13/10/14

Class enemy. L'emozione in un preludio

Sapete cosa sono i rituali? Alzandovi voi compite un rituale e mi dimostrate così che non siete degli animali. Nella mia classe, durante le mie lezioni, sarete degli esseri umani.
E’ il prof. di tedesco che parla, uno che ha scelto Thomas Mann come autore dell’anno, che sorride poco perché non è stato assunto per farlo, perché non ritiene sia cosa automatica diventare
l’”amicone” degli alunni e salire sui banchi per farsi amare di più.
Uno che quando sente Sabina suonare con la mano fresca e un po’ esitante di ragazza di sedici anni il Preludio op. 28 n.15 di Chopin sul piano della scuola, si ferma attento ad ascoltarla, senza badare se l’aula è vuota e si rischia di passare per pedofili chiudendo la porta rispettando il silenzio che la musica esige. Sabina è timida, incerta, irresoluta, non inserita nel gruppo come le altre, grandi occhi verdi sempre sul punto di riempirsi di lacrime. Il prof. le chiede una definizione della parola “fallito”, vuole che parta dalla forza delle parole per imparare a combattere nella vita. Ma Sabina suona meglio di quanto non sappia il tedesco e non bastano Chopin e un prof. “diverso” se tutto il resto è un mondo alieno.
Allora apre con decisione una porta e un lampo di luce abbaglia lo schermo. La notizia del suicidio la darà il prof. di tedesco alla classe.
Vincitore del Premio Fedora alla 70ª Mostra di Venezia, selezionato dalla Settimana della Critica e candidato all’European Award, Rok Biček, giovane regista sloveno, ha idee chiare e coraggio, quello che serve per non stare da nessuna parte e confezionare un film indipendente capace di farsi strada da solo, con pochi mezzi ma grandi idee.
Il consiglio è vederlo del tutto sguarniti di letture precedenti, notizie sull’apparato critico, note di regia e quant’altro. È utile esercizio lasciarsi guidare solo dalla visione pura, cercando di indovinare dove siamo, con chi siamo, chi e cosa ricordiamo. Benché i nomi mettano sulla strada giusta (Zdenka, Sasa, Nusa, Matjaz, Tadej sono inconfondibilmente slavi) ci sono anche Sabina, Robert e Chang ad aprire scenari interetnici ormai consueti in una scuola che non si trovi nel sud del mondo.
Possiamo quindi tranquillamente riferire a noi, o a chiunque viva al di qua del cosiddetto 38esimo parallelo, quell’esemplare scontro generazionale fatto crescere, maturare ed esplodere in una qualsiasi high school mediamente attrezzata, popolata da alunni normodotati e guidata da dirigenza e corpo insegnante dai requisiti standard, cioè pienamente rispondenti ai parametri richiesti per assunzioni che poco spazio lasciano al merito, molto ad asettici punteggi di anzianità di servizio, numero di figli, vecchi nonni disabili a carico e varie ed eventuali.
Se in un corpo scolastico così composto arriva l’insegnante “diverso”, e per diversità non intendiamo colore della pelle o fede religiosa, diverso è chi ancora crede si possa insegnare a pensare con la propria testa, allora la defliagrazione è inevitabile, alle porte, pronta ad esplodere.
Il suicidio di Sabina innesca tutto il circo mediatico dei pregiudizi che diventano metro di giudizio, fa diventare Vangelo i mormorìi del giorno prima, il gossip da corridoio o spogliatoio assurge al rango di verità conclamata. In un clima di sospensione che sta tra Seidl e Haneke ma se ne distanzia per una solida asciuttezza di tono, refrattario a simbologie, metafore e retrogusti vari, Biček sa trasformare la biografia in storia, conducendo con mano sicura la macchina in un kammerspiel che non dà tregua a nessuno dei personaggi in scena, mentre dosa sapientemente la dialettica che è l’anima del film (insegnante/classe, scuola/famiglia, vecchi/giovani, giovani/giovani) costringendo a rifiutare il cosiddetto “partito preso”. Ragioni e torti stanno da entrambe le parti, restituirci una capacità di giudizio critico è impresa prometeica e, come Prometeo, si rischia la rupe del Caucaso per trentamila anni. Insegnare tedesco, essere molto esigenti (davanti alla parola in tedesco va l’articolo, neanche la Preside può ignorarlo!) non ricorrere a facile populismo e ridicolo giovanilismo per blandire chi un tempo terrorizzavamo e ora ci fa paura, tutto questo apre ad accuse che vanno dall’essere nazista al sospetto di pedofilia, dal sadismo a chissà quale altra perversione.
Biček chiude in una bolla trasparente ma impenetrabile il conflitto, che così diventa modello di comportamento sociale ad ampio raggio, esportabile a qualsiasi latitudine. È la morale/immorale dell’orda, della muta, per mutuare il termine da Canetti che per primo ne studiò i meccanismi (Massa e potere, 1960). Specchio di un mondo esterno da cui i protagonisti hanno assorbito tutto il corredo mentale e comportamentale di cui sono portatori, la scuola diventa il ring di una partita molto combattuta con alterna vicenda. I modelli sono tutti in vista, i colpi, bassi o regolari, sono comunque colpi e c’è chi non li regge, come Sabina. Forse perché è una figlia adottata, forse perché nessuno della classe è mai andata a casa sua a trovarla, forse perché nemmeno la compagna di banco sa niente di lei e il prof. le dice la cosa giusta, ma è troppo tardi, forse per tutto questo Biček decide di uscire da quella scuola solo per la gita scolastica di fine anno.
Sabina sarà con la classe su quel battello che taglia l’acqua in una scia spumeggiante. Il suo piccolo fantasma triste gira fra i compagni che strimpellano e cantano, ma noi ascoltiamo Chopin mentre lei si ferma a poppa a guardare il mare, verde, come i suoi occhi.

Paola Di Giuseppe

Class enemy
Slovenia 2013, durata 112’

regia di Rok Bicek con Igor Samobor, Natasa Barbara Gracner, Tjasa Zeleknik, Masa Derganc

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