31/03/13

L'insostenibile pesantezza del silenzio. In scena al Teatro Aikot27, “Gerstein” da Hochhuth, con Vincenzo Di Bonaventura.


Il silenzio può essere criminale. Quello di Pio XII sulla Shoa, superiori ragioni di real-politk comprese, lo è stato. Ancora oggi, l'assenza di Papa Pacelli dallo scenario politico mondiale, durante il genocidio del popolo ebraico ad opera dei nazisti, è un tema di estrema attualità, e rappresenta uno dei vulnus nei rapporti fra ebrei e cattolici. E quanto questo “peccato” pesi, umanamente e storicamente, è anche certificato dall'ostracismo che il testo di Rolf Hochhuth ha avuto fin dalla sua prima uscita, osteggiato, quasi demonizzato, da quegli ambienti legati alla gerarchia vaticana che faranno un passo indietro solo dopo le pubbliche scuse di Papa Woijtyla nel marzo del 2000.
Di grande presa negli Anni '60, quando venne portato in scena anche da Gian Maria Volontè, Gerstein (tratto da Il Vicario di Rolf Hochhuth), è stato trasformato da Vincenzo Di Bonaventura in una piéce per il “teatro del testimone”, un genere che l'attore abruzzo-veneto-marchigiano, percorre ormai da tempo con grande professionalità e partecipazione, anche emotiva. Sulla scena, Vincenzo Di Bonaventura è otto personaggi. Tutti perfettamente delineati, tutti intimamente scavati e riproposti nelle loro differenti psicologie. Il perno del monologo è l'Obersturmführer Kurt Gerstein, un ingegnere e anche un medico che, all'improvviso, scopre cosa accade realmente nei campi di concentramento; una vera e propria tragedia alla quale gli alti ufficiali del Reich, gli chiedono di prendere parte perfezionando i gas per accelerare la morte degli internati. La ribellione di Gerstein è immediata e totale. Sente che il suo essere un ufficiale delle SS non contempla il ruolo del carnefice che gli viene richiesto, e denuncia, meglio, cerca di denunciare quello che lui ritiene da subito, un crimine contro l'umanità. Chi, secondo Gerstein, meglio del Papa? Chi se non la “coscienza critica” del mondo, può porre fine allo sterminio di un intero popolo? È così, che mettendo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia, Gerstein inizia l'opera di “informazione” nei confronti delle alte gerarchie cattoliche. Ma riceve sempre e solo cortesi rifiuti. Al centro dell'opera di Hochhuth c'è “la coscienza”. Il sentire di far parte totalmente e integralmente, del genere umano. Ma non c'è solo la coscienza di Gerstein, al centro del testo ci sono quelle dei vari ufficiali, medici, professionisti, prelati che consapevolmente scelgono di tacere, per paura, per vigliaccheria, per connivenza ideologica. Vincenzo Di Bonaventura li anima tutti. Con un'abilità che non è solo frutto di lunghi anni di mestiere trascorsi sul palcoscenico, ma anche, se non soprattutto, della sensibilità che lo accompagna da sempre nel difficile mestiere del “narratore civile”. Da solo  in scena, Di Bonaventura presenta i personaggi del suo monologo uno ad uno, non confondendoli mai, connotandoli sempre con le loro caratteristiche caratteriali, psicologiche, umane predominanti. Vincenzo Di Bonaventura tesse una tela di voci che fanno immaginare personaggi come e meglio se  si materializzassero realmente sulla scena. E allora scorrono le voci del nunzio apostolico, del giovane gesuita, del medico pazzo che misura e pesa i cervelli degli ebrei e degli zingari dopo averli tolti dalle scatole craniche, del dirigente della Krupp, del dandy “angelo della morte” di Auschwitz, di Heichmann e perfino del Papa, quel Pio XII che sul nazismo-barriera del bolscevismo, non dirà mai una parola contro. Ma Di Bonaventura non si accontenta delle voci. Mima gesti e sottolinea posture e tic e, con i tratti del volto, disegna pose. Ecco, uno spettacolo (ridotto) di oltre quattro ore, accompagnato solo da brevi sequenze di Amen (il film di Costa-Gravas tratto dal testo di Hochhuth), che scende caldo nel petto e che riporta, fino alle estreme conseguenze dell'emotività e del pianto, tutti gli stilemi di una tragedia storica di proporzioni immani. Forse, per ricordare quello che accade dal 1941 fino al 1945, non basta più una giornata, anche se della “memoria”.

Massimo Consorti

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