26/10/17

Grottammare. Teatro dell'Arancio. MAJAKOVSKIJANA a 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. Di e con Vincenzo Di Bonaventura


LA BLUSA GIALLA


Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
      (V.Majakovskij, La nuvola in calzoni, 1915)


      “Gialla blusa cucita con tre tese di tramonto e fazzoletto rosso al collo: così abbigliato - la sua divisa da futurista - il giovane gigante Majakovskij declamava la sua poesia ovunque, viaggiando in treno fino a Vladivostok, nelle piazze e nei circoli intellettuali, e a Pietroburgo (prima che divenisse “Pietrogrado”, in odio ai tedeschi) dove in un teatrino mise in scena una tragedia e… ”fischiarono tanto il mio lavoro fino a crivellarlo”, come scrisse più tardi.

      Al Teatro dell’Arancio, Vincenzo e la giovane Laura vestono idealmente stasera la gialla blusa del poeta: essi “sono” la sua voce titanica e l‘anima fragile, la sua passione e l’urlo poderoso. Vincenzo e il fido djembe recitano cantano e perfino danzano Majakovskij, un’ora e mezza di versi completamente incredibilmente a memoria; Laura presta insospettata potente voce alla “tragica allegria”, allo sghignazzo, all’utopia civile.
      Sullo schermo, diapositive, immagini da reportage fotografici dell’epoca; e poi musica, energica e severa: bene accompagnerebbe “un film di Ejzenštejn sulla Rivoluzione”, e certo ricrea qui un’innevata Prospettiva Nevskij, pur nella mite marittima sera di mezzo autunno e non con un vento a trenta gradi sotto zero.

       Ma era d’aprile, quando il fragile gigante della rivoluzione si tirò un colpo al cuore nella piccola stanza della komunalka, al numero 15 di vicolo Gendrikov: lasciava l’enorme corpo “steso sul pavimento, le braccia spalancate…” - era alto due metri. “Anche da morto Majakovskij è ingombrante”* - e una lettera scritta due giorni prima: “Non incolpate nessuno della mia morte […] Come si dice – l’incidente è chiuso […] Io e la vita siamo pari […] Buona permanenza al mondo”.

        Il tuo sparo fu simile a un Etna / in un pianoro di codardi e di codarde, scriveva Pasternak per il poeta che solo pochi anni prima aveva pianto Esènin suicida nella solitudine dell’Hotel d’Angleterre.
Quei poeti si dedicavano versi l’un l’altro, ricorda Vincenzo. Avevano la poesia in comune, il battito epico della fede rivoluzionaria, l’inquietudine e il tormento della verità, il dolore per la mortificazione dell’uomo, l’utopia di un società nuova.
     
       Io vedo chiaro / d’una chiarezza allucinante - scrive Majakovskij e  - il vostro trentesimo secolo / sorvolerà lo sciame di  inezie / che dilaniano il cuore. Cent’anni appena dalla Rivoluzione d’Ottobre, e quel breve inizio di secolo appare oggi una distanza siderale. Forse allora una cometa passò sull’umanità e ne fiorirono quegli slanci e quelle menti, le passioni civili e politiche, le arti immense e le invenzioni e il genio, le scoperte epocali, i futurismi, l’accelerazione prodigiosa che in ogni campo mostrò la scintilla divina nell’umano.
       Poesia, musica, arte, architettura, scienza si diedero convegno in quella manciata d’anni, come gli artisti nel caffè parigino del geniale nostalgico Midnigth in Paris di Woody Allen.
Poi il secolo divenne “breve” e trascolorò in un opaco oggi senza bluse gialle, senza una Prospettiva Nevskij dove incontrare per caso Igor Stravinskij.

      “Tempi di leggenda” furono i giorni incandescenti dell’Ottobre, la parabola densa che convogliava inquietudini ed esasperazioni in una fiducia esplosiva e nuova, disegnava l’uomo tutto intero, indicava il punto d’appoggio per l’avvenire.
       Ci furono tempi di leggenda / ma sono passati: non ci sono resurrezioni (Resuscitami, / voglio la vita non vissuta!), e l’uomo che “con la sua infinita angoscia e l’infinita volontà di bene” si muove nella poesia di Majakovskij, in questo nostro presente mostra i denti “solo per stridere e addentare”

      Appena cent’anni dopo - nel ventunesimo e non “nel vostro trentesimo secolo”! - non più futurismo ma neppure futuro: siamo feroci ma non rivoluzionari, accomodati ma non emozionati, il nostro orecchio è coperto di grasso e la bellezza riunisce in un teatro una ventina di spettatori, sempre gli stessi.
       Eppure di Majakovskij c’è più che mai bisogno, nel nostro deserto di anestetizzata opulenza e di sazi orizzonti, di mediocrità intellettuale e burocratica cultura, di soffocante ottusità politica: c’è bisogno della sua ardente poesia, dell’ispirazione satirica, grottesca, lirica, epica, dell’implacabile umore critico, di quell’ansia di vita che fu senso incombente di morte. Ma – scrisse di lui Marina Cvetaeva – “col suo passo veloce è arrivato lontano, molto lontano dal nostro tempo, e da qualche parte, dietro l’angolo, gli toccherà aspettarci ancora a lungo”.



E il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare
l’alba dentro l’imbrunire.
                                  (F. Battiato, Prospettiva Nevskij)


  *Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, 2015

Sara Di Giuseppe

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