22/10/16

TROMBANDONEON ®. Paolo Fresu & Daniele Di Bonaventura


Due strumenti fusi in uno: il Trombandoneon. Va solo ad aria naturale, aspirata o spinta (sopporta l’aria condizionata). Niente elettricità, niente diavolerie, niente trucchi. Funziona, cioè suona, se gli si premono i tasti rotondi mentre gli si dà l’aria giusta. Ha due “corpi” indipendenti, staccati, uno più bello dell’altro. Non si toccano mai, forse lo desiderano: uno volteggia brillando, l’altro si accuccia e si allunga a dismisura… In compenso si guardano sempre, non si perdono mai di vista.

       Il Trombandoneon è agile, non ingombra come un contrabbasso, non pesa come un pianoforte, non è immobile come un organo di chiesa, si trasporta facile: bastano due trolley da RyanAir. Strumento più unico che raro, inventato e costruito dalla Premiata Ditta Paolo Fresu & Daniele Di Bonaventura.
       E’ vero che in giro ce ne sono di simili, sai com’è la concorrenza, ma avendo tutti qualche piccolo o grande “difetto di fusione” non sono perfetti come questo. Fusione che non ha ragioni fisico-chimiche o matematiche, né dipende dalla qualità dei materiali o dalla temperatura, e neanche dalla serietà della fabbrica, dal costo… ma solo - guarda un po’ -  da chi alla fine manda l’aria e preme i tasti! Dalla qualità umana, dall’intesa spirituale dei due che suonano. Pare facile.
       Sicchè oggi, è dimostrato, l’unico Trombandoneon è quello di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura. Diffidare delle imitazioni. Se vi impegnate, potete trovarlo “nei migliori negozi di musica” o ai concerti. Soddisfatti o rimborsati.

Noi, ieri sera, dal Cotton Lab siamo usciti felici.

PGC

21/10/16

Il Di MARTE-Dì di Vincenzo Di Bonaventura. V.V. Majakovskij: BENE! (Chorosciò!) 1927


Stasera c’è anche la dolce Toffee bianca e miele. Inseparabile dal suo Vincenzo, di Vladimir V. Majakovskij sa tutto a memoria, educata e vispa scodinzola il giusto, si concede felice alle coccole.
E ci sono i bravi musicisti Igor e Fabrizio, strumenti e ritmi gustosamente accordati al linguaggio scenico del nostro attore-solista: abbiamo tutto il meglio, in questa serata seconda della trilogia su Majakovskij.
Pubblico di soli aficionados, meno dei manzoniani venticinque; non istituzioni, non giornalisti, non notabili e bellagente (“…che farsene di quella ciurma / di chiacchieroni?” V.V.M.).
Ci furono tempi di leggenda / ma sono passati”: il poema Chorosciò (Bene!) precede di soli tre anni il suicidio (Il tempo è qualcosa d’insolitamente lungo); scrittura d’intervento che lacera la trama stagnante di una società umiliata e offesa, che inchioda la matita sui fogli perché “il fruscio delle pagine sia come il fruscio delle bandiere sul fronte degli anni”.
Vincenzo non recita Majakovskij, lo vive. Lo parla, lo suona, lo canta; lo balla perfino, con passi e movenze di lontane danze folkloriche. E’ teatro oltre il teatro.
E’ un mondo contadino - quasi arcaico pur se solo del secolo scorso - quello che Vincenzo narra prima di iniziare, ed è il suo, è terra d’Abruzzo. Dalla memoria …un filo s’addipana:  il nonno e il suo “dialetto feroce”; a un angolo della bocca il sempiterno sigaro che, asportato il tumore, è solo passato all’angolo opposto; il gesto perentorio del bicchiere scosso dopo la bevuta, “come fanno i russi”; il lavoro nei campi coi “vecchi Landini di una volta che sembrava non avessero il motore”; il vomere trainato dalle spalle possenti dei buoi e il brontolio soffice della terra rivoltata; “l’idea dell’aratro” assaporata da ragazzo e non più ritrovata. (Ci vorrebbe più consapevolezza dei nostri padri e delle nostre madri, dirà più tardi congedandosi).   


  E alla terra si rivolge Majakovskij, perché puoi dimenticare “il tempo e il luogo dove hai messo su pancia e gozzo”, ma non puoi dimenticare “la terra con la quale hai diviso la fame” (Siedono i padri /con le barbe simili a scope: / ognuno di essi / è un saggio: un poco ara la terra / e un poco scrive poesie).
Così, il ricordo si fa poesia e la poesia ricordo: il mondo che pullula sanguigno nel filo che Vincenzo addipana è solo a noi più vicino, nel tempo e nello spazio, di quell’altro che “asciuga il sudore con la manica” e grida nei versi del poeta ribelle, e muto e febbrile irrompe in  Ottobre, “il film di Ėjzenštein sulla Rivoluzione”.
Due giganti, il poeta e il cineasta, celebravano i dieci anni della Rivoluzione, in quel 1927 in cui essa era ancora promessa di vita e vita promessa (La felicità incalza / e non per voi dovremo rinunciarvi. / Incantevole è la vita, / sorprendente): non è ancora il tempo in cui per il poeta sarà “all’improvviso come se non ci fosse nulla per cui vivere” e “alla fine quella pallottola [del suicidio già tentato] andrà a segno” (Lili Brik). 
Dietro, sullo schermo, l’epico affresco di “Ottobre”: rivoluzionario e violento, sarcastico e commovente, lirico e barocco.  Mi sento trasparente – dice Vincenzo – e forse è vero, perché la sua figura e la sua voce, la poesia, sono ora un imponente tutt’uno con le immagini alle sue spalle e con la musica; questa dà voce alle mute scene di massa, accompagna con ironico saltarello le divise del potere in marcia, sottolinea il visionario sperimentalismo e le allegorie, le figure riprese dal basso, quasi dal fango - “attori” reclutati sul posto - che giganteggiano pur nella miseria dei corpi e dei volti allucinati.


E’ la stessa stralunata umanità che affolla i versi di Majakovskij: umiliata nel sopruso e nella fame; il pizzico di sale elemosinato – perché “è capodanno, domani” – che s’è gelato tra le dita; il lutto sotto l’ondeggiare delle bandiere abbrunate, il sangue degli uccisi ancora caldo; la febbre tifoidea su Mosca mentre “sui boschi s’inerpica strisciando il sole-pidocchio”…  Ma ora il Palazzo d’Inverno è circondato, s’invadono i saloni di velluto, i maestosi corridoi;Kerenskij fugge, fuggono i ministri - profumo di barbe fatte di fresco – e cadranno come pere mature nascosti sotto le cravatte, Fuori! / il vostro tempo è finito, e ora sulla testa “il cielo azzurro-seta non è mai stato così bello”.
Amo l'immensità / dei nostri piani, / lo slancio / dei loro passi chilometrici, e il “canto dei nostri dolori, delle nostre vittorie, dei nostri giorni quotidiani” è arrivato fin qui, oggi, oltre il tempo e la storia: e s’è fatto teatro, luogo di tutti e voce che ci salva, spazio senza tempo di cultura e civiltà.

Sara Di Giuseppe

Cotton Jazz Club. Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, la bravura e la fantasia, l'eleganza e la poesia



Facciamo il caso che due musicisti, uno sardo l'altro marchigiano, decidano di suonare insieme. Secondo voi quali sarebbero i loro strumenti? Paolo Fresu, sardo di nascita e di cittadinanza, è uno dei trombettisti più famosi al mondo. Un sardo, quindi, cosa avrebbe potuto suonare se non uno strumento a fiato? Basti pensare che se materialmente i sardi non lo posseggono, usano la voce, la base delle cornamuse, la melodia delle ciaramelle e le sonorità che ne vengono fuori sono da brividi. L'altro è Daniele Di Bonaventura, marchigiano (fermano) di nascita e di cittadinanza, maestro riconosciuto del bandoneon. Ora, sempre secondo voi, se un marchigiano deve usare uno strumento cosa sceglie legato alle tradizioni della terra di origine? Il contrabbasso? No, la fisarmonica e i suoi figli piccoli, il du' botte o il bandoneon, che sarà pure di origini tedesche e sostituiva l'organo nelle chiese povere ma si è affermato in Argentina come lo strumento della tango-perversione ma, nel bandoneon, quanto di du' botte c'è!
In una serata che già dai nomi si prospetta magica, tutto ci saremmo aspettati meno che venisse fuori la poesia, e senza l'uso delle parole. Si inaugura l'auditorium del Cotton Lab, un intero edificio dedicato alla musica e al suo insegnamento, un luogo che si preannuncia come l'unico, in Provincia, in grado di essere polifunzionale, una vera e propria oasi in un deserto culturale che da tempo è più segno d'imbarazzo che di metafora del nulla. “E non sarà solo musica”, ci dice Emiliano D'Auria che del Cotton Jazz Club è il direttore artistico, un chiaro segno di come la cultura regni in questo angolo di mondo caldo e accogliente.
Il concerto di Fresu e Di Bonaventura è straordinario e lo diciamo subito a scanso di equivoci. Loro sono musicisti dotati di una classe sopraffina e un'eleganza che non si riscontra facilmente in un mondo nel quale spesso i musicisti si guardano allo specchio e si dicono “sei unico”. La melodia impostata da Fresu, trova in Di Bonaventura il giusto alter ego. Nessuno di loro è il solista, nessuno l'accompagnatore perché la maestria con la quale si propongono li pone sullo stesso, altissimo livello. Ce lo aspettavamo ma ora ne abbiamo la conferma.
Propongono un giro del mondo in musica in ottanta note, in mille sfumature, in un milione di sensazioni che destano e rendono vive con un tocco (magico) dei loro strumenti. La tromba o il flicorno o gli effetti che Fresu addomestica con un gusto che gli impedisce di andare sopra le righe, sono, da una parte, la descrizione del tema guida, della linea melodica, dall'altra il riempimento di pause e spazi che completa una esibizione di un livello decisamente superiore. Nel concerto c'è di tutto, si spazia da O que serà di Chico Buarque a Non ti scordar di me di Furnò/De Curtis, per arrivare a Que reste-t-il de nos amours di Trenet fino al tema conduttore di Torneranno a fiorire i prati, il film di Ermanno Olmi che Di Bonaventura e Fresu hanno musicato. Lo schema è quello: si parte con la linea melodica chiara, quasi sillabata, e si viaggia per improvvisazioni che sanno di genialità ma soprattutto di eccellenza. Il loro accordo, la loro intesa è pressoché perfetta, mai una sbavatura, mai una nota fuori posto. Non riusciamo a percepire neppure uno straccio di errore (di cui scrivere divertendoci sadicamente un po') o una nota sbagliata in svisature che sanno di funambolismo e di prestidigitazione, di padroni assoluti dei rispettivi strumenti, di maestri ineguagliabili di quella musica che si scrive con la M maiuscola.
Questo concerto ci ha rasserenato, riconciliato con quel mondo dello spettacolo troppo spesso devastato da “geni incompresi” o figli di un marketing senza scrupoli e pudore. L'auditorium, stracolmo, ha fatto il resto con una partecipazione rara da vedere in un concerto Jazz, e che ha fatto dire a tutti (abbiamo il vezzo di tendere l'orecchio dopo il concerto per ascoltare il parere del pubblico che spesso non condividiamo): serata magnifica. E tanto è stato.

Massimo Consorti

13/10/16

Da Fo a Dylan, ma non c’è da cantare


        Potevano le radio e le televisioni aspettare almeno un giorno, ad ingolfarci di pezzi diDylan che non mandavano più da decenni.

        Pur amando (un tempo) Bob, nel passaggio di mano del Nobel penso che ci abbiamo perso.

         E’ che oggi si danno premi quasi a tutti, i premi non sono più quelli di una volta, non c’è più decoro, solo mercato.

      Perfino ai campioni di motociclismo e di evasione fiscale potrebbe non bastar più una Laurea ad honorem. Oltre a DOCTOR, ci toccherà ammirare sul culo delle tute anche la scrittaNOBEL?

       Quel che oggi intristisce davvero è vedere certi “bugiardi patentati governanti e politici” piangere Fo, mentre in cuor loro gongolano: un NO in meno.

PGC

11/10/16

Invisibili 2016. La nota di una poetessa. Laboratorio Teatrale Re Nudo: ”Frontiere”, con Piergiorgio Cinì e Sergio Capoferri. La voce, il suono, il volo



Il Teatro dell’Olmo, nell’ambito dei Teatri Invisibili di quest’anno, ancora una volta ci riserva le sue magie. Nello spazio quadrangolare circondato da sipari neri ieri sera abbiamo trovato a vegliare due microfoni e una fisarmonica. Il tempo di aspettare l’ultimo spettatore e lo strumento di Sergio Capoferri avrebbe incontrato una mano sensibilissima, e lo sguardo di Piergiorgio Cinì avrebbe dato il via alla musica sommandosi alle parole in un’alternanza ricca e delicatissima, mentre il tema “Frontiere” avrebbe incontrato la voce, la classe, la compostezza, l’emozione di Piergiorgio, che aveva fatto suoi i versi e le prose di poeti e scrittori, dividendo tra loro il suo pane che è pane da sempre: l’interpretazione. Nella voce di Piergiorgio si cala l’indicibile, nelle sue assonanze e dissonanze trova posto la dignitosa commozione, una maestria che è diventata perfetta negli anni, e che riesce a porgerci i temi, le trame con estrema discrezione, senza mai forzare: anzi, via via che la recitazione prende il volo, questa voce che abbiamo imparato ad amare nel tempo si flette, si moltiplica, si conferma, si nega magicamente. Ieri sera portava con sé la memoria delle tragedie umane nel Mediterraneo ma anche un punta di humour tragico, che ha fatto di questa versione il caleidoscopio generosissimo di un impegno umano, della sua forza e insieme del senso d’impotenza dell’Arte a risolvere la vita, e la mestizia che ne scaturisce. Intanto le parole correvano sul filo della musica e sul filo del nostro sogno cosciente, nell’ombra di un continuo smarrito stupore davanti al mistero della sofferenza e alla fiducia in una speranza che, verso la conclusione, spunta come un fiore di campo dall’anima desta della scrittura. 


Il tutto veicolato dalle note a volte esili, a volte travolgenti, sempre struggenti di uno splendido Sergio Capoferri. Musica e parole vegliano lo spazio dell’Olmo come un arrivederci, come la promessa di sciogliersi per noi in un altro volo.


Enrica Loggi

10/10/16

Invisibili 2016. Il gran finale. "Le frontiere dei corpi e degli spiriti" secondo il Laboratorio Teatrale Re Nudo


Ed è arrivato anche il finale con il du' botte, l'organetto caro alle campagne marchigiane. Un colpo basso perché, in quel momento, abbiamo rivisto nostra madre ballare il saltarello sull'aia e il colpo, da basso, si è trasformato in alto, dritto al cuore. Partiamo però dall'inizio.
"Frontiere" è sostanzialmente un recital a due voci. La prima, quella narrante, appartiene a Pier Giorgio Cinì, calda, ammiccante, suadente anche quando racconta di crimini e misfatti, di solitudini ed emergenze, di quel viaggio infinito che dovrebbe estirpare dal petto il dolore per le guerre e le violenze mentre, spesso, si trasforma in delirio pre mortem. La seconda, niente affatto umana e più strumentale, è la fisarmonica di Sergio Capoferri che ripropone senza mai prevaricare la voce, le melodie mediterranee, quelle intrise di mirto e origano, di salvia e basilico che accomuna sponde e culture.
I testi interpretati da Piergiorgio Cinì sono quelli di Sereni, di Magris, di De Signoribus, di De Luca, di Sciascia, di Leogrande, di 'Ngana e della Szymborska e tutti si intersecano e si mosaicizzano, si integrano e dilatano pur avendo, nella maggior parte dei casi, come spunto di partenza il mare. Un po' ruffiano? Forse sì, come le cartoline dei tramonti, ma terribilmente efficace perché, almeno per quello che riguarda la nostra penisola, sul mare viviamo e sul mare spesso moriamo.



Questa sera le frontiere rappresentano più di una linea geografica delimitatrice di spazi, raffigurano una dimensione ideale e immateriale, sono percettibili e diafane. Sono le frontiere dell'anima e delle sensibilità, della capacità di sentirsi donne e uomini messi di fronte a contesti devastanti. 
Assumono la struttura dei muri che quotidianamente innalziamo per proteggerci dalle diversità che ci mandano in panico, invece di considerarle confronti e arricchimenti. Sono la forma violenta del nostro essere "occidentali" chiusi in casa a rimbecillirci con la tv, quando basterebbe aprire la porta per far entrare aria fresca e un po' di umanità. I bambini non concepiscono la frontiera, è una dimensione che non appartiene al loro mondo fatto di giochi e di corse a perdifiato per i viottoli di campagna e sulle dune del deserto. Per i bambini la frontiera rappresenta un concetto inafferrabile, semplicemente, nel loro mondo, non esiste. 
Pier Giorgio Cinì ci trasferisce i testi con tutto il calore e la passione che meritano, con il suo modo di fare asciutto e mai sopra le righe. Bastano un gesto o una increspatura della fronte per trasportarci dentro la storia e farcela vivere con la partecipazione che merita. Esibizione elegante e terribilmente "umana".


Il maestro Capoferri lo segue, e lo completa, con la discrezione che un recital così delicato merita. Purtroppo, nella nostra vita, ne abbiamo sentite di fisarmoniche che urlano, quella di Capoferri non lo fa e, insieme al tocco leggero, mette quella sensibilità che permette a un musicista di fila di essere un solista. Se un appunto ci sentiamo di muoverlo, riguarda l'esecuzione della Toccata e Fuga in re minore di Bach. Nell'immensa difficoltà che un adattamento per fisarmonica comporta, forse un altro anno di studio lo porterebbe a un livello decisamente più alto.
Finisce così la 22 edizione dei Teatri Invisibili. Un solo rimpianto, se fosse durata di più sarebbe stata "cosa buona e giusta" (ma forse lo dice qualcuno più in alto di noi).

Massimo Consorti

PS. Chiedo scusa per la qualità delle fotografie. Sono un giornalista fai da te che di solito scrive solo.

09/10/16

Invisibili 2016. Due spettacoli, due lampi, parecchi tuoni e un fulmine



Lo diciamo subito a scanso di equivoci, è stata una serata all'altezza delle aspettative che abbiamo da un po' quando seguiamo gli Invisibili. Ieri sera abbiamo respirato la ricerca, la voglia di stare in scena, la passione. 
Gli spettacoli, uno alle 20 al Teatro dell'Olmo e uno alle 22 al Teatro Concordia, ci hanno regalato due performance ricche di suggestioni, di soluzioni originali, di quella drammaturgia che spesso si pone al servizio dello spettatore in modo populista perché il popolare è un'altra cosa. Abbiamo vissuto, insomma, una sorta di altalena delle emozioni che ci ha spinto a dire: il teatro è qui e ora.
Ma partiamo dal primo (spettacolo, ovviamente). 
Ore 20, Teatro dell'Olmo. In scena il Teatro Rebis (Meri Bracalente, Sergio Licatalosi, Fernando Micucci) e i fumetti mai innocenti di Maicol&Mirco. 
La drammaturgia, curata dallo stesso Rebis, è fulminante pur nella lentezza dei movimenti scenici e nei silenzi che ne sottolineano l'aderenza con il fumetto ispiratore. Gli Scarabocchi di Maicol&Mirco, come si sa, rappresentano il tutto e il nulla, la voglia di porre l'uomo "fuori dalla storia", il politicamente scorrettissimo. L'errore sintattico sarebbe stato quello di proporre in scena le battute dissacratorie e scabrose dei fumetti, invece no, Rebis le ha interpretate, interiorizzate e poi reso pubbliche. Ne è venuta fuori una piece che ha scatenato solo risate sommesse, quasi pudiche, perché il rapporto con l'inadeguatezza del vivere quotidiano, la depressione che, prima o poi, tutto invade, l'incapacità di una qualsiasi, razionale reazione e il desiderio di morire represso dalla paura, vengono fuori in modo lancinante e provocatorio, come la vomitata in scena di Fernando Amicucci che ha il  merito di trasportarci immediatamente dentro la scelta drammaturgica di Rebis. 
Soluzioni tecniche originali, come gli spari di una pistola imitati da palloncini bucati al momento, sono uno dei cento escamotage con i quali i fumetti di Maicol&Mirco sono stati affrontati, tutti validi, tutti sorprendenti, tutti piacevolmente innovativi. 


Spendiamo una parola in più per Fernando Micucci, un hobbit (fisicamente parlando) che sembra provenire direttamente dalla saga del Signore degli Anelli. Micucci ha raggiunto una maturazione e una capacità di occupare la scena che non ci aspettavamo. Toccano a lui i momenti "peggiori" dello spettacolo, dal vomito, alle frenetiche corse (sul posto), dai balli alle incursioni nella morte alle "sconcezze" che per un attimo divide con Meri Bracalente. 
Ma è solo un attimo, come lo sparo che lo autoabbatte fulmineamente al termine dello spettacolo. Esemplare lo striscione che entra in scena poco prima dell'applauso finale: "Fuori l'uomo dalla Storia". 



Ore 22, Teatro Concordia. E facciamoci questo Giro del mondo in ottanta giorni
In scena il "Teatro sotterraneo" (Associazione Teatrale Pistoiese), e Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Mattia Tuliozi. 
Spettacolo elegante anzichenò, questo del Teatro Sotterraneo che, come leggiamo nelle note della brochure che accompagna gli Invisibili 2016, "fa parte di un progetto legato ai racconti di genere e alla narrazione popolare". Il celebre romanzo di Jules Verne, viene, di conseguenza, riadattato e attualizzato con l'introduzione di elementi contemporanei come gli aerei e gli "effetti speciali" che ne caratterizzano la proposta narrativa. La loro è una storygame, un gioco dell'oca ipertecnologico, un viaggio scandito da tessere che richiamano il Monopoli, dove non si vincono né comprano ville, case e alberghi ma tappe successive. Questo gioco, ovviamente, è interattivo e chiama il pubblico a una partecipazione attenta e costante alla messa in scena. 
Sul palco un grande planisfero che, come un vidiwall rimanda animazioni e come una lavagna, diventa l'appendi-tappe. L'interpretazione di Sara Bonaventura e Claudio Cirri è aderente alla storia narrata; veloce, a tratti frenetica, rappresenta il modo che abbiamo oggi di comunicare, un modo che se rallentato perde di colpo senso ed efficacia. 
Sempre nelle note (di cui sopra), si legge che il "testo di Verne si trasforma in ipertesto con rimandi che ricollocano il Giro ai giorni nostri", vero e magnificamente tradotto. Ecco allora l'apparizione di un aderente alla purezza della razza bianca, un membro del Ku Klux Klan che si materializza non appena si fa cenno alla multirazzialità e agli infiniti Sud del nostro pianeta; Mickey Mouse che diventa il simbolo dell'America vincente, il Panda che accompagna il trip di Passepartout alle prese con l'oppio, perché Phileas Fogg è qui con noi, stasera, e ci è sicuramente più simpatico dell'originale.
Belli i costumi, essenziale ma raffinata la scenografia, Mattia Tuliozi che, silente, interpreta un dj multimediale che dà suoni, effetti e immagini a una rappresentazione che dovrebbe girare tutte le scuole d'Italia, magari anche in più di 80 giorni.

Massimo Consorti

08/10/16

Invisibili 2016. Io provo a volare, nel blu dipinto di blu. La "tragicommedia" della Compagnia Berardi Casolari


Divertente e accattivante. Basterebbero due parole per inquadrare nel contesto degli "Invisibili" la prova della Compagnia Berardi Casolari. 
Questa (apparentemente) improbabile compagnia emiliano-pugliese, ha invece dato prova di una invidiabile sintonia, sfociata in 70 minuti di teatro "strano", originale, niente affatto scontato, godibile fino alla risata liberatoria di molte delle battute di Gianfranco Berardi.
Sullo sfondo della tragicommedia (come la compagnia ama definire gli spettacoli che produce), un omaggio al pugliese per antonomasia, che non è Al Bano ma Domenico Modugno, le cui note disegnano un tappeto indispensabile alla riuscita della piece, e che rappresentano la colonna sonora della storia di un attore in cerca di palcoscenico, anche se oggi sarebbe meglio definirlo "l'attore".
I teatri e le sale cinematografiche chiuse, riaperte come bar-ristoranti-pizzerie-jeanserie, che grazie ai contributi pubblici tornano alla loro storia originale, sono uno degli spunti che maggiormente abbiamo apprezzato perché veritiero al di là del vero, perché le assi dei palcoscenici, cambiate con pavimentazioni di cemento, sono diventate merce da barbecue di sindaci, assessori e geometri.
L'ansia di portare Amleto in un piccolo paese di provincia, si trasforma in una incontenibile frustrazione che porta l'attore a emigrare, a cercare strade e luoghi dove esibirsi, a ridursi anche a uomo delle pulizie pur di respirare l'aria sacra di un teatro che non vedrà mai le sue scene ospitare un testo qualsiasi né uno straccio di protagonista.
Lontano dagli schemi canonici delle rappresentazioni teatrali, "Io provo a volare" rappresenta il giusto mix fra teatro tradizionale e una innovazione intelligente che non prova a stupire né a essere ruffiana con lo spettatore. Perfino i frizzi e i lazzi fisici di Gianfranco Berardi (supportato sulla scena dalla chitarra del fratello Davide e dalla fisarmonica di Giancarlo Pagliara), che in alcuni momenti ci hanno ricordato i telegiornali o i comizi referendari Lis, quelli per non udenti, alla fine hanno fatto parte del gioco fino a diventarne una divertente parodia. 
Co-regista e addetta alle luci, Gabriella Casolari, co-autrice anche del testo.
Buonissima partenza, questa degli Invisibili 2016, anche se c'è da dire che difficilmente ci hanno deluso.

Massimo Consorti

06/10/16

Officina teatrale 2016/17. Mi dimenticai di Franca. Vincenzo Di Bonaventura: “Quattro modi diversi di morire per versi”. Omaggio a Carmelo Bene


Conversa col suo pubblico, Vincenzo Di Bonaventura, come fa sempre prima, dopo, e spesso anche durante lo spettacolo e ci si sente fra amici; ogni tanto tra un aneddoto e un volo di poesia, un “passaggio” in strepitoso dialetto abruzzese, quello di una volta che nessuno canta più.  
Oggi racconta di come fu folgorato sulla via di Udine da Carmelo Bene e dal suo “Quattro modi di morire in versi, Concerto per voce recitante e percussioni. Anni Settanta, una bellissima Franca udinese inutilmente corteggiata; una festa giovane e nella festa una cucina dove rifugiarsi per annegare la delusione in un bicchiere d’acqua minerale; e nella cucina, uno sperduto televisorino-ad-angolo Brionvega miracolosamente acceso da cui la voce di Bene inviava versi e suoni capaci di cambiare la percezione delle cose intorno. Così “mi dimenticai di Franca”… e quell’incontro/incanto/possessione a prima vista con Carmelo Bene rivive questa sera per noi, ristretto e fortunato pubblico del Dep Art.
Di Bonaventura ricorda e rende omaggio a Bene con una potente sintesi da quell’indimenticato lavoro del maestro, “meravigliosa cavalcata attraverso l’utopia sovietica” di quattro giganti della poesia russa pre e post rivoluzionaria, Majakovskij, Esènin, Blok, Pasternak.
Lui, Vincenzo, il suo fedele djembe, manifesti e vecchie fascinose foto, diapositive che s’incurvano, un proiettore vetusto: quanto basta perché la voce recitante sciabolando diventi grido bisbiglio ghigno, e silenzio anche, dei poeti; perché diventi l’odio di Blok per la poesia dei lamenti e degli usignoli: e i violini, struggendosi e infiacchendo / si abbandonano ai furiosi archetti; il grido di Majakovskij contro la guerra: Sopra i falò s’è fatto buio. Come sommergibile / s’è inabissata / l’esplosa Pietroburgo; la disperazione di Esènin L’uragano è passato. Pochi di noi son salvi […] Ma chi chiamare? Con chi dividere / la triste gioia d’essere ancora vivo?; l’incredulo dolore di Majakovskij per la morte di Esènin, suicida: Ve ne siete andato / come suol dirsi / all’altro mondo / Il vuoto…/ volate,/ fendendo le stelle; e quello di Pasternak per il suicida Majakovskij : Il tuo sparo fu simile a un Etna / in un pianoro di codardi e di codarde.


Passione civile, scontro frontale, eroismo del non mettersi in riga, lirismo e follia, morte e vita tragicamente unite (Felice io sono sulla cupa terra / di ciò che ho respirato e che ho vissuto // felice di aver baciato le donne / pestato i fiori, ruzzolato nell’erba / di non aver mai battuto sul capo / gli animali, nostri fratelli minori” scriveva Sergéj Esènin, ma anche “Morire in questa vita non è nuovo / Ma più nuovo non è nemmeno vivere” ).
Il lascito di questi poeti è tutto questo e molto di più: Carmelo Bene ne aveva penetrato l’anima e ne aveva estratto la forma e il suono, consacrando il messaggio che Majakovskij consegnava al futuro: La parola è un condottiero della forza umana.
L’esplosione di quella parola poetica irrompe questa sera fra noi (come un treno), frantuma il reale, scompiglia le nostre comode geometrie, ne ricompone i pezzi intorno a un’utopia che forse ci salva. Ma chissà. Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri, scriveva Majakovskij per il giovane Sergéj la cui “lingua per sempre è chiusa fra i denti”: ma questi l’aveva soltanto preceduto nel suicido, La vita e io siamo pari […] Voi che restate siate felici, scriverà prima di calare anche lui il sipario sull’amato me stesso (Ma uno / come me / dove potrà ficcarsi? / Dove mi si è apprestata una tana?).
Anche oggi, quest’epoca / è difficiletta per la penna. Eh, non soltanto per la penna: Di Bonaventura meriterebbe teatri e pubblico alla Carmelo Bene, nonostante la sua potenza abbellisca perfino i brutti interni del Dep Art (sciaguratamente strappati alla bella tipologia originaria di deposito ferroviario e “restaurati” con controsoffitti e neon da macelleria).
Più difficile “abbellire” il disinteresse della città e del territorio (per contro, qualcuno viene da lontanissimo). Fra il pubblico - una trentina, forse meno - non un giornalista, non uno del Comune, non uno da primi-posti: devono aver saputo che quelli di Blow Up non riservano poltrone alle cosiddette autorità (“abbiamo una visione molto orizzontale”, li sento dire e sorrido felice). Bravi, “quelli di Blow Up”, scelgono controcorrente, Bene e con coraggio. Perciò concludiamo con due chiacchiere, una rustica ciambella portata da casa, due tiepidi tè in bottiglia e un affettuoso vino autunnale, come si conviene tra amici.

Sara Di Giuseppe