Conservo,
all’inizio di un mio taccuino, la poesia ricopiata a mano che
comincia così: “ I poeti sono soli, /col loro inverno / le scarpe
bianche per uscire la domenica / le ali stropicciate …” Mi piace
ricordarla tra quelle ricevute in anteprima dalla voce di Enrica al
telefono o, in altri tempi, per lettera. In confidenza e
corrispondenza d’amore per la poesia, sussurrato nelle dediche e
vissuto da vicino e da lontano, fedele anche nei silenzi. E questo mi
dà gioia ora sfogliando il quaderno n. 1 di UT nella veste damascata
della sua bella copertina, bianca e nera come le rondini, come i
poeti che sono i loro compagni migranti. Sì, fui colpita in quella
poesia dal dettaglio di un candore-ricordo delle nostre infanzie, che
balena anche qui, fin dall’ esergo di Holderlin,
i cui versi additano lo spirito dei cercatori di consistenza e
memoria, sempre in bilico “di terra in terra cercando un’estate
lontana”.
Rientro
nel mondo di UT attraverso il canto libero di Enrica, unendo anello
ad anello, facendone ghirlanda e corona, immagini anche a lei care,
parole femminili dalle molte suggestioni, figure di armonia e unione
– rose e spine, vita e morte, opposti raccolti nel grembo di un
tutto. E’ bello che il florilegio si apra con una poesia sulla
madre, ricordata pensando al tema L’oblio:
i contorni subito si sfaldano vestendo i colori delle alghe e le
iridescenze dell’acqua, trasmutandosi nell’immaginario di una
figlia che poeticamente abita il mondo, e si rivolge a lei come al
suo “pruno argenteo, / figura senza il tempo”… una forma di
giorni, di brine / che tu disfi / perdendo / la memoria / nella
stagione / del mio respiro”.
L’alfabeto
della poesia è questa continua traduzione del vissuto, questa
ricerca di una coincidenza di suono e senso per dire l’enigma di
una voce che parla dalle profondità dell’animo umano, dove
riposano le grandi universali figure degli archetipi e dei simboli.
Dove gli opposti non si elidono ma si completano, dove le soglie sono
orli di svelamenti e lo scorrere del tempo è vitale e infinita
scoperta. Il microcosmo di un borgo “piccolo come una mano, /
grande come un cappello parasole” rispecchia un intero mondo in cui
le parole sono palme, sono nuvole e onde, scie e sassi, sabbia e
silenzio. Tutti gli esseri appaiono sull’orlo di parole, compresi
gli oggetti tirati fuori un giorno per caso dai cassetti della
dimenticanza. Ritorniamo al filo rosso dei temi di UT, Il
caso, per esempio, emblematico tessitore di
coincidenze. Per me ci fu l’intento di dare voce in una piccola
ballata a una statuina di terracotta che mi portavo dietro da un
viaggio dei vent’anni (e con infantile gratitudine ringraziai UT di
questo “battesimo”); per Enrica riaffiorò il vecchio kimono
acquistato al mercato di Ercolano: “… questa piccola fortuna /
trovata che avevo vent’anni / e tornata qui ed ora / che è quasi
carnevale”. E un’altra volta: “la collana di vetro ripescata /
rotta nella chiusura / pasticciata / indossata una sera / color di
caramella / ricordo di un’amica / da non vedere più. / Un dono
estivo, di bancarella”. (L’indiscrezione),
affioramento un poco simile alla veste comprata dai cinesi: “Era
bella e sottile, piccolo sogno di campana. / Giovinezza in transito
per strade di sole.” (La fragilità).
Gli oggetti diventano anch’essi paesaggi d’anima, impregnati come
sono di noi, delle nostre storie e di quelle dei paesi lontani del
sogno e della carta geografica. Il talento di un poeta si rivela
magicamente fin dall’infanzia, ha la necessità che il cuore
rimanga bambino, e qui il mistero è affidato a un tenerissimo
ricordo che risuona nel dialetto del paese natale, Monsampolo del
Tronto, nella poesia intitolata “Da
frchina”, in cui la bambina sente per la
prima volta le corde “parlare” uscendo dalla pancia di legno di
una chitarra, “cuoricino mio sprofondato!”
Il
poemetto della neve nasce dalle acque tumultuose e debordanti di un
sogno, specchiandosi nell’amore di mandorla amara per la sorella
Marisa alla quale è dedicato. Il medium fra sé e l’altra è la
neve, presenza polisemica oscillante tra fantasia e pietas, tra
stupore e gelo, ricordi sepolti e desiderio infinito di parole che
possano ammantare, esprimere la bellezza di ogni dettaglio,
sciogliere nodi e aprire a un’altra riva del mondo. E’ una poesia
di metamorfosi e anelito alla trasparenza, un monologo interiore che,
nell’impossibilità di un dialogo vero, ricostruisce il rapporto
donando generosamente l’intimità del suo sentire cosmico e
musicale. A chi? Questo il poeta non lo sa, ma è fiducioso che a
qualcuno la sua parola possa arrivare.
“Ho
sognato a volte i fiordi
scesi in un
mio nome straniero
nel mio nome
che viene da lontano.
Ma tu non
puoi vedere, sei tutta nel mio racconto
sono un
minuscolo aedo, ho la voce più chiara.
…
Mutano
Le mie
fattezze, perché la neve
va
sciogliendomi il viso, mi cambia
in una delle
sue facce
di calce
tenue, un impasto
che serra e
che apre
a un’altra
riva del mondo”.
“Credo che
nello spazio si librino tante domande disperate, inevase, oscillanti
dagli uni agli altri e che, se ciascuno – a suo modo e secondo le
proprie capacità – cominciasse ad affrancarle da quella disperata
ricerca, fornendo loro una risposta, una dimora, non ci sarebbe una
tale terribile messe di domande senza un tetto. E non c’è
legislazione sociale che possa rimediare a questa loro condizione di
senzatetto”. Leggo
questo passo nel Diario
di Etty Hillesum (Adelphi 2012), mentre sosto tra i versi di Enrica
Loggi e mi viene spontaneo concludere con questa citazione, perché
sono convinta che essa si addica al suo modo di accogliere la
molteplicità delle voci che salgono a noi dall’invisibile,
riscattandole dalla condizione di senzatetto
e dando ad esse nascita e dimora nell’interrogazione ininterrotta
in cui consiste ogni autentica poesia.
Maria Grazia
Maiorino
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