14/12/16

"Da una casa di morti" di Leoš Janáček al Teatro Nazionale di Praga


          Magistrale allestimento al Teatro Nazionale di Praga per l’opera di Leoš Janáček, “Da una casa di morti”: l’ultima del grande compositore moravo, completata appena un mese prima della morte (agosto 1928) e travagliata da rimaneggiamenti postumi per il suo carattere sicuramente estraneo alle convenzioni dell’epoca (solo gli anni Cinquanta ne riprenderanno la versione originale rendendole giustizia, rispettosi del libretto e del testo musicale di Janáček). 
        Tratta dal dostoevskijano Memorie da una casa di morti, è di sconvolgente modernità quest'  “opera nera – così la definisce il compositore – “in cui  mi pare di scendere un gradino dopo l’altro fra i più miserabili degli uomini”, e dove la ristretta collettività di reclusi è, nella sua dimensione atemporale, paradigma di milioni di destini umani in universi concentrazionari passati e presenti. 
      Tutto è dolore nel claustrofobico microcosmo solo maschile di detenuti, disperato carcere siberiano per criminali e assassini senza riscatto, spogliati di umana dignità, anime sofferenti e abbrutite che la perdita di sé trasforma da carnefici in vittime.
        Opera priva di intreccio eppure tutt’altro che statica: non vi è protagonista in questa casa di morti, solo individualità che escono dall’ombra dell’indifferenziata massa di non-uomini e narrano se stesse; le storie di AljejaLukaSkuratovŠiškovŠapkin e di altri accendono una luce opaca e breve su questi ultimi della terra; reietti segnati dalla violenza e dal disamore ma in cui nostalgia e disperazione possono anche elevarsi in un evangelico “Signore pietà”. Perché “In ogni creatura una scintilla di Dio”, scrive in epigrafe alla partitura lo stesso Janáček, (che proprio negli stessi anni compone la grande, ispirata “Messa glagolitica” nella quale “dà voce al suo credo personale, profondamente umanistico”).


        Il tessuto musicale è incalzante, a volte invadente fino a stravolgere la voce stessa che narra; ora esplode in vigoroso tema di fanfara come nell’Ouverture; ora esaspera le dissonanze armoniche quando la scena è più allucinata; e si fa crudo nel delirio della follia, nostalgico a sottolineare lacerti di memoria subito persi nell’oblio; echi di canti popolari irrompono, sonorità austere si innalzano compassionevoli da una palpitante umana pietas, accompagnano con straziante dolcezza il coro dei detenuti che vanno al lavoro  (“I miei occhi non vedranno più la terra dove sono nato…”).
        Ecco allora il folle Skuratov invocare Luiza, che ha amato e per la quale ha ucciso; ecco Luka che narra l’assassinio del comandante che lo ha umiliato, e nel campo morirà di stenti; ecco l’intellettuale Gorjančikov, unico prigioniero politico, gettato in scena - fra il martellare dei timpani - con la schiena sanguinante per le cento frustate, le cui urla scuotono appena l’indifferenza degli altri, e il cui arrivo e la cui liberazione delimitano l’azione drammaturgica dei tre atti; ecco - in una scena di caldo lirismo musicale - il giovanissimo tartaro Aljeja che racconta della sua famiglia, e della madre lontana che lo visita nei sogni, all’attento sensibile Gorjančikov che cercherà di insegnargli a leggere e scrivere. 
        Barlumi di poesia e umanità, di nostalgia e d’amore subito precipitati nell’apatia dell’impotenza, nella violenza della rissa continua che si riaccende ad ogni scintilla, o sopraffatti dall’unica distrazione concessa nello spesso grigiore del lager: la “festa” e lo spettacolo allestito dai detenuti. Vero teatro nel teatro, qui la partitura diviene balletto, si fa canto popolare stravolto, mimo volgare e trasgressivo nell’allusione esplicita alla “dimensione di omosessualità immanente all’orizzonte carcerario”. Un’oscena bellezza pervade questa mimica violenta, lo sghignazzo dei travestiti, la feroce allegria di questi naufraghi; momenti destinati a perdersi nell’ennesima rissa, nell’irrompere delle guardie dal volto gessato di sinistri clown.
        Nell’allestimento praghese non vi è la prostituta, unica figura femminile dell’opera, presente alla festa nella partitura originale. Vi si materializza invece come figura danzante e silenziosa, evocata dalla narrazione di Šiškov, il fantasma dell’infelice Akulka ingannata e uccisa. Caduto il sontuoso abito rosso del suo apparire in scena, resta un corpo seminudo e fragile la cui danza muta e disperata accompagna il lungo racconto - quasi l’intero terzo atto - del prigioniero: l’innocente, calunniata Akulka, datagli in sposa per riparare alla colpa mai commessa, e da lui uccisa nel bosco dove l’ha condotta e pugnalata dopo averle ordinato e atteso che pregasse l’ultima sua preghiera…
        Anche l’aquila zoppa, oggetto di gioco e scherzo dei detenuti nel libretto originale, è qui sostituita dalla disastrata carcassa di un pianoforte a coda, ad occupare una parte consistente della scena: come (nell’originale) l’aquila incapace di volare si alzerà infine libera nel cielo, così il pianoforte, tornato integro nel suo lucente nero - ad arricchire la trama di motivi simbolici - verrà issato in alto - ma capovolto - mentre si annuncia la liberazione del detenuto Gorjančikov. Il dolente saluto di questi all’amico Aljeja, il coro dei detenuti che infiammandosi intravede nella liberazione del compagno di pena una possibile luce, sono solo momenti: illusioni brevi di redenzione, tutto torna nel buio, ogni speranza si azzera nel “tragico ritorno dell’uguale”.
        Uniformità tangibile fin nei colori della scena: nel grigio delle casacche dei detenuti - con le variazioni bianco-sporco del succinto vestire dei mimi - spezzato solo dalle verdi divise dei carcerieri con la loro maschera grottesca; nel bianco/nero del frac di coro e interpreti - scelta inconsueta e sorprendente tenuta di gala nel terzo atto - in mezzo ai quali si apre come un fiore insanguinato il rosso abito di Akulka.


        Spettacolo emozionante, di pari asprezza e bellezza, per una regia colta, innovativa fino alla trasgressione, originale nell’impianto complessivo come nei dettagli: fin dall’Ouverture, durante la quale uno ad uno i principali “detenuti” - in frac! - al perentorio cenno della guardia balzano sul proscenio e, dopo aver mimato con goffa enfasi i gesti di un’improbabile direzione d’orchestra, si prestano al flash della foto segnaletica, di fronte e di profilo e con tanto di cartellino con nome - Kuzmik, Skuratov, Čekunov ecc. - poi il carceriere/minosse spedisce ciascuno al proprio inferno. 
Gli eccellenti interpreti - dai ruoli principali al coro, dal portentoso gruppo dei mimi alla danzatrice, l’intensa Jana Vrána - cesellano la preziosità di un’ opera che lo stesso Janáček definiva “un cammino difficile”, che lo impegnava quasi dolorosamente “come se il mio sangue dovesse sgorgare fuori” (così scriveva alla cara amica Kamila Stösslová).
        In perfetta fusione tra parte musicale e momenti scenici, l’Orchestra del Teatro Nazionale, nella doppia direzione di Robert Jndra e David Švec, sapientemente tratteggia il cupo orizzonte di questa casa di morti, definisce con precisione la peculiare atmosfera di ciascuno dei tre atti con arditi trapassi da sonorità cupe e sinistre a squarci lirici di potente suggestione; rende con pienezza il colore orchestrale “di audacia e novità prodigiose” di un’opera - scrive l’attento studioso di Janáček, John Tyrrell - “in anticipo sui tempi, che imbarazzò i suoi contemporanei e che forse solo oggi siamo nella condizione di ascoltare e comprendere”.

Sara Di Giuseppe

Nessun commento:

Posta un commento