19/02/25

Quando i cani non abbaiano più

L’idea che serpeggia nella nostra stampa è molto superficiale e analogica. Capisco la propaganda, il guaio è quando poi uno ci crede veramente, che è il dramma dei nostri giornalisti.

      [Luciano Canfora, intervista a Il Fatto Quotidiano, 16.2.’25] 

 

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      I cani da riporto, pardon i giornalisti della grande stampa nostrana, hanno smesso d’abbaiare, dopo averlo fatto per tre lunghi anni. La nobile missione: convincere noi popolino che, come ordinavano i padroni (Stati Uniti e NATO) dei loro padroni italioti, la guerra in Ucraina era guerra santa, che bisognava produrre e inviare sempre più armi - come volevano le lobbies delle armi e il loro ministro di riferimento, l’androide quasi antropomorfo Crosetto - e dobloni naturalmente: perché la guerra è giusta, perché la guerra è bella anche se fa male, e torneremo ancora a cantare e a farci fare l’amore dalle infermiere.

      E clown vestiti da corrispondenti di guerra indossarono giubbotti ed elmetti a chilometri di distanza dalle zone di combattimento per sturare il fiasco della retorica e della mistica belliciste. 
E a chi caldeggiava un accordo che mettesse fine alla follia, giù randellate mediatiche, insulti, liste di proscrizione.

 

      Soprattutto: vietati i negoziati, vietato anche solo parlarne, il pazzoide Zelensky li vietò per decreto, le diplomazie occidentali e in particolare Stati Uniti e Regno Unito di Boris Johnson bloccarono l’accordo tra Mosca e Kiev tracciato già nell’aprile del ’22.

 

      Demagogia e propaganda bellicista furono abbracciate con entusiasmo guerriero da una dezinformatsiya prona ai deliri dell’Europa asservita ai poteri politico-economici.

      Ora che la guerra è perduta, gli sgovernanti europei e i loro cani da riporto altro non sanno che frignare sull’irrilevanza dell’Europa, pestare i piedi per avere un posto a tavola, va bene pure uno strapuntino: come se i negoziati non li avessero proprio loro esclusi, banditi, osteggiati boicottati per tre anni ogni volta che anche soltanto se ne accennava, ostracizzato chi lo faceva (Francesco compreso); come se non avessero dato fiato alle trombe di guerra, come se ai tromboni della stampa appecoronata (cioè quasi tutta) gliene fosse mai importata una cippa dei miliardi buttati in armi, e dei morti, e dei mutilati, di una generazione scomparsa, di un’economia europea distrutta e immiserita nel grado di civiltà e nei bisogni essenziali proprio dalla corsa agli armamenti.

      Ecco allora, provvidenziale per rinfocolare l’ira e il giovanil furore di un sistema mediatico al minimo storico di credibilità e indipendenza, la lectio magistralis di Mattarella a Marsiglia: sbagliata e da bocciatura storiografica ma bastevole a ridar fiato a tutto il cucuzzaro delle prefiche di regime strette a coorte intorno al presidente (come attorno ad un generale pazzo che ti manda alla guerra) per lanciare anatemi all’indirizzo della cagna sovietica che osò protestare. 

      Sì, perché la portavoce del governo russo ebbe l’ardire d’incazzarsi, la sciagurata, per essere stato il suo paese paragonato al Terzo Reich; e da chi, nientepopodimeno? - come ha ricordato la cagna comunista - dal presidente di uno Stato che proprio del Terzo Reich fu alleato e di quello condivise le nefandezze salvo poi fare una giravolta e oplà. 
Proprio come adesso che, dopo aver sostenuto, fomentato, armato, finanziato la guerra, osteggiato ogni trattativa e farneticato di vittoria ucraina scodinzolando dietro alla presidente a sonagli Ursula Vondertruppen, piagnucola per avere la prima fila nella foto ricordo della trattativa di pace, e si indigna perché quelli che liberarono l’Europa dal nazifascismo s’incazzano nel sentirsi paragonati al Terzo Reich.

 

Insomma, a forza di abbaiare, i cani da riporto italioti hanno perso la voce e gli è rimasto solo un imbarazzante viscerale borborigmo.

 

      Ma sono in ottima compagnia: tutto il circo della politica - nessuno escluso - s’è levato come un sol uomo a difesa del capo dello stato, mentre l’ostinato silenzio di quest’ultimo riusciva - era prevedibile - a far incazzare quelli ancora di più. Quando sarebbe bastata, a spegnere l’incendio, una letterina di scuse: c’è stato un qui pro quo, non volevamo dire quello, siamo stati fraintesi, voi non sapete l’italiano (neanche noi..), scurdammece ‘o passato e nemici come prima.

 

      Sarebbe bastato che Mattarella, il firmatutto-firmafacile più amato dagli italiani, riconoscesse d’aver detto scempiaggini (capitava anche a Ribambiden); capisse che affermare “l’odierna aggressione russa all’Ucraina è della stessa natura del progetto del Terzo Reich in Europa” oltre ad essere offensivo per un popolo che il Terzo Reich lo ha combattuto sacrificando 25 milioni di vite, è una solenne manifestazione di crassa ignoranza storica, oltre che fuorviante e diplomaticamente rischiosa: inaccettabile perfino se detta tra anziani alla bocciofila, figurarsi da un capo di stato in lectio magistralis mentre gli danno l’ennesima laurea ad honorem.

 

- Insomma, tra gli errori palesi nel discorso di Mattarella (sorprendenti nel massimo rappresentate di uno Stato) e le esegesi a comando che ne sono state fatte, si legge in controluce non solo la cara vecchia russofobia all’aroma di naftalina anticomunista, ma un pernicioso impianto ideologico fondato sul pregiudizio che l’unico modello di “civiltà” possibile - ed esportabile - sia quello dell’occidente liberal capitalistico dominato dalle élites finanziarie. Lo stesso che nella storia più e meno recente ha dato ampia prova di sé in termini di intolleranza, repressione, prevaricazione dei diritti di libertà e autodeterminazone dei popoli.
 
Sara Di Giuseppe - 18 febbraio 2025

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