, un negozio d’abbigliamento straccione o di scarpe (mai di libri), un adescoso B&B, un Compro Oro… una qualsiasi attività spazzatura. L’ennesimo non-luogo.
Qui invece guarderemo per sempre questa serranda abbassata, come tante altre in paese. Da un lato meglio così, che il peggio di cui sopra. Ma non consola. E’ che da troppo tempo ormai, da quando la vita si è imbruttita, ogni cambiamento è in peggio. Ci facciamo male da soli.
Non ci rendiamo conto - la politica, soprattutto, non si rende conto - che è un danno immenso per tutti, un peccato senza assoluzione, perdere certi riferimenti che hanno formato la socialità e il carattere del luogo. Perché è anche perdita di stile, di decoro e arredo urbano, di gusto, di calore umano. 

Di storia insomma. Cose che non si trovano per caso, né si comprano.

        ROSATI era più di un bar: era il nostro bistrot, il nostro pub, il nostro “Piccolo Teatro” indigeno, con tracce di Francia, d’Inghilterra, d’America. 

Una dimora amica invecchiata con eleganza, di gusto vintage come si dice. 
Alle pareti gli antichi manifesti d’Opera dell’800, le stampe pubblicitarie futuriste, le réclame e i loghi di whisky e cognac prestigiosi, di vini e birre come si deve, di torroni Vergani; i grandi specchi bronzati alla Moulin Rouge; le vetrinette con libri illustrati di storia locale, scatole metalliche disegnate in bella calligrafia, bottiglie artistiche, ricordi di viaggio, acquisti mirati… (e pure la “Tabella dei Giuochi Vietati”, del 1963!).
E le vissute sedie di legno, il solido bancone, le mattonelle rosse consumate del pavimento… e il profumo di caffè, battuto solo da certi stuzzicanti odori di cucina, e le voci chiarine, là dietro… E la musica, quanta ce ne sarà stata… immagino profondi giri di blues ubriaco, come sottofondo, alla Tom Waits.

        Adesso, c’è chi cambierà malvolentieri itinerari abitudini e orari, chi accentuerà il proprio isolamento chiudendosi in casa un po’ prima, chi addirittura smetterà gradualmente di parlare, litigare, pensare, mancandogli quell’atmosfera “open” eppure più familiare di casa propria.
Certo non è un funerale, ma “è come se ci avessero tolto un pezzo di cuore” (copyright “Carletto”).
L’ultima sera del 31 però, tra giovani e meno giovani, in braccio ai genitori c’era anche Ginevra-anni 1, sempre sorridente e soddisfatta a smozzicare le olive di Chiarina. Incredibilmente un buon auspicio, per il 2020 e oltre, nonostante l’aria corrosiva dei tempi, no?


“Avec le temps… Avec le temps, va, tout s’en va”  (Léo Ferré, 1971)

PGC - 2 gennaio 2020