01/10/25

"Hic manebimus optime”


È quello che devono essersi detti diplomatici e funzionari rappresentanti dell’Italia all’Assemblea Generale dell’Onu restando ben piantati sui rispettivi scranni mentre più di un centinaio di altri, in rappresentanza di oltre 50 Paesi, abbandonava per protesta la sala all’arrivo di Netanyahu: restarsene ben avvitati alla ghiotta poltrona, il motto, non sia mai qualche malintenzionato ce la sfili di sotto. 

Non si trovano, neanche a cercarli col lanternino, i nomi dei nostri eroici connazionali: esclusa la presidente della delegazione e membro permanente Mariangela Zappia, il resto è un non meglio precisato “team diplomatico”. 

Che il non farsi stanare sia per un tardivo soprassalto di vergogna? Ma no, in fondo nulla hanno di diverso quanto a codardia e opportunismo, dai farisei al governo: di che, dunque, dovrebbero vergognarsi?
Forse di sedere fianco a fianco con la delegazione israeliana che s’è spellata le mani per Netanyahu ad ogni invereconda balla pronunciata? 
Forse di essere delegati di un’Italia che continua a vendere armi ad Israele, ad intrattenere rapporti diplomatici ed economici con un governo responsabile di crimini contro l'umanità? 
Forse di rappresentare un paese che riceve in Vaticano il presidente - Herzog - di uno stato genocidario?

 

Suvvia, per tanto poco, e poi teniamo famiglia.

 

Magari un piccolo balzo sulla famosa poltrona potrebbero averlo fatto nel sentire il macellaio israeliano parlare di aiuti alimentari forniti da Israele a Gaza per una quota di 3.000 calorie al giorno a persona (c’è da invidiarli, ‘sti fortunatoni di palestinesi, con tanta gente nel mondo che patisce la fame…); o vantare come attestazione di umanitarismo l’aver ordinato più volte l’evacuazione preventiva della Striscia (una pratica, peraltro, riconosciuta come parte integrante della fattispecie di genocidio) e non come la Germania nazista che gli ebrei li ammazzava e basta.

Cose così, insomma, completate dall’orgogliosa check list dei leader dei paesi vicini ammazzati e/o tolti di mezzo (Nasrallah andato, Assad affondato, gli scienziati iraniani vaporizzati…: con tanto di mappa e di spunte col pennarello nero). E mica solo Hamas va eliminata, le cose bisogna farle per bene: pure l’ANP va cancellata, ed ecco un Medio Oriente finalmente libero dal terrorismo, che vuoi di più dalla vita.

E poi la spilla sul bavero col QRcode per rivedere i crimini di Hamas; e i camion con sound system e altoparlanti a Gaza (“scena da dittatori in pieno delirio di grandezza”) per far sentire l’edificante discorso ai prigionieri israeliani; e poi che a Gaza c’è “il più basso tasso di vittime civili” (appena l’80% dei 65.000uccisi, una cosuccia n.d.A.) rispetto alle guerre Nato…e via balleggiando.   
Il resto - le accuse a Israele, le prove inconfutabili di genocidio in atto – nient’altroche propaganda anti-israeliana e bugie antisemite.

 

Vedete bene, signori miei, che non c’era alcun motivo per alzarsi e andarsene indignati, che esagerazione...

 

D’altronde non solo noi italioti, si badi: ad abbeverarsi alla limpida sorgente della verità israeliana è rimasta seduta una buona fetta delle diplomazie europee, con l’eclatante eccezione della Spagna. 
Rappresentazione plastica di un occidente pavido, incoerente di fronte alla coerenza del sud del mondo, balbettante davanti alla tragedia umanitaria eppure tronfio di sé, dei cosiddetti valori occidentali e atlantisti che includono il farsi zerbino di logiche belliciste su altri fronti di guerra.
E pronti a plaudire al piano di accordo - strombazzato in pompa magna e raccolto con eccitate dirette dal sistema dell’informazione (si fa per dire) italiota a inginocchiatoi unificati - tra il macellaio israeliano e lo psicopatico d’oltreoceano: per una pacificazione e ricostruzione gestite dal britannico Blair (quell’affidabile soggetto delle false prove su armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq, da cui la guerra da un milione di morti e permanente destabilizzazione dell’area).

 

È così che la Striscia vivrà finalmente la sua età dell’oro: con una ricostruzione di stampo prettamente colonialista, gestita da immobiliaristi e affaristi, mascherata da operazione umanitaria e affidata per finta a funzionari internazionali, e con i palestinesi (quelli rimasti vivi) relegati ancora e sempre ai margini.

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Nessun accordo stipulato a migliaia di chilometri di distanza può riflettere la realtà di una tenda, accanto alle macerie, senza acqua pulita e medicine. Per la maggior parte di noi l’accordo è un’altra illusione. 
(…) Ci aggrappiamo alla nostra umanità pensando che un giorno le nostre voci - non l’eco di quelle degli altri -riempiranno di nuovo queste strade. 
(Elina Yazji in Il Fatto Quotidiano – oggi, 30 settembre)

 

*Tito Livio Ab urbe condita, V, 55

 

Sara Di Giuseppe - 30 settembre 2025




 

30/09/25

Per "Vedere oltre una 'realtà' condizionata dall'abitudine": il Collage de 'Pataphysique

 

Tania Sofia Lorandi, “Trascendente Satrapessa” del Collage de ’Pataphisique (CD’P), ci manda l'invito ad abbonarsi o acquistare dei numeri pubblicati dallo stesso Collage nel corso degli anni, per conoscere o approfondire un pensiero 'laterale' rispetto alla quotidianità e alle consuetudini personali e sociali. E noi lo inoltriamo volentieri.

Ricordiamo che Tania, con il suo Collage, è stata una stretta collaboratrice della nostra Rivista d’Arte e fatti Culturali "UT”, rivista che ha dato vita a questo Magazine. Insieme alla Lorandi vi hanno participato, svolgendo con creatività e bravura alcuni dei temi pubblicati da UT, artisti e scrittori come: Mario De Carolis, Stefano Malosso, Mauro Rea, Antonio Castronovo, Tonia Copertino, Marco Maiocchi, Pino Guzzonato, Melania Piumino, Ezia Mitolo, Donato Di Poce, Miriam Ravasio, Nataly Wolf, Luciano Fadini, Carmen Carlotta, Alessio Balduzzi e molti altri con visibilità a carattere nazionale ed europea.

Perciò, e in qualità di amici estimatori della ’patafisica nonché cittadini sambenedettesi, ospitanti forse tra le ultime opere monumentali di Enrico Baj “Ubu re” (personaggio del dramma surrealista di Alfred Jarry, inventore del teatro dell’assurdo e riferimento ideale della “scienza delle soluzioni immaginarie” del CD'P), invitiamo tutti ad aderire, sostenendo e seguendo le numerose pubblicazioni del Collage anche attraverso il web.

https://www.collagedepataphysique.it/

n.d.r. - San Benedetto del Tronto - 30 settembre 2025

21/09/25

La scomparsa dei vigili pistoleri

 

Giuda murì / Patò spirì / Spirì Patò / Cu l’ammazzò? / Quantu patì? / E po’: pirchì / Patò spirò?*

 

Ripatransone.

La cittadinanza è in subbuglio. Da quando s’è notata l’ormai prolungata assenza dei vigili pistoleri dal centro cittadino, sempre più preoccupate si sono fatte le ipotesi sulle ragioni dell’inspiegabile scomparsa e sulle oscure, temibili conseguenze di questa.

Scomparsi come Patò, i vigili pistoleri de noantri.

I ripani sono attoniti, sull’orlo di una crisi di nervi. 
Abituati da tre anni a vederli comparire in piazza davanti alla cattedrale - di domenica e non solo - questi Vigili della “Colonna Mobile Blu” del Consorzio dei Comuni Montani dei Monti Azzurri  - con fata turchina per armocromia e sede a San Ginesio (MC) - con penzoloni la pesante BERETTA semiautomatica calibro 9, cinturone con 2 caricatori e bombola spray di chissaché (in sede hanno anche sciabola e fucile come da loro statuto ma non se li portano, qui a Ripa), i cittadini oggi s’interrogano sgomenti. 

 

C’è un rapimento, dietro tutto questo? Hanno forse litigato col sindaco o col parroco? 
O magari li ha inghiottiti una botola, proprio come - nel romanzo di Camilleri - il ragionier Patò nei panni di Giuda durante la scena dell’impiccagione, nella sacra rappresentazione “Mortorio” sul palco in Piazza Grande presso il palazzo dei marchesi Curtò di Baucina di fronte alla Chiesa Madre?

 

Tutte le ipotesi sono al vaglio, scriverebbero i carabinieri e i giornalisti da riporto.

 

Sia come sia, la città ora non si sente sicura. I negozi abbassano le saracinesche, gli abitanti hanno messo sacchi di sabbia vicino alle finestre, la banca ha esposto in vetrina il cartello “Non c’è denaro contante”, che è come annunciare “Al cimitero non ci sono tombe” (per dire come siano tutti fuori di testa).

 

Insomma è il caos. 
Ma nel silenzio. Nessuno parla, solo mormorii, sguardi in tralice, mai esporsi è il motto della casa.
Intanto, va da sé, bande di gangster armati fino ai denti si aggirano ora indisturbati per le vie cittadine come nella Chicago degli anni venti (qualcuno s’incastra con l’arma nel vicolo più stretto d'Italia e lo tirano fuori a fatica). 
Chi può abbandona la casa di paese per rifugiarsi in campagna ma finisce miseramente vittima delle strade comunali dissestate come a Gaza.

 

Qualche nostalgico (ce n'è sempre di più, di 'sti tempi) rimpiange le fulgide giornate in cui gli intrepidi vigili-Rambo dei Monti Azzurri arrivavano in piazza con le loro pitturazzate macchine o coi bianchi SUV Nissan ruggenti grandi come carrarmati Leopard3, e piazzavano sbarre e divieti e multe, poi andavano al bar a far la pipì…
Sentivi tremar le vene e i polsi, ma ti sentivi al sicuro, diamine!

 

Altri più pragmatici fanno due conti e s’incazzano. 
Ben sanno infatti che gli angeli col pistolone e il macchinone e il cipiglio fiero, col quadernone delle multe appioppate mentula canis su e giù per le strade del contado, non cadevano dal cielo aggratis e con grandi ali bensì erano ingaggiati dal Comune ripano (come da altri Comuni) con contratto a suon di bei dobloni…
 
Ben sanno che questa edificante storia è andata avanti per tre anni: durante i quali risorse pubbliche sono state spese per mandare in giro gente armata fino ai denti nelle strade di una cittadina sonnolenta come una marmotta delle Montagne Rocciose a fine letargo. 
Anni durante i quali la sicurezza dei cittadini è stata messa a rischio, questo sì, dalle tante armi circolanti appese alle pance degli angeli custodi.
 
E s’interrogano allora sulle ragioni oscure di tali scelte, sul fatto che un’amministrazione comunale non sia chiamata a render conto dell’utilizzo dissennato di risorse pubbliche, investite in iniziative dal connotato muscolare e cialtrone, finalizzate ad ingrassar le tasche di pochi e a compiacere le psicotiche logiche securitarie di questo nostro tempo cupo, a mostrare il ghigno truce di un potere e di una politica - fedelmente modellati su quelli nazionali - tanto mascelluti e arroganti quanto inetti.
 
 
*A.Camilleri, La scomparsa di Patò, 2000.
 
Sara Di Giuseppe - 20 settembre 2025
 

17/09/25

“Bei cipressetti, cipressetti miei…” *

 

   L’archistar Canali pensava di inserire anche dei cipressi “alti e schietti” nella ristrutturazione dello stadio Ballarin, ma la Soprintendenza a quest’ennesima canalata pazzesca ha detto NO.

 Quindi gli spaventosi lavori edilizi interrotti non ripartono: l’archistar progettista capato nel mazzo, la Soprintendenza cattiva, il non amato Sindaco con le sue mangiabili pedine comunali, dovranno ancora riunirsi in conclave per decidere cosa diavolo piantare invece dei cipressi (non a caso associati alla morte). Si dice che s’incontreranno davanti San Guido recitando Carducci come somari.

Senza memoria, senza nostalgia né rispetto, nemmeno per il prato del Ballarin che hanno ucciso.
  

 

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
rosso e turchino, non si scomoderà:
  tutto quel chiasso ei non degnerà d’un guardo
e a brucar serio e lento seguiterà. *
 
*(Giosuè Carducci - saccheggiato come il Ballarin)
 
PGC - 17 settembre 2025

11/09/25

GOLD RUSH - Corsa all’oro

ovvero 
Elezioni regionali 2025
 

 
1848-2025, come vola il tempo.
Arrivavano in California da ogni parte d'America seguendo la pista dell'oro, percorrendo ogni possibile rotta, per mare e per terra, con ogni possibile mezzo – navi, canoe, muli – cantavano Oh!Susanna e qualcuno si arricchiva di brutto, altri restavano miserabili e con un pugno di mosche.

 

Oggi non occorre tanta fatica: ci si candida in Regione e - a patto di venir eletti - piovono pepite d’oro, non serve neanche il setaccio, ti arrivano dall’alto. 
E non è necessaria la presidenza: consigliere o assessore andrà benone, congratulazioni, hai svoltato.

 

Cinquecentoventisei (!) i candidati nelle Marche. Per 30 posti di consigliere (!). 

Ohibò, se non è gold rush questo… 

 

Sembra di vederli, ai blocchi di partenza: più affollati, proporzionalmente, della maratona di New York. 
Esaltante, se tanta foga zampilla dal volersi spendere per il bene comune, migliorare la realtà, incidere positivamente  nella condizione di tutti elevando la qualità del vivere, avendo potere e strumenti per farlo. Soprattutto cervello e idee. 
Pulsioni sì nobili e impellenti da spingere una tal pletora di candidati ad offrire il proprio disinteressato aiuto a colui/colei che guiderà la Regione, e a conseguentemente riempire dei loro faccioni sorridenti, rassicuranti, positivi, i muri di vie, piazze, rotatorie… 

 

Ma, ahinoi, è qui che la storia diverge: perché ciò che proprio non si può sperare dai nostrani cercatori d’oro, è che dalle loro imprese possa nascere l’equivalente del sogno californiano come lo si chiamò allora.
Basterà, per convincersene, mettere in fila l’uno dopo l’altro gli slogan che compaiono sul “santino” di ciascun candidato (riempiono tavoli e banconi di bar, caffè, negozi, ristoranti; di altrettanto fastidioso c’è solo l'invasione estiva delle cimici nelle campagne e abitazioni circostanti). 

 

Vero laboratorio di politichese applicato, è tutto un tripudio di Vento che parte dal basso - qualunque cosa voglia dire - di Coerenza e competenza, un'alluvione di Cambiamento, uno tsunami di Futuro, una tempesta di Noi, voi, fino ai più sofisticati Il Piceno protagonista (versione casereccia di America first), o Pace salute lavoro (ma non è l’aspirante missitalia). E via farneticando. 
Cime tempestose di pensiero creativo che ritroviamo poi sui cartelloni che ti guardano da ovunque, come in un incubo orwelliano .

 

Occorre un robusto volo di fantasia per immaginare che un ceto politico o aspirante tale che affida il proprio messaggio a un mucchio di scemenze e slogan che sembrano presi dall’incarto unticcio dei Fonzie’s possa improvvisamente, una volta conquistate le pepite d’oro - pardon il seggio regionale - rivelarsi per colui/colei che cambierà le sorti della Regione spazzando via i miasmi dell’inefficienza e dell’imperizia, degli sprechi e degli inciuci che ammorbano le Regioni, specie dopo la riforma costituzionale del Titolo V nel 2001.
 
Se è vero che non bisogna fermarsi alle parole, queste tuttavia contano se ad esse si affida la fiducia della gente, la spinta a confidare nel nuovo che avanza. 
[Specie se quest'ultimo è rappresentato da vecchie glorie già sperimentate e a cui affideremmo a malapena l'innaffiatura delle piante quando siamo fuori].

E dunque. 
Se è dura reggere il fastidio di questa campagna elettorale over size - arcaica, petulante, invadente, vuota di ogni sensato messaggio e significato - del tutto indigeribile è l’idea di contribuire col proprio voto - quale che sia - al mantenimento di carrozzoni moltiplicatori di parassitismo e clientele, familismo e sperpero di risorse pubbliche, galleggianti sugli irrisolti problemi e sulle infinite contraddizioni del regionalismo italiota, centro di potere anacronistico e pletorico.
 
(A fronte della Francia che dal 2015 ha ridotto drasticamente il numero delle Regioni, l’Italia l’ha aumentato).

 

Impossibile, allora, sottrarsi alla fastidiosa certezza che quelle facce ammiccanti dai “santini” altri non siano che i cercatori d’oro de noantri (nella Marche e non solo, naturalmente), convinti d’aver trovato la loro lucrosa pista per la California: un seggio in Regione.
 
Sara Di Giuseppe - 10 settembre 2025

06/09/25

Il nuovo Colle del Giglio


      Piccolo universo di quiete mescolanze umane, le tre ore di tramonto passate in queste colline di Tullio Pericoli che invecchiano con misteriosa eleganza, riambientando “dentro” le essenziali canzoni d’antan di Padre e Figlio (di non intimidatoria bravura). Ma insieme anche guardarsi e parlare, ri-conoscersi senza ossessioni, sorridere senza fingere, e ascoltare, ricordare, galleggiare nei pensieri… Con intorno silenzio attonito, naturale. La vita normale sospesa, come in un’atmosfera retrofuturista.

                                      

      Niente rumori di minacciose macchine splendenti, niente schermi giganti con imprese di sport iniettate di vile pubblicità, niente torcimenti di parole standard microfonate. 
      Niente orrende architetture assassine a vista, né infiltrati politici in punto di elezioni, o altri artifici per viverli male, questi tempi abbreviati.

 

     Nuovo Colle del Giglio, premiata oasi (di gigli e) di pace in scadenza, piccola bolla di dolcezza come in un acquerello di Eugenio Cellini. Mondo a tutto orizzonte - di piacevole gusto vintage - in territori dell’aria liberi ma indifesi, che di sera scuriscono in dissolvenza - la mezzaluna da tempo fuori dalla collina. 

 

PGC - 3 settembre 2025

03/09/25

“HO POSTO IL GIORNO AD ASCIUGARE…”

 
IL VIATORE

Recital dalle raccolte “Il Viatore” e “…ndo”

di Giarmando Dimarti

Voce : Vincenzo Di Bonaventura
Chitarra: Danilo Cognigni

 

Ospitale delle Associazioni  - Grottammare
30 -31 agosto 2025
 
 
Come farò a crescere di nuovo su tutto ciò che conosco 
se ciò che conosco è oceano e labirinta la mia poca esistenza
di sciupata eternità?
(G.A.Dimarti  -  …ndo -  2023)
 
 
Un viatore / è il poeta: sua è l’urgenza d’individuare, in questo povero tempo sgomento, appigli per strade nuove, per bagliori di orizzonti diversi. 
“Tergiversa con l’esistere” il poeta, nella realtà di un mondo in avaria dell’umano, svenduto alla barbarie di ritorno. 
Dicono questo stasera i versi di Dimarti, e Vincenzo attore-solista ne disegna il soffio poderoso, ne tambureggia il grido, ci inchioda all’ascolto; si fanno musica - nella chitarra tormentata accarezzata abbracciata di Danilo - lo sradicamento del cuore, la confessione e il grido.

 

E ancora oggi è volo, per noi pochi fortunati, è decollo di navicella spaziale verso uno sconosciuto altrove, nel limitare nuovo d’autunno.

 

Attenti al mio nome, avverte il poeta, è un atroce gerundio indefinito. Come quel “…ndo” che dà nome alla raccolta: gerundio, “forma non finita del verbo” - recitano le grammatiche - indicante un “processo considerato in relazione ad altro avvenimento”.  E dunque tempo aperto slabbrato: è qui che può inserirsi la poesia, qui ri-creare attraverso la parola il reale, scardinare il linguaggio perché sovvertendone il senso proclami la propria estraneità al conformismo del mondo.

 

Riparlatemi al cuore - dice il poeta - basta con tutte le parole / spese a non dire: nella lingua destrutturata, ai limiti dell’ermetico, egli sa di poter ritrovare significati perduti, riannodare i fili di un reale che s’è fatto indicibile, ritrovarvi al fondo il chiarore di una perduta umanità.

Ecco allora la parola farsi musica, aprirsi al fluire del tempo, al prorompere delle emozioni, alla confessione e alla rivolta, al brivido oscuro per il dies irae verso il quale marciamo con decisa allucinata coerenza.
Eccola farsi canto sommesso, preghiera quasi: è quando la natura reclama e riprende i suoi spazi, è quando il limone ha palpitato la sua amara fragranza, quando da vicino mi osserva il nudo melograno o il fuoco denso del lucente rosmarino.

Sempre, tuttavia, è la vita concreta che urge e si sublima nel verso: sono gli accadimenti di un presente che sgomenta - oggi balbuzia il mio pensare - è il silenzio pandemico, sono le piazze deserte, è la pena per l’amico scomparso, il giorno è greve come l’anima; è il ritrovare luoghi meravigliosi e antichi e d’infanzia snaturati dall’uomo e da un tempo nemico, mostrificati nella burocrazia di strade / senza pudore senza pudore / le case come conficcate a caso / in un delirio imbecille di altezze.

 

 È ancora la poesia, pur nell’urgenza e nella denuncia, ad offrire appigli perché la cecità del quotidiano non ci smarrisca e ci perda: abbisogno di luce diamanta che rompa ogni confuso segnale / abbisogno di te poesia.
Potrà essere la poesia in musica di Joan Baez e quella di Bob Dylan - People Have The Power  il tuo sogno la tua preghiera - potrà essere la tragica passione di quel I have a dream che arriva intatta da un lontanissimo 1963: sempre è tensione agonistica verso un recupero di umanità, perché torni il geranio ardente di ciò che fummo.
 
Viatore d’una fragile terra sperduta, è il poeta. Sperimentale e apocalittico, visionario, il verso dimartiano taglia il velo delle cose, si fa duro e scosceso, con un tonfo freddo di sasso precipita nello sgomento dell’oggi.
Si fa grido e rivolta nella voce attoriale e nel tambureggiare di djembe, si fa lamento di chitarra per il disumanato presente. 

Ho paura dell’uomo, scriveva altrove.

Ma si china dolente, ancora, ad auscultare la pena – chi, ditemi, ci ridusse a tanto sciupio dell’essere -  se mai il nostro frantumato presente di vuoti a perdere possa ricomporsi; se mai possa mutare il corso di giorni senza futuro / a giocare ancora alla guerra come un tempo alla pietra / follemente / inesorabilmente. 

 

Forse domani, sì forse domani, potremo chissà porre il giorno ad asciugare sulle ore segnate. *

 

 =========
 
… fuori è tardi e dentro non ho trovato dove appoggiare il cuore 
     (G.A.Dimarti  IL VIATORE, 2025)
 
*Le citazioni in corsivo provengono dalle raccolte dimartiane “ Il Viatore” e “…ndo
 
Sara Di Giuseppe - 3 settembre 2025

20/08/25

"Ma solo un punto..."

INFERNA DANCTIS – Orkestra Constriptor

Voce: Vincenzo Di Bonaventura 
Chitarra: Danilo Cognigni
 
Ospitale delle Associazioni
Grottammare Alta 
16 -17 Agosto 2025 
 

" Ma solo un punto…”

 

Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
 
(Divina Commedia. Inferno, c.V , vv.130-132)

 
 
È pittura, è scultura, è cinema perfino, la lingua di Dante, il suo endecasillabo contiene la purezza dell’italico suono e tutte le possibilità espressive consentite all’umano.
Muove da qui stasera l’attore-solista: che solista oggi non è, perché la voce della chitarra sciabola lo spazio e graffia, percuote, chiama, in tutt’uno con la voce umana, e insieme - Vincenzo e Danilo - scolpiscono quel loco d’ogne luce muto, Inferno di pena e disperazione che dei dannati stravolge le sembianze, frantuma la voce.
Come quella di  Francesca, che nell’imponente impianto acustico si fa suono scosceso e roco, grumo di dolore nell’espiazione eterna, per divenire poi narrazione dolente, rimpianto di dolcezza assaporata appena e subito perduta  - Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria - e stupore, quasi, per quella forza incoercibile d’amore che perderà gli amanti quando la lettura galeotta di Lancialotto come amor lo strinse, disvelerà a entrambi la reciproca attrazione e impallidirà i volti nell’incontro degli sguardi… Ma solo un punto fu quel che ci vinse 
 
[Rifletterà più avanti col suo pubblico, il nostro attore solista, rendendo con travolgente chiarezza la contemporaneità del poeta: quella sciabolata di luce gettata nella profondità del cuore umano attraversa 700 anni e viene a dirci oggi, nel nostro martoriato presente, che la follia del mondo dovrà trovare sì, anch’essa “solo un punto”: quello che basti non per esserne vinti come i due infelici amanti bensì per convergere e rinsavire, e da un oggi in avaria dell’umano uscire alla piena luce di una ritrovata umanità; dallo stato bruto di pecore matte - nel quale continuiamo a precipitare perché è caduto il respiro che univa l’uomo alla pena / dell’uomo - riemergere alla coscienza di un diverso orizzonte che ci renda degni di salvezza. 
“Solo un punto potrebbe bastare, o non ci resterà che attendere il primate futuro* che torneremo ad essere]. 

 

Ma è iniziato ben prima del quinto Canto, stasera, il viaggio poetico-musicale della “macchina narrante e concertante”: la voce e le percussioni di Vincenzo, le chitarre di Danilo mescolano il tessuto sonoro alla duttilità dell’endecasillabo dantesco, si fanno partitura musicale di un’architettura linguistica che mai fu più alta dal Trecento a noi.
Nel “brivido allucinatorio” che ne deriva, lo spazio intorno a noi si fa altro e ci scaglia nell’oltremondo dantesco, nell’aria sanza tempo tinta, nell’assenza di tempo e di luce che è assenza di speranza.

 

E dallo smarrimento nella selva all’incontro con le tre fiere, all’intervento salvifico di Virgilio, ai dubbi del poeta che Beatrice illumina e dissolve, fino all’impatto brutale con la disperazione dei dannati, è sempre la sostanza umana del poeta che s’interroga, che si dibatte tra la pietà per i dannati e la profonda coscienza morale e religiosa che gli impone di accettare la divina giustizia.

 

Da qui in poi - la porta infernale e la terribile scritta alla sua sommità, le anime che Caronte spinge sulla barca e batte col remo  qualunque s’adagia, le schiere degli ignavi alla cui viltà si rivolge il disprezzo del poeta e del suo maestro, il dolcissimo incontro con Virgilio, le ombre antiche, gli spiriti magni nel Limbo, le creature infernali e mitologiche – l’esperienza extrasensoriale del poeta procede in un trapasso incessante dal particolare all’universale: poiché di continuo la politica e la storia, e l’esperienza viva e terrena del poeta irrompono nell’incontro con le ombre dei dannati. 
Ed è confronto incessante con la propria materia di uomo, è messaggio morale che nell’accorata pietà per l’umanità tragica di Francesca e di Paolo trova uno dei punti più alti: nella fragilità di Francesca il poeta vede rispecchiata la propria, e al tempo stesso cade la fede stilnovistica nell’amore-virtù; la certezza dell’amore come forza che sublima e innalza cede all’impatto con la visione dell’amore che uccide: il poeta ne è sopraffatto, e venni men, sì com’io morisse.
 
Continuerà negli incontri a venire, il viaggio dell’instancabile macchina attoriale - nostra navicella di salvezza - nel verso e nell’oltremondo dantesco: con noi pochi e privilegiati viaggiatori spinti da bisogno di volare, stregati dal moto ondulatorio e sussultorio dei versi e della musica. 
Abbiamo bisogno di quel canto poetico. 
Incapaci di decifrare l’insensato presente, increduli al cospetto della barbarie che ci sovrasta e del silenzio di un mondo arreso, cercheremo ancora ostinatamente quel punto, solo un punto, che ci vinca  e ci possieda.

 

 

*i corsivi sono tratti dalle raccolte poetiche di Giarmando Dimarti
 

Sara Di Giuseppe - 19 agosto 2025

17/08/25

NON APRITE QUELLA PORTA

ovvero
Trump e Putin in Alaska

     Servissero conferme - ma non servono - della qualità pietosa dell’informazione, delle vette di scempiaggine su cui cerca di arrampicarsi, riuscendoci benone, gran parte del giornalismo italiota, basterebbe aver guardato la sera del 15 agosto servizi giornalistici e talk televisivi d’accompagno (Rai, La7 e tutto il cucuzzaro della dis-informazione, televisiva e non) la diretta dell’arrivo in Alaska - per il summit sull’Ucraina - dei due soggetti psichiatrici a cui incomprensibilmente una parte altrettanto disturbata dell’umanità ha delegato il governo delle proprie sorti.

     Inquadratura fissa per un tempo in(de)finito sul portellone ostinatamente chiuso dell’Air Force One. E tu, per quanto ti sforzi di non farlo, ti fai venire in mente - non senza un pizzico di speranza - la scena finale di Zabriskie Point del grande Antonioni: immobilità assoluta e silenzio nel lunare paesaggio della Death Valley, la fanciulla guarda la collina desertica su cui posa l’enorme arrogante villona; di colpo un’esplosione enorme, anzi più esplosioni  - sorta di visonaria, palingenetica ecpirosi - e nell’aria volano e volteggiano come in una danza e ricadono giù sulle armonie dei Pink Floyd tutti i simboli del potere consumistico (correvano gli anni Settanta del ‘900, un’era geologica fa, e una disillusione collettiva che, nel rifiuto delle mistificazioni del potere, almeno aveva grandi maestri a rappresentarla).   

 
Passa l’attimo, torni a terra non senza fastidio e vedi i giornalisti in studio che trepidanti commentano quella porta chiusa, quel portellone muto, chissà che succede là dietro (un litigio, un infarto, una sveltina per allentare la tensione… non lo dicono ma lo pensano, proprio come noi) e si avvitano e s’incartano e interrogano gli “esperti”…

Finchè esplode il grido liberatorio: è uscito!

E un altro imperdibile momento cinematografico ci sovviene, quello in cui il servo del Marchese del Grillo grida a tutto il signorile palazzo, fino a quel momento congelato nel silenzio, un sonoro romanesco S’è svejiatooo! e l’operosità di sguatteri e popolino riprende.

 

Ecco quindi i servitori (lapsus, i giornalisti) commentare implacabili, dell’ammerecano, il passo, l’andatura, la cravatta, il gatto morto sul cranio arancione, il tappeto rosso che prima, dice la giornalista, ci hanno passato l’aspirapolvere, l’ho proprio visto io prima d’andare in onda… e capisci che l’acuta anchorwoman è stata a un passo dal chiedere in ginocchio la marca del magico arnese, dovesse averne bisogno... 

 

Poi arriva al ralenti l’aereo di quell’altro, il soggetto psichiatrico numero due, e quelli in studio a descriverli sbavando seriosi, e commentarli come se non li avessimo visti, noi e loro, decine di volte scendere - talvolta inciampare, quasi ruzzolare… - ma anche avventurosamente camminar salutando, un piede dopo l’altro (pensate, camminano perfino, anche se non sulle acque), come fossimo bambini scemi a cui additare il re e la regina e il principino, uhh guarda come sono belli, magri e biondi…

 

 Il resto della serata - il disquisire del nulla, il secondo te era più teso quello o quell’altro, il di sicuro è un momento storico signori miei, ma noi saremo sempre qui per la maratona in diretta - decidiamo di risparmiarcelo perché vogliamo ancora un po’ di bene a noi stessi. (…)

Ci resta addosso l’appiccicaticcio fastidioso di ciò che abbiamo visto e sentito. Ci restano le cronache successive, il giornalismo che con pochissime eccezioni, pur di non smentire i trionfalismi precedenti, le lenzuolate poggiate sul nulla e grondanti pronostici e ottimismi sull’epocale incontro - una boiata pazzesca direbbe Fantozzi, e stavolta La corazzata Potëmkin non c’entrerebbe - continua a cercare senso e contenuto in ciò che è solo un teatro dell’assurdo che gronda sangue e macerie e denaro da oltre tre anni (e non solo).

 

Ci resta la chiarezza del motivo per cui siamo agli ultimi posti nella graduatoria mondiale per qualità e indipendenza dell’informazione.

 

Ci resta, perentoria, la sensazione che ciò che avremmo voluto vedere e sentire è almeno un giornalista, uno solo, che dicesse: 

                           Non aprite quella porta. Lasciateli lì dentro. Per sempre.
 
Sara Di Giuseppe - 17 agosto 2025