24/09/16

Modena. FestivalFilosofia. "Aleppo brucia", la lectio magistralis di Andrea Riccardi


Ha spalle robuste, il solido tendone di Piazza XX Settembre, così da contenere il tanto pubblico che il diluvio caccia via da Piazza Grande (che grande è davvero, e incantata, con l’incredibile Duomo al suo fianco e la bella Ghirlandina parecchio pendente).
Pazienza. Gli dei si sa, invidiano e sono dispettosi .
Caloroso il pubblico, mostra di conoscere bene Andrea Riccardi: accademico, studioso, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, impegnato in una diplomazia parallela che ”lo ha portato a negoziare numerosi accordi di pace” soprattutto in Africa.
“Ho capito cos’è la pace a partire dalla guerra”, dirà iniziando. La guerra l’ha toccata la prima volta in Libano: campi di Sabra e Chatila, strage di profughi ad opera della milizia falangista maronita. Dal 16 al 18 settembre 1982, i morti furono da 1000 a 3.500 (non è mai stato accertato), erano palestinesi cristiani e palestinesi musulmani. Si parlava già allora di guerre di religione, ma le religioni - come anche oggi in Medio Oriente - sono solo l’armamentario ideologico che serve ad attizzare l’odio e attirare alle armi. Le religioni non sono armate, se mai sono “balcanizzate”.
Oggi avrebbe voluto parlare di Africa, dice Riccardi: ad esempio del Mozambico, due anni di negoziati senza interessi di parte, una storia di successo, era un altro mondo. Parlerà invece di Siria, non può evitarlo: troppo urgente incompresa inaccettabile, la realtà di una guerra che per 5 anni il nostro cinismo ha considerato “affar loro”. Troppo struggente e irreparabile la perdita di una civiltà raffinata come quella di Aleppo, città “dolce e liberale”, forse la più antica del mondo, passaggio della via della seta, patrimonio dell’umanità che con “levigata sapienza” (Adonis) metteva insieme genti diverse.
“La guerra sta cancellando anche la memoria storica”: Aleppo è morta, la Siria è finita, diceva – ed era ancora un anno fa! - Armen Mazloumian, proprietario dell’oggi distrutto Hotel Baron: vi alloggiarono Ataturk e Lawrence d’Arabia, e Agatha Christie, perfino Pasolini durante le riprese di “Medea”.
C’era del fosforo ad Aleppo: oggi ve lo riportano le bombe.
Era laboratorio di vita comune: ebrei, musulmani, cristiani… Se la qualità della vita delle minoranze è un indicatore di pace, è sinistramente eloquente che - nonostante “noi ebrei siamo quelle minoranze che coesistono sempre” (scrive Miro Silvera che lì è nato) - l’ultima famiglia ebrea sia stata evacuata da Aleppo nel 2015.
Restano gli scheletri dei palazzi dove la gente ancora sopravvive, dove “i cani randagi si contendono un osso di tibia”: “una guerra del secolo scorso” racconta Francesca Borri (“La guerra dentro”), i cui combattenti si insultano mentre si sparano da vicino, con baionette ottocentesche, “una guerra metro a metro, strada a strada, e fa paura”.
Spaventoso il numero dei morti – sempre difficile il calcolo delle stragi – e almeno 20.000 gli scomparsi nelle prigioni di Assad; crollata d’improvviso l’aspettativa di vita, da 70 a meno di 50. Aleppo sta bruciando” scrivono oggi da laggiù, e si aggiorna di ora in ora la contabilità della catastrofe, “la peggiore crisi umanitaria dal tempo della seconda guerra mondiale”.
“La comunità internazionale si è svegliata solo ora  - scrive il poeta siriano Adonis - dopo quanto è accaduto a Parigi. Con 10 anni di ritardo. La colpa maggiore dell’occidente è di esser stati in silenzio di fronte alla devastazione dell’ Iraq e della Siria, due paesi che sono all’origine della nostra civiltà”. Settarismo, idiozia dei potenti, intreccio di interessi, obiettivi non chiari delle potenze locali, indifferenza dell’occidente, opinioni pubbliche disinteressate e distratte, hanno perduto Aleppo.


Le parole di Riccardi sono scosse elettriche: si è lasciato che tutto questo accadesse, nessuno è innocente, e forse dovremmo uscire dal luogo comune di noi italiani-brava-gente.
Nessuno ha avuto interesse a salvare Aleppo. Il mondo ha ignorato la ribellione interna soffocata nel sangue, si è fatto sì che i conflitti interni si radicalizzassero, che entrassero in campo forze legate ad Al Qaeda e gli opachi interessi delle potenze locali - Iran, Arabia Saudita – pur nella consapevolezza che i conflitti non si isolano chirurgicamente: semmai si mondializzano, deflagrano devastanti e producono migrazioni bibliche. Vi è oggi inoltre una separazione crescente nelle nostre coscienze, che ci fa percepire noi stessi lontani dagli altri, da quelli che vivono e muoiono nei teatri di guerra. Loro i barbari in guerra, noi l’Occidente.
Aleppo non è stata salvata perché salvarla avrebbe significato che abbiamo capito cos’è la pace: non l’abbiamo capito, è mancato un realismo di pace che componesse gli interessi in campo, e abbiamo scelto la guerra, ma la guerra è un inganno.
Come agire, si chiede Riccardi, che fare, se abbiamo perso anche la capacità di indignarci
Occorre recuperare l’impegno civile, e questo si nutre di cultura: aumentare il livello di cultura geopolitica è fondamentale alla comprensione di ciò che accade (indispensabile oggi come conoscere l'inglese) e per evitare chiavi di lettura di tipo moralistico; occorre diffondere la passione, specie in un oggi in cui le periferie cittadine hanno cessato di essere luoghi d’incontro e di impegno civile, e i movimenti per la pace sembrano essersi estinti già dalla guerra in Iraq.
Ed occorre una politica comune europea. E’ necessario agire per la pace anche localmente, nelle odierne periferie atomizzate dove più facilmente si insinua il terrorismo. L’integrazione è una via possibile, e passa attraverso la cittadinanza: ma l’Italia che attende ancora lo ius soli, ne è lontana. Occorre un’opinione pubblica europea esigente: in mancanza, saremo sepolti dai nostri isolazionismi.
La diplomazia non basta se è lasciata ai suoi rituali, se non risorge l’interesse per la pace e l’educazione quotidiana ad essa, se non avanza la consapevolezza che nel mondo globale le guerre non si vincono e non si perdono. E l’azione di governi nel chiuso dei loro laboratori non basta se manca il dialogo con l’opinione pubblica e se da questa non proviene un forte movimento civile contro la guerra.
Occorrono la forza e la passione di sognare l’abolizione della guerra.

Sara Di Giuseppe

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