31/10/17

Teatri invisibili 2017. La sostenibile leggerezza della visibilità


Il fascino è cambiato, gli anni passano, i bimbi crescono (spesso malissimo) e il sentirsi sempre più fruitori e sempre meno partecipi lo sentiamo sulla pelle rugosa e nel cuore che lacrima.
Sono cambiate le modalità d'approccio agli Invisibili, fino a qualche anno fa motivo di discussione che si trascinava ben dopo la mezzanotte. 
La rassegna ha subito variazioni profonde e anche il nostro modo di porci, prima curioso oggi rassegnato, va di conseguenza. Questo è il tempo nel quale si va al cinema, a teatro, a un concerto, a una mostra d'arte per continuare a fare esattamente quello che si stava facendo prima di entrare nel sancta sanctorum: whatsappare, facebookare, guardare video demenziali, ascoltare canzoni se possibile peggio, inviare e ricevere messaggi senza senso e così, tanto per... quello che accade a pochi metri da noi, qualsiasi storia venga rappresentata sul palcoscenico, diventa motivo di disturbo, una interferenza non voluta, fonte inesauribile di comicità pure quando racconta drammi.
Gli Invisibili si sono istituzionalizzati, è entrata l'Amat e si vede, ci sono anche sindaci che accolgono gli attori e questo ci sembra un passo avanti. Ma tutto ciò rende a contribuire quasi “patinata” una manifestazione che invece viveva d'istinto e di sperimentazione, di partecipazione collettiva (che termine desueto!) e di approfondimento critico con tutte le incursioni nel sociale possibili.
Nonostante tutto, resta il meritorio lavoro di Re Nudo che, al di là delle difficoltà economiche legate a una manifestazione in cui non si balla, non si suona e soprattutto non si beve, rappresenta una sorta di resistenza pacifica nei confronti dell'ignoranza che dilaga. Fino a quando potrà durare non lo sappiamo, speriamo il più a lungo possibile.
Persi i primi tre spettacoli a causa di una schiena che risente del cambio di stagione, dell'umidità e di tutti gli anta che ha retto indefessamente, ci siamo rifatti sabato e domenica non perdendone uno, andando a vederne cinque in una specie di full immersion che pochi sembrano ormai sopportare sia fisicamente che mentalmente, visto che troppa concentrazione potrebbe nuocere gravemente alla salute, un po' come il fumo.
Il primo è stato il monologo di Aleksandros Memetaj, Albania casa mia, di cui è anche autore. È il sempre più attuale teatro di narrazione, una storia che racconta l'Albania dopo la caduta di Enver Hoxha e le vicissitudini di un popolo al quale, improvvisamente, viene dato il permesso di espatriare. Memetaj rende bene l'idea del dramma e sottolinea efficacemente il percorso che porta un fuggitivo a tentare la vita in Veneto, regione quanto mai lontana dall'indole degli albanesi ma che sembra essere in grado di dare loro una prospettiva. Albania casa mia è una storia che si lascia ascoltare, che l'attore rende con grande partecipazione ma che pecca dal punto di vista drammaturgico. Forse troppi flashback e forse un'ansia che sfocia, in alcuni passaggi, in un testo eccessivamente complesso.
Il secondo spettacolo è stato Milite ignoto di e con Mario Perrotta. In questo caso la storia, quella della Prima Guerra Mondiale, ci è vicina anche se lontana del tempo. Perrotta ha il merito di raccontarla dalla parte dei soldati, di quei figli della terra e del mare trasformati in carne da cannone da ufficiali incapaci e vittime della loro assurda visione militarizzata della vita.
Lo scenario, fin troppo essenziale, è quello della trincea dove si moriva non solo per le fucilate dei cecchini austriaci, ma anche per la malnutrizione, l'assenza totale di igiene, la cancrena. Milite ignoto ci ha riportato a due film, il primo, Uomini contro del 1970 di Francesco Rosi, nel quale la cecità della guerra faceva da contraltare a quella degli uomini, e a quel piccolo capolavoro della vita in trincea che è Torneranno i prati del 2014, di Ermanno Olmi.
Ecco, se un merito il monologo di Perrotta lo ha, è stato quello di essere
riuscito a fare una sorta di sintesi teatrale di due momenti alti della nostra cultura. Ma trattandosi di teatro e non di cinema, abbiamo avvertito molto forte la mancanza di movimenti scenici, l'immobilità del narratore seduto sui sacchi di sabbia della trincea, un uso del corpo dalla vita in su che poteva e doveva essere diverso.


Di iLove della Fattoria Vittadini preferiamo non parlare. Non abbiamo capito, nell'ordine, perché è stata invitata, perché trattandosi di teatro-danza non siamo riusciti a vedere né il teatro né la danza e, infine, se è vero che l'amore è un concetto totalizzante che non ha barriere né confini, questo ci è sembrato un calesse e abbastanza sgangherato.
Gaetano Ventriglia torna agli Invisibili dopo venti anni. Stanco lo abbiamo lasciato, stanco lo ritroviamo in una piece, In terra in cielo che parte da Don Chisciotte per (ricorriamo alle note del depliant) “trattare la relazione tra l'essere umano nell'estrema nudità esistenziale e l'archetipo di Don Chisciotte” che parla con le parole di Paul Eluard. In coppia con Silvia Garbuggino, Ventriglia ci regala un personaggio stanco, ma stanco davvero.
Di tono diverso e di diversa presa, La famiglia campione, della compagnia Gli omini di Pistoia.
La famiglia oggi, quella tipo, lo standard medio, viene messa in scena con attenzione e un occhio rivolto ai cambi generazionali (tre in questo caso), che gli attori sfruttano per addentrarsi in tematiche più profonde ma che alla fine, si possono ricondurre all'uso di un solo termine: confronto.
Godibilissimo, questo ultimo spettacolo, tanto che per molti versi ci è sembrato che più che assistere a una rassegna dei Teatri Invisibili, ci siamo trovati di fronte a un classico film della commedia all'italiana e con tutti gli ingredienti necessari. Un po' di sale (il dramma e le lacrime), un po' di zucchero (l'ironia e qualche risvolto comico) e tanta passione, che poi fa la differenza.

Massimo Consorti

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