22/09/13

Festival Filosofia. Umberto Galimberti: Il Dio dentro. Possessione

Soddisfatti come di un grattaevinci fortunato, per le sedie conquistate nella piazza già gremita, nell’attesa - lunghetta - osserviamo il popolo del festival, gli improbabili cappelli fai-da-te, i frammenti di conversazioni, i telefonici segnali di fumo da un capo all’altro, gli sconsolati non-c’è-un-posto-manco-a-pagarlo; ascoltiamo la vivace signora della fila dietro leggere all’amica l’intero rosario degli aforismi sull’amore
contenuti in un libretto edito per il festival: scrupolosa, non ne tralascia nessuno, hai visto mai, e quando arriva al dantesco infernal-cortese “amor-ch’a-nullo-amato-amar-perdona” si lancia in una vertigine di spericolate interpretazioni che manderebbero in visibilio quelli della Gialappa’s. L'amica non reagisce, se è svenuta non lo sapremo mai, perché intanto arriva Galimberti.
Attende con filosofica pazienza, il filosofo, le presentazioni di rito e la menzione del Rotary-sponsor che suona fastidiosa come un ingrediente fuori posto dentro una buona ricetta; poi parla pacato, la guancia appoggiata alla mano, come se non una Piazza Grande strapiena di pubblico seduto e in piedi fin sotto le logge avesse davanti ma un affettuoso simposio di pochi amici in devoto ascolto. Condizione dell’amore è l’entusiasmo - esordisce - nell’etimo greco [en] dentro e [theos] dio: amore è possessione, è avere “il dio dentro”. Lo capiamo da subito, che nei prossimi sessanta minuti dovremo reggerci forte, perché Galimberti ci rivolterà l’anima come un calzino e, dopo, qualche nostra certezza avrà compiuto una rotazione completa intorno al proprio asse…
Per parlare di Eros - ci dice - dobbiamo dis-locarci dalla razionalità, trovarci in uno stato di atopia [a-topos, fuori luogo] rispetto alla ragione, perché la condizione dell’amore è quella del “dio dentro”. E’ il Platone del Simposio a parlarci di follia contrapponendola alla ragione: questa si attiene al principio di identità e di non contraddizione ed è prerogativa dell’uomo; quella - la follia - è creatrice, e poeti e artisti sono in quella zona in cui in cui la ragione se ne lascia contaminare. E’ anche la condizione del bambino (egli non segue la ragione, deve essere “sorvegliato”); ed è la condizione del sogno: nell’attività onirica agisce il teatro della follia che destruttura tempo e spazio, così che nel sogno mi trovo contemporaneamente in più luoghi, in più tempi, sono io e altro da me, a riprova che non la razionalità coscienziale è la verità del nostro profondo, ma la follia.
La follia, “più bella della saggezza d´origine umana” abita gli dei; l’uomo, che dagli dei proviene, da essi si distacca attraverso la ragione. Così, i sacrifici offerti agli dei sono volti non a chiedere grazie, ma a tener lontana dagli uomini la follia divina: nelle Baccanti euripidee il Coro supplica di allontanare il dio, poiché con Dioniso entrato in città sono esplosi la follia e il disordine; in Omero, Agamennone dice ad Achille non io ti ho sottratto Briseide ma le divine Atai (quindi la violenza e la dissennatezza). Se ancora nell’800 gli psichiatri dimettevano i loro pazienti annotando nel referto la sigla “d.c.” (“deo concedente”: se dio - cioè la follia - lo concede) è perché sulla follia del dio l’uomo non ha potere. Essa non abita solo il dio dei pagani ma anche il dio delle religioni monoteiste occidentali. Jahvè che ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco ne è l’emblema: ci mostra che il dio è al di là di ogni ragione e - come afferma Kierkegaard - chiedergli di rispettare le leggi di natura è impossibile.
Platone inscrive l’amore nella follia: quella amorosa occupa il più alto dei 4 stadi in cui essa si manifesta (profetica, iniziatica, poetica, e, appunto, d’amore). Eros è dunque il tramite fra l’uomo e il dio, la sua è “una natura interiormente sconvolgente cui soccombono anche il volere e il sapere razionalistici” (G.Krüger). Per questo il linguaggio razionale non è adeguato a esprimerlo, ciò spiega il parlare enigmatico e buio degli amanti. Chi ama è abitato dal dio e parla il linguaggio della follia: il qualcuno che amiamo - perché amiamo quel particolare qualcuno, non tutti - è a sua volta colui/colei che ha catturato questa parte divina che è in noi (è infatti dalla semantica della follia - “sono pazzo/a di te” , e altro… - che il linguaggio corrente e popolare attinge le sue espressioni quando cerca di esprimere l’amore).
Amore è maieutico, generativo poiché ogni stato d’amore è immersione nella propria follia e la riemersione da essa è una nuova nascita. Nell’eros si realizza la ricongiunzione di ciò che è stato diviso: siamo gli esseri originariamente uniti in un unicum indistinto, che Zeus - timoroso della potenza di esseri siffatti - ha tagliato in due parti, “rendendoli più deboli e infelici”, ricuciti da Apollo al livello dell’ombelico, e da allora ognuna delle due parti cerca affannosamente l’altra. Ecco perché Amore è segnato dalla mancanza e dal desiderio: chi ama cerca ciò di cui è privo, e nella dottrina della sapiente Diotima espressa attraverso le parole di Socrate nel Simposio, Eros ha le vesti e le sembianze del mendìco perché l’amore è ricerca di ciò che non si possiede, è slancio verso qualcosa di altro da sé. Amore è “desiderio di tornare Uno”, e l’unione corporea è memoria dell’antica unità e insieme tentativo di ricostruirla, destinato alla sconfitta perché alla fine c’è sempre la separazione.
Signori si scende. Con Galimberti abbiamo attraversato in un’ora divino e umano, ragione e follia; come la statua di Glauco dall’acqua, riemergiamo con qualche incrostazione in meno, consapevoli che nell’eterna ricerca della completezza smarrita, la scintilla divina è quella che ci salva: si chiama Amore o, se si preferisce, Follia.
In chiusura, la domanda lanciata dal pubblico, prevedibile e inesorabile come l’ora di pranzo, pone il tema del femminicidio. Le donne sono a loro agio nella follia, spiegherà il filosofo: ciò disorienta il maschio, radicato nella cultura del possesso, occorre partire dallo sradicamento di questa. Le donne ringraziano.

Sara Di Giuseppe


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