01/04/17

Dance Dance Dance. Tony Momrelle al Cotton Jazz Club di Ascoli Piceno


Quando “accorda” la voce ci ricorda inevitabilmente Stevie Wonder. È l'intro ai suoi brani che ci riporta a Someday at Christmas, e il black-Wonder sembra agitarsi alle sue spalle. Abbiamo pensato: “Un cover vocalist no, per carità”.
Poi ci sono venuti in mente rifacimenti storici che hanno offuscato gli originali. Volete mettere Yesterday cantata da Ray Charles o With a Little Help for my Friend fatta da Joe Cocker? E se in queste occasioni sono quasi scomparsi i Beatles, anche Stevie può fare un passo indietro senza sentirsi implicato in un complotto di lesa maestà.
Il fatto è che se l'immenso Wonder avesse trent'anni di meno, canterebbe esattamente come Tony Momrelle, quarantatreenne inglese dall'anima black che più black non si può. Di Wonder c'è l'impostazione, il tono della voce, le note basse e acute che impediscono una interpretazione monocorde e portano per mano l'ascoltatore a sviscerare stili e generi difficili da cavalcare nel corso di una sola serata.
L'inizio del concerto non ci colpisce (a parte i vocalizzi wonderiani) il resto ha bisogno di rincorsa. La voce necessita di riscaldamento, di immergersi nella solida base ritmica e armonica che la sua band gli regala. Le corde vocali, vivaddio, sono umane e per esprimersi al meglio hanno bisogno di andare, di dispiegarsi, di calore e vibrazione. Keep Pushing (il brano che da il titolo al suo ultimo CD), non si spiega come vorremmo ma il feeling con il pubblico, che durerà tutta la serata e anche oltre, si palesa immediatamente.
È empatico da morire, Tony Momrelle. Anni trascorsi sui palcoscenici di tutto il mondo con Elton John, Gloria Estefan, Celine Dion, Sade, Janet Jackson, Gary Barlow, Andrea Bocelli, Gwen Stefani, Gabrielle, Robert Palmer, Beautiful South e il gruppo Gospel Seven, a qualcosa sono serviti. Poi si scalda anzi, la voce si scalda e il concerto cambia marcia fino alla bellezza struggente di It's Real, un brano voce e piano che almeno per un po' ci fa sognare, e di questo lo ringraziamo sentitamente.


La band è composta da fior di professionisti, e non poteva essere altrimenti perché con una voce come quella di Tony Momrelle, il bravo artista sa che deve fare un passo indietro e “accontentarsi” di accompagnare. Eppure, pur svolgendo egregiamente il loro compito, Julian Crampton al basso elettrico, Emiliano Pari alle tastiere, Christian Mendoza alla chitarra e Alessio Barelli alla batteria hanno avuto anche loro, nel corso della serata, il momento per mettere in mostra le qualità virtuosistiche delle quali sono in possesso.
Chi più, chi meno, c'è riuscito ma dopo un concerto simile ci sembra quasi capzioso giudicarli uno a uno, andando per amor di “pelo nell'uovo” a ricercare gli alti e i bassi. Christian Mendoza, messicano d'origine, quasi in ombra nella prima parte del concerto, nella seconda è risorto a nuova vita e, perdonateci l'accostamento sicuramente figlio delle comuni radici native, in alcuni assoli ci ha ricordato Carlos, sì, proprio Santana anche se privo delle sonorità latino-americane che contraddistinguono il “mostro”.
Poi, il delirio. Invitato a ballare come se ci trovassimo in una discoteca e gli amplificatori trasmettessero note derivate dal Rhythm and Blues, dal Funky, dal Soul, dal Gospel, dalla House Music, dal Rock e dalla Fusion, il pubblico si è scatenato dissacrando lo spazio jazzistico puro e duro del Cotton Lab.
Ma di dissacrazioni così ne vorremmo sempre, perché quando la musica è buona e ben suonata, iniziare ad agitarsi fino all'abbozzo di danze che hanno bisogno solo di ritmo e non di particolari coreografie, ci sembra un gesto rivoluzionario, quasi liberatorio. Noi, purtroppo, da sempre abituati a far ballare piuttosto che farlo noi stessi, abbiamo assistito all'evento con l'immobilità tipica di chi apprezza ma non può.
Un solo bis, con un drink in mano per poi concedersi agli immancabili selfie. Urca che concerto! Urca che serata!

Massimo Consorti 

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