Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
(Divina Commedia. Inferno, c.V , vv.130-132)
È pittura, è scultura, è cinema perfino, la lingua di Dante, il suo endecasillabo contiene la purezza dell’italico suono e tutte le possibilità espressive consentite all’umano.
Muove da qui stasera l’attore-solista: che solista oggi non è, perché la voce della chitarra sciabola lo spazio e graffia, percuote, chiama, in tutt’uno con la voce umana, e insieme - Vincenzo e Danilo - scolpiscono quel loco d’ogne luce muto, Inferno di pena e disperazione che dei dannati stravolge le sembianze, frantuma la voce.
Come quella di Francesca, che nell’imponente impianto acustico si fa suono scosceso e roco, grumo di dolore nell’espiazione eterna, per divenire poi narrazione dolente, rimpianto di dolcezza assaporata appena e subito perduta - Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria - e stupore, quasi, per quella forza incoercibile d’amore che perderà gli amanti quando la lettura galeotta di Lancialotto come amor lo strinse, disvelerà a entrambi la reciproca attrazione e impallidirà i volti nell’incontro degli sguardi… Ma solo un punto fu quel che ci vinse…
[Rifletterà più avanti col suo pubblico, il nostro attore solista, rendendo con travolgente chiarezza la contemporaneità del poeta: quella sciabolata di luce gettata nella profondità del cuore umano attraversa 700 anni e viene a dirci oggi, nel nostro martoriato presente, che la follia del mondo dovrà trovare sì, anch’essa “solo un punto”: quello che basti non per esserne vinti come i due infelici amanti bensì per convergere e rinsavire, e da un oggi in avaria dell’umano uscire alla piena luce di una ritrovata umanità; dallo stato bruto di pecore matte - nel quale continuiamo a precipitare perché è caduto il respiro che univa l’uomo alla pena / dell’uomo - riemergere alla coscienza di un diverso orizzonte che ci renda degni di salvezza.
“Solo un punto” potrebbe bastare, o non ci resterà che attendere il primate futuro* che torneremo ad essere].
Ma è iniziato ben prima del quinto Canto, stasera, il viaggio poetico-musicale della “macchina narrante e concertante”: la voce e le percussioni di Vincenzo, le chitarre di Danilo mescolano il tessuto sonoro alla duttilità dell’endecasillabo dantesco, si fanno partitura musicale di un’architettura linguistica che mai fu più alta dal Trecento a noi.
Nel “brivido allucinatorio” che ne deriva, lo spazio intorno a noi si fa altro e ci scaglia nell’oltremondo dantesco, nell’aria sanza tempo tinta, nell’assenza di tempo e di luce che è assenza di speranza.
E dallo smarrimento nella selva all’incontro con le tre fiere, all’intervento salvifico di Virgilio, ai dubbi del poeta che Beatrice illumina e dissolve, fino all’impatto brutale con la disperazione dei dannati, è sempre la sostanza umana del poeta che s’interroga, che si dibatte tra la pietà per i dannati e la profonda coscienza morale e religiosa che gli impone di accettare la divina giustizia.
Da qui in poi - la porta infernale e la terribile scritta alla sua sommità, le anime che Caronte spinge sulla barca e batte col remo qualunque s’adagia, le schiere degli ignavi alla cui viltà si rivolge il disprezzo del poeta e del suo maestro, il dolcissimo incontro con Virgilio, le ombre antiche, gli spiriti magni nel Limbo, le creature infernali e mitologiche – l’esperienza extrasensoriale del poeta procede in un trapasso incessante dal particolare all’universale: poiché di continuo la politica e la storia, e l’esperienza viva e terrena del poeta irrompono nell’incontro con le ombre dei dannati.
Ed è confronto incessante con la propria materia di uomo, è messaggio morale che nell’accorata pietà per l’umanità tragica di Francesca e di Paolo trova uno dei punti più alti: nella fragilità di Francesca il poeta vede rispecchiata la propria, e al tempo stesso cade la fede stilnovistica nell’amore-virtù; la certezza dell’amore come forza che sublima e innalza cede all’impatto con la visione dell’amore che uccide: il poeta ne è sopraffatto, e venni men, sì com’io morisse.
Continuerà negli incontri a venire, il viaggio dell’instancabile macchina attoriale - nostra navicella di salvezza - nel verso e nell’oltremondo dantesco: con noi pochi e privilegiati viaggiatori spinti da bisogno di volare, stregati dal moto ondulatorio e sussultorio dei versi e della musica.
Abbiamo bisogno di quel canto poetico.
Incapaci di decifrare l’insensato presente, increduli al cospetto della barbarie che ci sovrasta e del silenzio di un mondo arreso, cercheremo ancora ostinatamente quel punto, solo un punto, che ci vinca e ci possieda.
*i corsivi sono tratti dalle raccolte poetiche di Giarmando Dimarti
Sara Di Giuseppe - 19 agosto 2025