15/08/18

“Dilaniato dai versi”


Fondazione DiversoInverso

"MINUTI ILLIMITATI di... GIARDINO" 
Giardino de La Rosa Scarlatta - Monterubbiano


La Cantoria del Buon Cantore
di
GIARMANDO DIMARTI

Percorso lirico poetico omniano a cura di 

Vincenzo di Bonaventura
11 agosto 2018  h21.30



“Dilaniato dai versi”

 

       Sono dilaniato dai versi, posseduto fino a “pensare in poesia”, dice di sé Di Bonaventura. A possederlo stasera è la grande poesia di Giarmando Dimarti (“Uno dei più grandi poeti del nostro tempo, e di cui mi onoro di essere amico”): vissuta, cantata, agita da Vincenzo, essa è la nostra rosa scarlatta in questo giardino senza età, di scale impervie, di silenzio e di stelle.
       Vi aleggia il genio eclettico e raffinato di Euro Teodori, che Giarmando ricorda commosso nei saluti; lo rischiara la presenza luminosa solida e lieve di Stefania. E noi vibriamo in tutt’uno con questi alberi antichi e liberi, con questo cielo profondo, con Vincenzo che si fa aoidos dei versi poderosi, e quella poesia percepiamo in ogni cellula - in modo primitivo e primigenio - coi sensi più profondi.

       Per voce sola e djembe ci assale titanico il canto in necessario / accessorio del poeta. Nel mondo disumanato, nel “chiassato silenzio” del tempo che ci siamo dati*, la poesia non ha - montalianamente -  lingua o parola che salvi – “Taci il tuo ciancio cantare / poeta (…) cuci i tuoi pensieri le tue dita la tua luce (…) la terra veleggia l’universo / anche senza le tue balorde sfioccate bandiere sonore

       Frantumato, destrutturato, sperimentale eppure antichissimo e dotto, il verso dimartiano irrompe nella spaesata realtà di un oggi in avaria dell’umano; perfora il conformismo delle parole ormai vuote di senso con la densità di una lingua spregiudicata e squisita, apocalittica e aspra, che impietosa squarcia il velo opaco delle cose e a un tempo si piega dolente - con un cuore appena ricucito - sulla pena di una terra erranea sdraiata fraudolenta.

       La voce attoriale se ne fa canto, tambureggiare di djembe, grido poderoso, lamento dissotterrato da affogate memorie. Percorre l’indicibilità di una barbarie che attecchì sotterranea / funesta; evoca presaga il cieco precipitare della nostra vita in disarmo - dove “è tutto sotto controllo”* - verso il tempo destinato, verso il “primate futuro” che noi saremo nel ”giorno dopo / il dies illa quel giorno proprio quello”.

       Implacabile esplora la rabbia della fame infame sete di chi ha attinto acqua da crepe deserte (…) dato quello che avevo per un recinto d’aria; scava la pena delle labbra incollate dai digiuni nel disperato j’accuse: “a chi offrirete a sdebitarvi / il vostro pane cencioso / se le mie ossa scricchiolano / come un rotto ramo triste senza stagioni?”

       Evoca l’amore - amaro amore errante - che ritorna dopo il tempo di un lungo deserto, e l’anima roca per nebbie disfatte si affaccia nuovamente nel giorno: non fu cosa facile / non lo è mai quando il cuore decide la sua storia.
       Si piega dolente sulla tragedia dell’amico suicida, ed è interrogarsi per capire e capirsi, e non poter altro che amare ormai lontano quel cuore in ritardo per un giorno senza rive, quell’anima in cerca di un’alba di là da tutto / senza più paura.
       Ed è canto dell’uomo fatto solo (“nella moltitudine che incrocia il tempo della storia / trovo te uomo fatto solo…”) che svende i suoi giorni nel quotidiano frastuono dove la sua profonda esserità è smarrita, è caduto il respiro che univa l’uomo alla pena  / dell’uomo.
       Nel viaggio che si conclude calchiamo con Dimarti l’orma adrianea nello struggente Animula vagula blandula: il dolore esistenziale - non mitigato, solo più pietoso - si libera in quel “Anima mia / batti come un timpano sordo”. Ti percepisco, e in quella percezione profonda - ripetuta, insistita - si ricompone l’unità perduta (“riconduco in te la mia sparsa origine”) tra la propria umana essenza e il tutto.

       Resteranno a lungo, vibreranno ancora fra gli alberi e le stelle, il respiro epico della poesia di Dimarti,  il brivido del suo amore errante, e la voce aedica che nel cantarli ci restituisce alla nostra “sopravvissuta umanità”, ci richiama indietro - fosse anche per una sera - dallo schiamazzo ebete del giorno, dalla stoltezza mascherata di inutili libertà.

* Il tempo che ci siamo dati     G.Dimarti, 2016
* È tutto sotto controllo            G.Dimarti, 2009



Sara Di Giuseppe - 13 agosto 2018



foto di Sara Di Giuseppe e Antonello Andreani

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