06/05/18

La triste storia del giullare del Castello de Arquata

Ho sempre sognato di viaggiare nel tempo e sono convinto che un giorno supereremo le barriere spazio-temporali e come nei film di fantascienza potremo spostarci nello scenario di varie epoche storiche. Uno dei miei desideri più reconditi è quello di trasferirmi nel medioevo e diventare un artista di quell'epoca. Mi sento un giullare, sognatore e fantasista sotto ogni centimetro della pelle. Sono quel genere di persona che non ha nulla e ha tutto. Che non vive per se stesso ma vive per gli altri. Che sogna storie ed immagini luminose e le racconta agli altri, a tutti coloro che hanno voglia di abbagliarsi e di sentirsi gli occhi lucidi. Ed eccomi proiettato ne lo Castello de Arquata nell'anno di Nostro Signore MCDXXVIII. Sono il buffone, il menestrello, il poeta di corte della Signora del maniero. Mi piace saltellare da uno sgabello ad una sedia, strimpellare il liuto e la ghironda con delicatezza, declinare versi amorosi, raccontare mille avventure di cavalieri e dame cortesi. Ogni stagione, ogni oggetto, ogni sensazione, ogni idea, è per me uno stimolo che si trasforma nella magia dello spettacolo. Quando vedo sorridere la mia Signora e la sua corte sono soddisfatto e mi sento realizzato. Ho imparato da solo ogni arte che potesse permettermi di agitare tutti i muscoli a scapito di un sorriso, semplicemente osservando e analizzando. A volte scendo nel Borgo cantando storie al fornaio la mattina presto, ai giovani bambini che giocano nella piazza, ai fraticelli del convento di San Francesco. Mi piace sentire la voce del popolo che corre di casa in casa : "arriva il cantastorie!" ed ogni volta è un'entrata trionfale. Con fatica e sudore sono entrato nel cuore dei miei Signori ed in quello del popolo. 
Una sera mentre tornavo al Castello da una serenata alla locanda di Borgo, la ripida strada in salita verso la Rocca mi parve diversa, più lunga, e intrapresi una scorciatoia. Avevo bevuto troppo e i passi erano incerti, forse anche per il freddo e la paura, e si bloccarono di colpo nel fango fetido quando vidi alcune fiammelle di torcia tremolare sotto la grata della gattabuia. Avvicinandomi presi posto dietro un grosso cerro e osservai uno spettacolo raccapricciante, proprio a fianco del muro a sud del maniero. Il corpo di un giovane pastore giaceva a terra sfracellato, il sangue colava sulle sue vesti lacere e si seccava mentre il viso impallidiva e gli occhi erano orribilmente sbarrati. Alzai lo sguardo verso i bastioni e vidi la mia Signora in compagnia delle guardie, aveva i capelli sciolti, scompigliati e sghignazzava con rabbia verso quel povero cadavere. Si girarono verso di me scorgendo la mia ombra tremolante sotto la luna piena, mi avevano visto, ero un testimone scomodo, e a quel punto scelsi di affidarmi all'unica cosa che mi riusciva bene. Essere un buffone. Saltai fuori dal nascondiglio con la calzamaglia stretta, incollata alla pelle coperta di sudore. Cominciai a strimpellare il liuto canticchiando una serenata, provando in tutti i modi a essere tranquillo, ma la voce tremante mi tradì e le guardie mi puntarono addosso le picche e le alabarde. Continuai il motivetto più a lungo che potei, cercando lo sguardo della Castellana, un suo gesto di pietà ma ella fece un cenno brusco con la mano e le guardie mi catturarono. In quell'istante compresi il mio destino, come una goccia d'inchiostro che cade sulla pergamena, rovinando il lavoro di ore e giorni, di tutta la vita. Il liuto mi scivolò dalle mani ed un brivido freddo mi invase la schiena. Il giorno dopo mi portarono nello stanzone della torre più alta, la Signora digrignava i denti. Cercai in tutti i modi di distrarla, con canzoni, balli, battute. La Castellana rimase immobile, spietata ed inflessibile. Poi finalmente mise una mano sulla mia spalla e ordinò alle guardie: "Giustiziatelo!". 
Allora mi arrivò all'improvviso una botta in testa tale da gettarmi al suolo in solo secondo, svenuto. E così eccomi qui. Il mento poggia su un ceppo di legno ed il collo è tenuto fermo da una corda che tira verso il basso. Al mio fianco sinistro un energumeno incappucciato tiene poggiata sulle spalle un'accetta dall'aspetto poco rassicurante e davanti ho tutta la piazza del Borgo di Arquata piena di gente. Nessuno può mancare quando qualcuno viene giustiziato. Osservo tutti i volti di coloro che sono qui per me, leggo i loro occhi, le loro labbra, ma non vedo pietà. Eppure a tutti loro ho lasciato qualcosa, nel bene o nel male. Finalmente ho la certezza di sapere da sempre il senso della mia vita. Questo lasciarà un'impronta. Forse non in tutto il contado, forse non nella storia di tutti, ma sicuramente nel cuore di chi ha voluto. Si perché tutti loro di me porteranno un ricordo, una poesia, una storia. La mia arte li ha avvolti in un abbraccio e così è stato per tutta la gente che ho incontrato. Ora si accorgono che non ho più paura e che li sto osservando con una certa commozione e rispondono al mio sguardo con leggeri cenni del capo, piccoli sorrisi, qualche lacrima. Smuovo leggermente la testa, faccio una pernacchia a tutti e intanto l'accetta cade pesante sul mio collo… grazie a Voi!

Il senso della vita è il desiderio di felicità. Il mio strumento per donarla è lo scrivere. 
Spero di trasmettervene un po'.

Vittorio Camacci - 5 maggio 2018


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