13/07/14

Il “SOGNO” di Tim Robbins. Shakespeare al Festival dei Due Mondi di Spoleto

"Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti
i sogni , e la nostra vita è circondata dal sonno"
W.Shakespeare

Nostro articolo. Curioso effetto, riemergere al prepotente sole di luglio, al silenzio assorto del chiostro di San Nicolò, alla calura che pietrifica il primo pomeriggio: per quasi tre ore il “Sogno” ci ha posseduti, tra le ombre e le maschere di questo Teatro che già fu chiesa trecentesca e centro culturale che Lutero visitò ammirato e dove oggi il genio shakespeariano incontra una regia di genio.
Con modernità e rispetto, Tim Robbins affronta la complessità drammatica di una commedia in cui l’esperienza onirica “rovescia le categorie di realtà e illusione […] per sfiorare il tema centrale del sogno che è più vero della realtà” (M.Garber). Se il conflitto realtà-apparenza, il rapporto mondo spirituale-mondo secolare, la natura dell’amore, la contrapposizione ragione-follia, compongono la sostanza ideologica e filosofica del “Sogno”, la regia di Robbins ne coglie acutamente anche la dimensione metateatrale e metadrammatica.
Le tre trame su cui la commedia si muove – il mondo reale della corte ateniese, quello fantastico del bosco, quello dell’arte con la messa in scena dell’interludio finale per le nozze – si alternano ciascuna coi propri linguaggi e le proprie dinamiche; e di questi mondi sospesi fra realtà e sogno, materiale e immaginario, il più vero e per questo forse il più “comico” appare quello della finzione per antonomasia: quello degli attori con il loro dramma nel dramma, ciò che fa del Sogno soprattutto una commedia sul teatro.
La versione di Robbins e la felicissima realizzazione della Actor’s Gang offrono un allestimento lontano da qualsiasi spettacolarizzazione: nessun orpello o arzigogolo, spicca solo la magnifica prova attoriale della compagnia (che, nata nel 2004 con una forte connotazione sociale, con lo stesso Robbins promuove spettacoli educativi nell’area di Los Angeles e laboratori teatrali per detenuti). La scena è nuda, solo scaffalature ai lati, da cui gli attori prelevano e indossano i costumi direttamente sul palco, entrando e uscendo “come i giocatori di una partita di basket”; il parallelismo fra i diversi mondi del dramma è enfatizzato dall’espediente del singolo attore che interpreta due personaggi (Teseo e Oberon, Titania e Ippolita, Puck e Filostrato ecc.)come già nell’innovativa messa in scena di Peter Brook a Stratford negli anni settanta; la musica dal vivo ne è parte integrante, affidata alla viola da gamba di Mikala Schmitz e alle percussioni di Dave Robbins, fratello/fotocopia – solo più giovane – del regista. Unica concessione, forse, ai trascorsi hollywoodiani di Robbins (fra l’altro, splendido premio Oscar per Mystic River) l’esilarante finale in cui i personaggi della corte ateniese assistono con occhialini 3D all’interludio degli artigiani/attori con la loro parodia di Piramo e Tisbe (anticipatrice a sua volta della tragedia di Romeo e Giulietta).
La recitazione è in lingua originale (provvidenzialmente sottotitolata, ma ahinoi col display scaraventato quasi sul soffitto): non paludata alla Lawrence Olivier bensì fedele alle forme dell’antico inglese shakespeariano, colto e solido impianto linguistico per un’azione scenica in continuo divenire e in caotico sovrapporsi di realtà e finzioni, mito e quotidianità, sogno e magia: gioco di chimere il cui senso è la messa in discussione della superiorità della ragione sull’immaginazione. Nell’intreccio divertente e spesso crudele degli equivoci e degli incantesimi, la commedia si delinea infine come teorema dell’amore e della ingovernabile casualità con cui gli umani si incontrano e si amano senza possibilità di controllo.
“Coi suoi comportamenti scandalosi e selvaggiamente divertenti – osserva il regista – questa pièce teatrale ha così tanto da dirci a proposito di un mondo in disordine e su come l’amore può essere la chiave per mettere tutto a posto”. La standing ovation del pubblico lo chiamerà poi sul palco, dalla platea da cui ha seguito lo spettacolo - compresso anche lui come noi tapini tra le file troppo strette delle poltrone - perché si unisca ai suoi travolgenti 14 attori. Anche stavolta il teatro ha aristotelicamente assolto la sua funzione catartica, per questo forse le domande irrisolte sul nostro esistere ci appaiono un po’ più leggere, mentre usciamo nell’aria senza tempo del Chiostro.

Se noi ombre vi abbiamo irritato non prendetela a male, ma pensate di aver dormito, e che questa sia una visione della fantasia… noi altro non v’offrimmo che un sogno”



Sara Di Giuseppe

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